Kostenlos

Alla conquista di un impero

Text
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

7. Il rajah dell’Assam

L’indomani, due ore dopo il mezzodì, un drappello che destava non poca curiosità fra gli sfaccendati che ingombravano le vie della capitale dell’Assam, s’avanzava a passo militare verso il grandioso palazzo del rajah che torreggiava sulla immensa piazza del mercato.

Si componeva di sette persone: d’un inglese, più o meno autentico, vestito correttamente di bianco con un cappello di tela grigia adorno d’un gran velo azzurro che gli scendeva fino al di sotto della cintura, e di sei malesi, vestiti però all’indiana, con casacche verdi ricamate, ampi calzoni rossi, grandi turbanti in testa di seta variegata e armati di carabine splendide dalle canne rabescate ed i calci intarsiati d’avorio e di madreperla, pistole a doppia canna alla cintura e scimitarre al fianco.

Erano tutti begli uomini, d’aspetto feroce, membruti e dagli occhi cupi e sinistri. Non erano che sei, eppure dal loro aspetto si comprendeva facilmente che non avrebbero dato indietro nemmeno dinanzi ad una compagnia di cipay bengalesi.

Giunti dinanzi al palazzo reale, che era guardato da un drappello di guardie, armate di lance che avevano la lama larghissima, l’inglese arrestò con un gesto i suoi uomini.

– Che cosa vuoi sahib? – chiese il comandante delle guardie, avanzandosi verso l’inglese, mentre i suoi uomini mettevano le picche in resta, come se si preparassero a respingere un assalto.

– Vedere rajah – rispose Yanez.

– È impossibile, sahib.

– Perché?

– Il rajah sta colle sue donne.

– Io essere grande mylord inglese amico della regina ed imperatrice Indie. Tutte porte aprirsi davanti a me mylord John Moreland.

– Il rajah non ama ricevere gente dalla pelle bianca sahib.

– No, sahib, io essere grande mylord!

– Il rajah non riceverà nemmeno un mylord. Non desidera vedere alla sua corte degli europei.

– Tu essere uno stupido, brutto indiano. Andare a dire a principe tuo che io avere trovato la pietra di Salagraman della pagoda di Karia. Mylord avere uccisi tutti i ladri bricconi, perché io mylord non avere mai paura neanche delle vostre bâg admikanevalla.

Tu intanto mettere saccoccia questa mohr. Noi inglesi pagare sempre disturbo. —

Udendo quelle parole e vedendo soprattutto quella grossa moneta d’oro, che Yanez gli porgeva, come se fosse una semplice rupia, gli indiani della guardia si erano rimirati l’un l’altro con profondo stupore.

– Mylord – disse il capo, confuso – è proprio vero quanto hai affermato? —

Yanez fece segno ad uno dei sei malesi, che reggeva sulle braccia una specie di cassetta avvolta in un pezzo di seta rossa, d’avanzarsi, poi disse:

– Qui dentro essere la pietra di Salagraman che fu rubata da birbanti thugs. Va’ dire questo a Sua Altezza.

Ricevere subito me, mylord. —

L’indiano rimase un momento esitante, guardando l’involto, poi, come se fosse stato preso da una subitanea pazzia si slanciò sotto l’ampio porticato battendo furiosamente i gongs sospesi al di sopra delle porte.

– Finalmente, – mormorò Yanez traendo flemmaticamente una sigaretta dal suo portasigari ed accendendola. – Avremo da aspettare ma ciò non monta. —

I suoi uomini, appoggiati alle loro carabine, mantenevano una immobilità assoluta, spiando attentamente la guardia indiana che teneva sempre le lance in resta.

Era appena trascorso un minuto quando un vecchio indiano, vestito sfarzosamente, che doveva essere qualche ministro o qualche cortigiano, seguìto da parecchi ufficiali che portavano sul capo degli immensi turbanti, scese l’immenso scalone di marmo candidissimo precipitandosi verso Yanez.

– Mylord! – esclamò con voce affannata. – È vero che tu hai trovato la pietra di Salagraman? —

Yanez gettò via la sigaretta, lanciò quasi sul naso dell’indiano l’ultima boccata di fumo, poi rispose:

– Yes.

– Vuoi dire?

– Sì: avvertire subito Sua Altezza.

– La vera pietra?

– Yes.

– E come l’hai trovata?

– Io parlare solo a rajah: mylord non essere uomo da poco.

– Dov’è la pietra?

– Io averla e bastare: Sua Altezza non ricevere me ed io andare a vendere pietra.

– No! no! mylord!

– Allora rajah ricevere me e subito. Io soffrire spleen.

– Vieni avanti, ti aspetta.

– Aho! Essere io molto contento. —

Fece un segno ai malesi e seguì il ministro o favorito che fosse, salendo lo splendido scalone, su cui, ad ogni gradino, trovavasi una guardia armata di carabina e di pistole.

– Si capisce che questo sovrano non si ritiene troppo sicuro – mormorò Yanez. – Che abbia fiutato il vento infido? In guardia, amico e trombona bene. —

Sul pianerottolo s’aprivano quattro grandiose gallerie, tutte di marmo, con colonne contorte e adorne di teste d’elefanti che intrecciavano artisticamente le loro proboscidi. Ampie tende di seta azzurra e leggerissima, con trama d’oro, d’uno splendido effetto, scendevano fra i colonnati onde ripararle dai riflessi del sole e mantenere una certa frescura.

Lungo le pareti dei vasi enormi per lo più d’origine cinese reggevano dei colossali mazzi di fiori e delle foglie di banani. Anche in quelle gallerie v’erano numerose guardie che passeggiavano, armate di picche e di scimitarre.

Il ministro fece attraversare a Yanez ed alla sua scorta una di quelle gallerie, poi aprì una porta tutta di bronzo dorato e sculturata e li introdusse in una immensa sala tappezzata in seta bianca con ricami d’oro e che aveva all’intorno parecchie dozzine di divanetti di velluto bianco.

All’estremità, su una piattaforma di marmo, coperta in parte da un ricchissimo tappeto, si ergeva una specie di letto, su cui stava sdraiato, appoggiandosi ad un cuscino di velluto rosso, un uomo che indossava una lunga zimarra bianca.

Intorno a quella specie di trono, stavano quattro vecchi indiani che sembravano sacerdoti, e dietro di loro, schierati su quattro linee, quaranta soldati seikki, i guerrieri più valorosi che abbia l’India e che vengono assoldati in gran numero dai rajah per farsene una guardia fedele e sicura.

Il ministro con un gesto imperioso fece fermare i malesi presso la porta, poi prese per una mano Yanez, lo condusse verso il trono gridando ad alta voce:

– Salute a S. A. Sindhia, rajah dell’Assam! Ecco il mylord inglese. —

Il sovrano si era alzato, mentre Yanez si toglieva il cappello.

I due uomini si guardarono per qualche minuto senza parlare come se volessero studiarsi a vicenda.

Sindhia era un uomo ancora giovane, poiché non pareva che avesse più di trent’anni, però la vita dissoluta che doveva condurre, aveva già tracciata sulla fronte del tiranno delle rughe precoci.

Era nondimeno sempre un bellissimo tipo d’indiano, dai lineamenti finissimi, con occhi neri che parevano due carboni lucenti. Una rada barbetta nera gli dava un aspetto piuttosto truce.

– Sei tu il mylord che mi riporta la pietra di Salagraman? – chiese finalmente, dopo aver squadrato dall’alto in basso il portoghese. – Se è vero quanto hai detto al mio ministro, sii il benvenuto, quantunque io non ami gli stranieri.

– Sì, io essere mylord John Moreland, Altezza, ed io riportare a te conchiglia con capello di Visnù – rispose Yanez. – Tu avere promesso ricchezze, onori, è vero?

– E manterrò la promessa, mylord – rispose il principe.

– Ebbene io a te dare conchiglia. —

Si volse facendo cenno al malese che portava il cofano di avvicinarsi. Levò la seta che l’avvolgeva e andò a deporlo ai piedi del principe.

– Tu vedere prima Altezza, se quella essere vera pietra rubata.

– Vi è un segno sulla pietra che io ed i gurum della pagoda di Karia conosciamo benissimo – rispose il principe.

Aprì il cofano e prese la conchiglia facendola girare e rigirare fra le mani. Una vivissima gioia si era subito diffusa sul suo viso.

– È la pietra che fu rubata, – disse finalmente. – Mylord, tu sarai mio amico. —

Uno dei suoi cortigiani udendo quelle parole portò subito a Yanez una sedia dorata, facendolo sedere dinanzi alla piattaforma.

Quasi subito una diecina di servi, che indossavano dei costumi sfarzosi entrarono reggendo dei vassoi d’oro sui quali vi erano delle chicchere piene di caffè, bicchieri colmi di liquori, piattelli con gelati e pasticcini dolci.

Il principe e Yanez furono i primi serviti, poi i ministri, quindi i malesi della scorta.

– Ed ora mylord, – disse Sindhia dopo d’aver vuotato un paio di bicchieri di cognac, ingollati come se quella vecchia grappa fosse della semplice acqua, – mi dirai come sei riuscito a sorprendere i ladri e perché ti trovi sul mio territorio.

– Io essere qui venuto a cacciare le bâg – rispose Yanez – perché io essere molto grande cacciatore e non avere paura di tigri. Io averne uccise molte, tante nelle Sunderbunds del Bengala.

– Ed i ladri?

– Io essermi imboscato ieri notte per cacciare una bâg nera e grossa molto e…

– Una tigre nera! – aveva esclamato il principe sussultando.

– Sì.

– Quella che ha divorati i miei figli! – gridò Sindhia passandosi una mano sulla fronte che pareva si fosse coperta d’un gelido sudore.

– Come? Quella bâg avere mangiato…

– Taci, mylord – disse il principe quasi imperiosamente. – Continua.

– Tigre non venire ed io aspettare sempre – proseguì Yanez. – Sole stava per farsi vedere, quando io scorgere cinque indiani scappare attraverso bosco.

Dovevano essere thugs, perché io avere veduto ai loro fianchi, lacci e fazzoletti seta nera con palle piombo.

Io odiare quei bricconi e quindi sparare subito carabina poi pistole e ucciderli tutti, poi gettare cadaveri nel fiume e coccodrilli tutto mangiare.

– Ed il cofano?

– Averlo trovato a terra.

– E poi?

– Poi io avere udito tuoi araldi, ed io portare qui conchiglia col capello di Visnù perché non sapere cosa farne io.

 

– E che cosa domandi ora, mylord? – chiese Sindhia.

– Io non volere denaro, io essere molto ricco.

– Ma tu hai diritto ad una ricompensa. La pietra di Salagraman è per noi un tesoro impagabile. —

Yanez stette un momento silenzioso, fingendo di pensare, poi disse:

– Tu nominare me tuo grande cacciatore, ed io uccidere le tigri che mangiano tuoi sudditi. Ecco quello che io volere. —

Il rajah aveva fatto un gesto di stupore, tosto imitato dai suoi ministri ed aveva ben ragione di mostrarsi sorpreso.

Come! Quell’inglese originale invece di chiedere ricompense si offriva invece di rendere dei preziosi servigi, quali la distruzione di tutte le belve che tanti danni e tante angosce recavano ai poveri assamesi delle campagne?

– Mylord, – disse il rajah, dopo un silenzio abbastanza lungo. – Io ho offerto onori e ricchezze a chi avrebbe ricuperata la pietra di Salagraman.

– Io saperlo,– rispose Yanez.

– E non domandi nulla.

– Io essere contento cacciare bâg ed essere tuo grande cacciatore.

– Se ciò può farti felice, io ti offro alla mia corte un appartamento, i miei elefanti ed i miei scikari.

– Grazie, principe: io essere molto soddisfatto. —

Il rajah si tolse da un dito un magnifico anello d’oro che aveva un diamante grosso come una nocciuola d’una limpidezza meravigliosa e che doveva valere per lo meno diecimila rupie e lo porse a Yanez, dicendogli con un grazioso sorriso:

– Tieni almeno questo, mylord, per mio ricordo. Vorrei però chiedere a te, giacché sei un grande cacciatore, un favore.

– Io essere sempre pronto a farlo a S. Altezza, – rispose il portoghese.

Il rajah fece un gesto imperioso. I ministri e i seikki si ritrassero subito all’opposta estremità della sala onde non ascoltare ciò che doveva dire il loro principe.

– Ascoltami, – disse il rajah.

– Io ascoltarti, Altezza, – disse Yanez avvicinandosi.

– Tu mi hai detto di esseri recato nella foresta a cacciare la tigre nera. L’hai veduta?

– No, Altezza, – rispose Yanez, che cominciava a tenersi in guardia, non sapendo dove voleva finire il principe. – Io averne solamente udito parlare.

– Quella bâg un giorno ha mangiato i miei figli.

– Aho! Cattiva bestia.

– Così cattiva che si calcola abbia divorato più di duecento persone.

– Molto appetito quella bestia!

– Tu sei grande cacciatore, mi hai detto.

– Moltissimo.

– Vuoi provarti a ucciderla? —

Yanez con non poca sorpresa del rajah non aveva risposto. I suoi occhi si erano invece fissati su una doppia cortina di seta che pendeva dietro a quella specie di letto e che di quando in quando oscillava come se dietro si nascondesse qualcuno.

– Che cosa può essere? – si era chiesto il sospettoso portoghese. – Si direbbe che qualcuno suggerisce delle pessime idee al sovrano.

– Mi hai capito, mylord? – chiese il rajah, un po’ sorpreso di non ricevere risposta.

– Sì, altezza – rispose Yanez. – Io andare uccidere bâg nera che ha mangiato tuoi figli.

– Avresti tanto coraggio?

– Io mai avere paura delle tigri. Pum! E morte tutte!

– Se tu, mylord riuscirai a vendicare i miei figli, io darò a te tutto quello che vorrai. Pensaci.

– Io avere pensato.

– Che cosa vorrai?

– Tu avere commedianti a corte, Altezza.

– Sì.

– Io voler vedere commedie indiane e suggerire io soggetto ad artisti.

– Ma tu non domandi nulla! – esclamò il rajah, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

Un sorriso diabolico era comparso sulle labbra di Yanez.

– Noi inglesi essere tutti eccentrici. Io voler vedere teatro indiano.

– Subito?

– No, dopo aver uccisa tigre feroce. Io dare a mangiare a quella brutta bestia molto piombo.

Tu Altezza preparare domani elefanti e scikari, prima spuntare sole. Io preparare tutti miei uomini.

Lasciami andare ora: curare molto mie armi buone. —

Yanez si era alzato facendo al principe un profondo inchino.

– Addio, mylord! – disse il rajah porgendogli la destra. – Non dimenticherò mai quanto ti devo.

– Aho! Io non avere fatto nulla. —

I seikki ed i ministri si erano riavvicinati. I primi ad un cenno del rajah aveva presentato le armi al portoghese, il quale aveva risposto con un perfetto saluto militare.

Anche i sei malesi, dal canto loro, avevano alzato le carabine salutando il rajah.

Yanez attraversò a passi lenti la sala, accompagnato da due ministri; quando però fu presso la porta si volse bruscamente e vide, con non poca sorpresa, una testa comparire fra le cortine di seta che pendevano dietro il trono del principe. Quella testa era d’un uomo bianco, barbuto, con due occhi di fuoco.

I loro sguardi s’incontrarono, ma fu un lampo, poiché quell’europeo era subito scomparso.

– Ah! Birbante! – mormorò Yanez. – Eri tu che suggerivi al principe! Deve essere quel greco misterioso di cui mi ha parlato quel povero Kaksa Pharaum.

Quello deve essere più pericoloso di quell’imbecille di Sindhia, però mio caro, hai da fare con delle vecchie Tigri di Mompracem e puoi essere certo che ti mangeranno. —

Salutò i ministri che lo avevano accompagnato e uscì dal palazzo, salutato dalle guardie che vegliavano sulle gradinate e dinanzi al portone.

A breve distanza stava fermo il suo mail-cart, tirato da due cavalli che Bindar, il sivano, riusciva a mala pena a tenere fermi.

– Mio fratellino Sandokan è veramente un grand’uomo, – mormorò Yanez. – Che tigre prudente. —

Si volse verso i malesi che aspettavano i suoi ordini:

– Disperdetevi, – disse loro – fate tutto ciò che volete e badate di non farvi seguire da nessuno. Non ritornate alla pagoda sotterranea che a notte tarda e fucilate senza misericordia chi cercherà di spiarvi.

Vi sono dei pericoli.

– Va bene capitano, – risposero i malesi.

Salì a cassetta, sedendosi a fianco di Bindar e lanciò i cavalli a corsa sfrenata onde nessuno potesse seguirlo.

Solamente quando fu sulle rive del Brahmaputra lontano dagli ultimi sobborghi, rallentò il galoppo furioso dei focosi destrieri.

– Bindar, – disse, – hai udito a parlare tu della tigre nera che ha mangiato i figli del rajah?

– Sì, sahib – rispose l’indiano.

– Anch’io ho udito vagamente a parlarne due o tre giorni or sono. Che bestia è?

– Una bâg che si dice sia tutta nera e che commette delle stragi terribili.

– Quale luogo frequenta?

– Le jungle di Kamarpur.

– Sono lontane?

– Una ventina di miglia, non di più.

– Al di là del Brahmaputra?

– Non è necessario attraversare il fiume.

– È vero che ha mangiati i figli del rajah?

– Sì, sahib.

– Quando?

– L’anno scorso.

– E come?

– Il rajah seccato dai continui reclami dei suoi sudditi, s’era finalmente deciso di porre fine alle stragi che commetteva quella admikanevalla ed aveva incaricato i suoi due figli di dirigere la battuta.

Erano fanciulli, assolutamente incapaci di condurre a termine una così difficile impresa. Temendo però la collera del padre si erano ben guardati dal rifiutarsi. Non si sa veramente come siano andate le cose; però ti posso dire che due giorni dopo furono trovati i loro corpi, semi-divorati, pendenti da un ramo d’un albero.

– Si erano imboscati lassù?

– Dove li avevano messi e legati – disse Bindar.

– Che cosa vuoi dire?

– Che sotto la pianta furono trovate delle corde strappate, – rispose l’indiano.

– E vuoi concludere?

– Che si sussurra qui, che il rajah avesse approfittato di quella tigre per sbarazzarsi di quei due fanciulli che forse gli davano noia.

– Per Giove! – esclamò Yanez inorridito.

– Eh! Sahib! Sindhia è fratello di Bitor, il rajah che regnava prima e che tutti detestavano per le sue infamie.

– Ah! Ho capito – rispose il portoghese aggrottando la fronte.

Poi mormorò fra sé:

– Il greco, la tigre nera che ha mangiato i figli del rajah, l’invito ad andarla ad ammazzare. Che cosa ci sarà sotto tutto ciò? Fortunatamente ho la Tigre della Malesia, Tremal-Naik e Kammamuri sotto mano, tre unità formidabili, come direbbe un marinaio moderno.

La bâg cadrà, non ne dubito e allora, mio caro Sindhia, non sarà una semplice rappresentazione quella che ne pagherà le spese. Ci vuol ben altro! Una corona per Surama e per me. —

Lanciò nuovamente i cavalli al galoppo allontanandosi dalla città parecchie miglia e volgendosi di quando in quando per vedere se era seguito da qualche altro mail-cart.

Quando il sole tramontò fece ritorno, inoltrandosi nei boschi che sorgevano di fronte al tempio sotterraneo.

– Occupati dei cavalli, – disse all’indiano.

Sulla soglia della pagoda lo aspettavano, con viva impazienza, Sandokan e Tremal-Naik.

– Dunque? – chiesero ad una voce.

– Tutto va bene, – rispose Yanez ridendo. – Il rajah è mio amico. —

Poi estraendo una sigaretta proseguì:

– Vi spiacerebbe cacciare domani una tigre pericolosissima?

– A me lo domandi? – rispose Sandokan.

– Allora fa’ preparare le tue armi. Prima che il sole spunti ci troveremo al palazzo del rajah.

– Che cosa dici, Yanez? – chiese Tremal-Naik.

– Venite, – rispose Yanez. – Vi racconterò tutto. —

8. La tigre nera

Erano appena suonate le tre del mattino quando Yanez, seguìto da Sandokan, da Tremal-Naik e dai sei malesi giungeva dinanzi al palazzo reale, per intraprendere la caccia della terribile kala-bâgh ossia la tigre nera.

Fino dal giorno innanzi avevano noleggiati tre grandi tciopaya, ossia carri indiani tirati da una coppia di zebù, non essendo conveniente che un uomo bianco e per di più inglese, si recasse ad un appuntamento a piedi e senza una scorta numerosa.

Il maggiordomo della corte aveva preparato ogni cosa per la grande caccia.

Tre magnifici elefanti, che reggevano sui poderosi dorsi delle comode casse destinate ai cacciatori, prive di cupolette onde non intralciare il fuoco delle carabine e montati ognuno da un mahut, stavano fermi in mezzo alla piazza, circondati da una dozzina di behras, ossia di valletti che tenevano a guinzaglio una cinquantina di bruttissimi cani, di statura bassa, incapaci di tenere testa ad una belva così pericolosa, ma necessari per scovarla.

Dietro agli elefanti stavano due dozzine di scikari, ossia battitori, armati solamente di picche e quasi nudi, onde essere più lesti a fuggire dopo aver stanata la belva.

– Siamo pronti, sahib – disse il maggiordomo inchinandosi profondamente dinanzi a Yanez.

– Ed io essere contentissimo, – rispose il portoghese degnando lo appena d’uno sguardo.

– Buoni elefanti?

– Provati e abituati alle grosse cacce, sahib. Scegli quello che meglio ti conviene.

– Quello, – disse Tremal-Naik, indicando il più piccolo dei tre pachidermi e che aveva delle forme massicce, poderose e due denti superbi. – È un merghee di buona razza. —

I mahuts avevano gettate le scale di corda.

Yanez, Tremal-Naik e Sandokan presero posto nella cassa del merghee, Kammamuri coi malesi in quelle degli altri, insieme col maggiordomo che doveva dirigere la battuta.

– Avanti! – disse Yanez al mahut.

I tre pachidermi si misero subito in marcia mandando tre formidabili barriti, seguiti subito dagli scikari e dai behras che conducevano i cani, i quali latravano a piena gola.

In meno di mezz’ora la truppa fu fuori dalla città, poiché gli elefanti procedevano di buon passo obbligando la scorta a correre per non rimanere indietro e si diresse attraverso le boscaglie che si estendevano, quasi senza interruzione, fino nei dintorni di Kamarpur.

Yanez, dopo aver accesa la sua eterna sigaretta e d’aver bevuto un lungo sorso d’arak, si era seduto dinanzi a Tremal-Naik dicendogli:

– Ora tu, che sei indiano e che hai passati tanti anni nelle Sunderbunds, ci spiegherai che cos’è questa tigre nera.

Noi conosciamo quelle bornesi e là di nere non ne abbiamo mai vedute, è vero Sandokan? —

Il pirata che fumava placidamente il suo cibuc, gettando in aria, con lentezza misurata, delle nuvole di fumo, fece col capo un cenno affermativo.

– Quella che noi indiani chiamiamo kala-bâgh non è veramente nera, – rispose Tremal-Naik. – Ha il mantello simile a quello delle altre: siccome però sono le più feroci, i nostri contadini credono che incarni una delle sette anime della dea Kalì che come sai si chiama anche la Nera.

– Non si tratterebbe quindi che di uno di quei terribili solitari che gli inglesi chiamano man’s eater ossia mangiatori d’uomini.

 

– E che noi chiamiamo admikanevalla o admiwala kanâh.

– Una bestia sempre pericolosa.

– Terribile, Yanez – disse Tremal-Naik, – perché quelle tigri sono ordinariamente vecchie, per ciò rotte a tutte le astuzie e d’una voracità spaventosa.

Non potendo, in causa dell’età che le priva dello slancio giovanile, cacciare le antilopi od i buoi selvaggi, s’imboscano nei dintorni dei villaggi o si nascondono in prossimità delle fontane in attesa che le donne vadano a prendere acqua.

Sono d’una prudenza straordinaria, conoscono luoghi e persone, attaccando di preferenza gli esseri deboli e sfuggendo quelli che potrebbero tenere a loro testa.

– Vivono sole? – chiese Sandokan.

– Sempre sole, – rispose il bengalese.

– Sono allora difficili a catturarsi.

– Certo, perché sono prudentissime e cercano di evitare sempre i cacciatori.

– Siccome però quella tigre mi è necessaria, noi la prenderemo, – disse Yanez.

– Tu diventi incontentabile, amico – disse Sandokan, ridendo. – Prima era la pietra di Salagraman che ti era necessaria, oggi è una tigre e domani cosa vorrai?

– La testa del rajah, – rispose Yanez celiando.

– Oh per quella, ci penso io. Un buon colpo di scimitarra e te la porto ancora quasi viva.

– E i seikki che vegliano sul principe, non li conti tu.

– Ah sì! Mi hai parlato di quei guerrieri. Che gente sono, amico Tremal-Naik? Tu devi conoscerli un po’.

– Guerrieri valorosi.

– Incorruttibili?

– Eh! Secondo, – rispose il bengalese. – Non devi dimenticare, innanzi tutto che sono mercenari.

– Ah! – fece Sandokan.

– Ehi fratellino! – esclamò Yanez. – Che cosa t’interessano quei seikki?

– Tu hai le tue idee, io ho le mie, – rispose la Tigre della Malesia, continuando a fumare. – Sono anche quelli adoratori di Visnù e delle pietre di Salagraman, amico Tremal-Naik?

– Non adorano né Siva, né Brahma, né Visnù, né Budda, – rispose il bengalese. – Essi non credono che in Nanek, un religioso che sul principio del secolo decimosesto si fece un gran nome e che fondò una nuova religione.

– Vorresti diventare anche tu un seikko.

– Non glielo consiglierei, – disse Tremal-Naik, scherzando – perché sarebbe costretto, per essere ammesso a quella setta religiosa, a bere dell’acqua che ha servito a lavare i piedi e le unghie al sacerdote.

– Ah! Porci! – esclamò Yanez.

– Ed a mangiare servendosi di un dente di cinghiale, almeno per le prime volte.

– Perché? – chiese Sandokan.

– Per abituarsi a superare la ripugnanza che tutti i mussulmani hanno pei maiali, – rispose Tremal-Naik.

– Se lo terranno per loro il dente perché io non ho alcun desiderio di diventare un seikko, – disse la Tigre della Malesia. – Ho semplicemente un’idea verso quelle guardie. Bah! Ci penseremo su.

Siamo nei boschi bassi. Apriamo gli occhi. È in questi, è vero Tremal-Naik, che preferiscono abitare quei terribili solitari?

– Sì, le macchie dei banani e le terre umide delle grandi erbe, – rispose il bengalese.

– Teniamoci in guardia dunque. —

I tre elefanti, che procedevano sempre di buon passo, erano giunti in una immensa pianura che era interrotta qua e là da gruppi di mindi, arbusti non più alti di due o tre metri, dalla corteccia bianchissima e lucente ed i rami sottilissimi; da piccoli banani e da piccole macchie di butee frondose, dal tronco nodoso e robusto, coronato da un folto padiglione di foglie vellutate d’un verde azzurrognolo e sotto le quali pendevano degli enormi grappoli d’una splendida tinta cremisina.

A grandi distanze, e per lo più in mezzo a piccole piantagioni d’indaco e ombreggiate da cespugli di mangifere, si scorgeva qualche capanna. Animali invece non se ne vedevano: solamente degli stormi di bulbul, quei piccoli, leggiadri e battaglieri rosignuoli indiani, volavano via all’avvicinarsi degli elefanti e dei cani, mostrando le loro penne picchiettate e la loro coda rossa.

– Che sia questo il regno della tigre nera? – chiese Yanez.

– Lo sospetto, – rispose Tremal-Naik. – Vedo laggiù degli stagni e quelle brutte bestie amano l’acqua perché sanno che le antilopi vanno a dissetarsi dopo il tramonto.

– Che riusciamo a scoprirla prima che la notte scenda?

– Uhm! Lo dubito.

– Le prepareremo un agguato.

– Perderesti inutilmente il tuo tempo. Le kala-bâgh non si lasciano sorprendere e potrai mettere capretti finché vorrai e anche dei maiali, senza deciderle ad avvicinarsi.

– Aspettiamo – concluse Yanez. – Noi non abbiamo fretta. —

Fino al mezzodì gli elefanti continuarono ad avanzare attraverso a quella pianura che pareva che non dovesse finire mai, passando fra i gruppi di banani, di mindi e di mangifere, senza aver mai dato alcun segno di inquietudine; poi il maggiordomo che montava un magnifico makna, ossia un elefante maschio senza zanne, diede il segnale della fermata per servire la colazione agli ospiti del suo signore.

Gli scikari rizzarono in pochi minuti un’ampia e bellissima tenda di seta rossa in forma di padiglione e copersero il suolo con dei soffici tappeti di Persia, mentre il babourchi, ossia il cuoco della spedizione, aiutato da alcuni sais, cioè palafrenieri, faceva scaricare dal makna del maggiordomo le sue provviste onde servire una colazione fredda.

Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano affrettati a prendere possesso della tenda, essendo il caldo intensissimo. Kammamuri ed i sei malesi della scorta, si erano invece rifugiati sotto un immenso tamarindo che spandeva, sotto i suoi lunghissimi e flessibili rami un’ombra benefica.

L’aria del mattino aveva aguzzato straordinariamente l’appetito dei cacciatori, sicché gli ospiti del rajah fecero molto onore alla curree bât che inaffiarono abbondantemente con birra e toddy, la dolce e piccante bevanda indiana che è gradevolissima anche ai palati europei.

Il maggiordomo, dopo d’aver sorvegliato la distribuzione dei viveri, li aveva raggiunti, sedendosi però ad una certa distanza dal mylord inglese.

– Ti aspettavamo, – disse Yanez, che si era coricato su un ampio cuscino di seta rossa per fumare con maggior comodità. – E questa tigre dove la scoveremo?

– Il jungaul barsath (re della jungla) a quest’ora si riposerà nella sua tana, – rispose il maggiordomo. – Non sarà che verso sera o di buon mattino che noi la incontreremo.

Non ama il sole, mylord.

– Sai approssimativamente dove noi la incontreremo?

– Quattro giorni or sono, fu vista nei dintorni dello stagno di Janti; anzi là divorò una donna che conduceva una mucca onde si abbeverasse.

– La mucca scappò in tempo?

– La bâgh non si è occupata dell’animale. Ora che si è abituata alla carne umana non desidera che quella.

– Che abbia il suo covo in quei dintorni? – chiese Sandokan.

– Sì, deve trovarsi fra i bambù della vicina jungla, perché anche alcune settimane or sono, è stata incontrata due volte da uno scikaro.

– Questa sera potremo trovarci a quello stagno?

– Prima del tramonto vi giungeremo, – rispose il maggiordomo.

– Volete che tendiamo una imboscata colà? – chiese Sandokan volgendosi verso Yanez e Tremal-Naik. – Se quella bestia è così astuta e diffidente, non si lascerà accostare dagli elefanti.

– Era quello che pensavo anch’io, – disse il portoghese.

– A che ora riprenderemo le mosse? – chiese Tremal-Naik al maggiordomo.

– Alle quattro, sahib.

– Possiamo approfittare per schiacciare un sonnellino allora. Non siamo sicuri di riposarci questa sera. —

Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli.

Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per ciascuno.

Alle quattro, con una precisione cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse.

La tenda in un baleno era stata levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi loro mahuts.

– Avanti! – aveva gridato Yanez che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese.

La carovana si mosse di buon passo, sempre coll’ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai servi.

Il paese accennava a cambiare. I grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri, grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina, perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi.