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Alla conquista di un impero

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– Ho ancora una palla.

– Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d’un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni.

– Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro.

– Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. —

Riprese la carabina e per la terza volta l’alzò, aspettando il momento favorevole.

Una nuova fermata dell’elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo.

Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente.

Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito.

Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi.

– Sta per morire! – esclamò Sandokan.

In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco.

– Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? – disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato.

– Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, – rispose il bengalese. – Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce.

– Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia.

– Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. —

I bisonti, dopo d’aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti.

Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi.

Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d’alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata.

Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello.

D’altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell’attacco furioso degli jungli-kudgia.

Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall’attacco di quei testardi animali; e poi su quell’isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d’areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d’un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura.

Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all’ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa.

Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik.

Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l’isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto.

La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane.

La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato.

I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell’isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia.

Percorso l’isolotto tutto all’ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro.

Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate.

Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate.

– Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, – disse Sandokan. – È questo il momento di decimarli. —

Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva.

– Fucilatemi quelle canaglie, – disse a loro Sandokan. – È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. —

Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale.

I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all’accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz’essere più disturbati.

Verso le quattro pomeridiane, quando l’intenso calore cominciava a scemare, l’accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse.

Mezz’ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d’un giallo delicato e dal profumo delizioso.

Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano.

Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti.

Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti.

Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti.

– In guardia, signori! – gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal-Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano.

– Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, – disse Tremal-Naik.

– Ancora quelle canaglie! – esclamò Sandokan furioso.

– T’ho già detto che tu non li conosci.

– Questa volta li stermineremo!

– Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. —

Sandokan alzò la voce.

– Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. —

Gli elefanti, malgrado i colpi d’arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi.

Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l’urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali.

I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli.

Gli jungli-kudgia s’avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d’acciaio dei colossi animali.

La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia.

– Eccoli! – gridò ad un tratto il cornac.

Un bisonte, dopo d’aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all’aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l’elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto.

Fu così fulmineo l’attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco.

L’elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l’animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa.

 

Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata.

S’udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole.

Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa.

– Bravo pilota! – gridò Tremal-Naik. – Questa sera avrai doppia razione di typha! —

Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all’impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace.

Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa.

L’accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi.

– Ehi, Tremal-Naik! – gridò allegramente Sandokan. – Che questa volta la sia proprio finita?

– Vorrei sperarlo, – rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo.

– E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni?

– Le truppe di bisonti non s’incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. —

Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l’aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne.

Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure.

I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un’abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l’interminabile jungla.

Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all’orizzonte e dopo d’aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall’imponente catena dell’Himalaya.

Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell’India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all’astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto.

La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame.

I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla.

Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

28. I montanari di Sadhja

La notte era splendida e fresca, cominciando a farsi sentire le forti arie delle non lontane montagne, che si delineavano maestosamente verso il settentrione, primi contrafforti dell’imponente catena dell’Himalaya.

La luna splendeva in un cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube, fra miriadi di stelle che fiorivano senza posa, facendo proiettare, alle altissime e folte macchie di bambù, ombre lunghissime.

Un silenzio profondo, rotto solo di quando in quando dall’urlo monotono e triste di qualche sciacallo affamato o dallo strido acuto di qualche flying-fox (volpe volante), regnava sulla immensa pianura.

Pareva che né le tigri, né le pantere, né i serpenti, animali che vivono in gran numero nelle jungle indiane, avessero ancora lasciato i loro covi, per mettersi in caccia.

Kammamuri e Sambigliong, seduti a breve distanza da un falò, fumavano scambiandosi di quando in quando qualche parola, mentre i dayachi passeggiavano silenziosamente dietro la cinta improvvisata, alimentando di tratto in tratto i fuochi.

Vegliavano da un paio d’ore senza che avessero notato alcunché di straordinario, quando udirono improvvisamente alzarsi nella jungla, un urlio indiavolato, come se centinaia e centinaia di cani selvaggi irrompessero attraverso le macchie.

– Che cosa succede laggiù? – si chiese Sambigliong alzandosi.

– I cani avranno scovato qualche nilgò e si saranno messi in caccia, – rispose Kammamuri.

– O che mirino ad assalirci?

– Non sono da temersi molto.

– Odi come i loro latrati diventano sempre più acuti? Si direbbe che s’avvicinano. —

Kammamuri stava per rispondere, quando un colpo di fucile, che fece subito tacere la banda urlante, rintronò nella jungla.

– Ah! Questo è da temersi, altro che i cani! – brontolò il maharatto.

Lo sparo che si era ripercosso perfino dentro le tende, aveva fatto balzare subito fuori Sandokan e Tremal-Naik e svegliati i suoi uomini e anche gli elefanti.

– Chi ha fatto fuoco? – chiese la Tigre della Malesia accorrendo.

– Nessuno di noi, padrone, – rispose Kammamuri.

– Che gli assamesi ci abbiano raggiunti?

– Io credo, padrone, che si tratti invece di qualche viandante che si difende dai cani selvaggi.

– Uhm! – fece Tremal-Naik. – Chi oserebbe inoltrarsi nella jungla, solo, di notte? Tu t’inganni, mio bravo Kammamuri. —

Si posero tutti in ascolto, ma non udirono nessun altro sparo. Anche i cani non avevano più riprese le loro urla.

– Tu che sei un figlio delle jungle, che cosa proponi di fare? – chiese Sandokan rivolgendosi verso Tremal-Naik; – di lanciare un drappello d’uomini in mezzo ai bambù?

– Sarebbe un pessimo consiglio, – rispose il bengalese, – che non lo darei a nessuno. Le jungle si prestano troppo bene alle imboscate.

– Tu sospetti che si cerchi di attirarci in qualche agguato.

– Nel tuo caso sai che cosa farei, amico Sandokan? Leverei senza indugio il campo e prenderei il largo spingendo gli elefanti alla massima corsa.

– Ed io accetto la tua proposta, senza cercare nemmeno di discuterla. —

Poi alzando la voce, comandò:

– Ohe, cornac! Fate alzare gli elefanti e fate prendere a loro la corsa.

Tutti pronti a salire! Vi accordo, amici, cinque soli minuti per ripiegare le tende. —

Malesi e dayachi si erano slanciati attraverso l’accampamento, come uno stormo di avvoltoi, sciogliendo le tende e arrotolando con rapidità fulminea tappeti, materassini e coperte, mentre Sandokan, Tremal-Naik e Kammamuri, varcata la cinta improvvisata, si spingevano per qualche centinaio di passi nella jungla, colla speranza di scoprire qualche cosa.

I cinque minuti non erano ancora trascorsi, che gli elefanti si trovavano pronti a ripartire, quantunque dimostrassero il loro mal umore per quella inaspettata marcia, con sordi barriti e con un alzare e abbassare d’orecchi.

Dayachi, malesi e prigionieri erano tutti al loro posto, chi entro le casse, chi sui larghi dorsi dei pachidermi, tenendosi ben stretti alle corde.

Sandokan ed i suoi compagni, dopo aver fatta una breve punta senza nulla vedere di sospetto, si erano affrettati, a loro volta, a raggiungere l’elefante-pilota, il solo che si mantenesse tranquillo.

– Siamo pronti? – chiese Sandokan quando si fu accomodato nella cassa a fianco di Surama.

– Tutti! – risposero ad una voce malesi e dayachi.

– Via! —

Gli elefanti, quasi avessero compreso che un grave pericolo minacciava i loro conduttori, avevano cessato di barrire ed avevano preso un vero galoppo, e così rapido, che difficilmente un buon cavallo avrebbe potuto tenere dietro a loro. A vedere quelle masse enormi, che hanno qualche cosa di antidiluviano, si giudicherebbe che essi fossero eccessivamente tardivi, mentre invece posseggono un’agilità straordinaria ed una forza di resistenza incredibile, che permette a loro di gareggiare, e senza svantaggio, coi mahari, i famosi corridori del deserto di Sahara.

Avevano appena preso lo slancio, quando un grido di rabbia ed insieme d’angoscia, sfuggì da tutte le bocche.

A destra ed a sinistra, dalla via presa dai pachidermi, come per un segnale convenuto, i bambù e le erbe secche della jungla, arse dal sole, avevano preso fuoco su diversi punti!…

– Me l’aspettavo questo brutto giuoco! – esclamò Sandokan. – Cornac! Spingete la corsa, o morremo tutti arrostiti! —

I conduttori, senza attendere quel comando, vedendo il fuoco propagarsi con rapidità incredibile, avevano già afferrati i loro corti arpioni, lasciandoli cadere violentemente sui crani dei pachidermi, lanciando contemporaneamente fischi stridenti.

Vampe immense s’alzavano di già minacciando di rinchiudere i fuggiaschi in un cerchio di fuoco.

I malesi ed i dayachi avevano aperto il fuoco, sparando all’impazzata in tutte le direzioni, mentre gli elefanti, atterriti, raddoppiavano lo slancio, barrendo spaventosamente e sfondando, come mostruose catapulte, le folte macchie che si paravano a loro dinanzi.

Quella fuga rapidissima aveva qualche cosa di spaventoso ed insieme di fantastico.

Cominciando a cadere le scintille addosso agli elefanti e anche sulle persone che stavano nelle casse, Sandokan sciolse rapidamente una coperta e la gettò addosso a Surama, avvolgendola completamente, mentre Tremal-Naik gridava agli altri:

– Sciogliete le tende ed i materassini! Copritevi e riparate le groppe degli elefanti! —

L’ordine fu subito eseguito ed appena in tempo, poiché le due linee di fuoco, ormai diventate giganti, stavano per raggiungersi e chiudere completamente la ritirata.

– Poggia verso il fiume, cornac! – comandò Sandokan che conservava, anche in quel terribile momento, tutta la sua calma di grande capitano. – Là sta la nostra salvezza!

Getta questa coperta sulla testa dell’elefante e bendagli gli occhi! Fate altrettanto voialtri! Su, forza, attraverso al fuoco! —

I pachidermi, spaventati di vedersi dinanzi quelle cortine fiammeggianti, pareva che esitassero a proseguire la corsa. Quando però si sentirono avvolgere la testa dalle coperte e dalle tende, presi da un maggior spavento, si slanciarono innanzi all’impazzata, mandando clamori orribili.

Le due cortine di fuoco non distavano che pochi metri l’una dall’altra. Ancora un mezzo minuto di ritardo e si sarebbero raggiunte.

Scintille, cenere ardente, foglie accese, cadevano da tutte le parti e l’aria minacciava di diventare, da un istante all’altro, irrespirabile.

I cinque elefanti giunsero, come un uragano, là dove le due linee fiammeggianti stavano per operare la loro congiunzione, e attraversarono il passo coll’impeto dei proiettili, raddoppiando i loro spaventevoli clamori.

Quattro o cinque colpi di carabina li salutarono al passaggio, sparati però a una così notevole distanza, che le palle non produssero alcun effetto contro il grosso cuoio che rivestiva quei colossi.

I cornac s’affrettarono a togliere le coperte che avvolgevano le teste degli animali, mentre i malesi ed i dayachi gettarono via materassini e tende, che avevano già preso fuoco.

– Non credevo di avere tanta fortuna, – disse Sandokan che appariva di buon umore. – Se gli elefanti continueranno questa corsa indiavolata per tre o quattro ore, non avremo più nulla da temere da parte degli assamesi. Che cosa ne dici, Tremal-Naik?

 

– Dico, – rispose il bengalese, – che da questo momento noi potremo proseguire tranquillamente il nostro viaggio verso Sadhja, senza essere più disturbati. È vero, Bindar?

– Sì, sahib – rispose il fedele giovanotto. – Tra due giorni noi saremo fra le montagne dove regnava il padre della principessa, il valoroso Mahur.

– Come rivedrò volentieri il mio paese natio! – esclamò la futura regina dell’Assam, con un sospiro. – Purché si ricordino ancora del capo dei kotteri.

– Non ci sono io forse? – disse Bindar. – Mio padre era uno dei più fedeli servitori del tuo e, lassù, fra le montagne, ho molti parenti.

Basterà che io ti presenti a Khampur.

– Chi è costui?

– Il nuovo capo dei kotteri. Era un amico intimo di tuo padre e sarà ben lieto di rivederti e di mettere a tua disposizione tutti i suoi guerrieri.

Egli odia Sindhia e non si rifiuterà di prestarti man forte.

– Speriamolo, – rispose Surama. – A me basta di liberare il sahib bianco, che tanto amo.

– Lo rivedrai più presto di quello che credi, – disse Sandokan. – Non lascerò l’Assam, checché debba accadere, senza aver prima strappato il mio fratellino bianco dalle zampe di quell’ubriacone di Sindhia e senza aver saldato i conti con quel cane di greco, causa principale di tutte le nostre disgrazie.

Fra quindici giorni, e fors’anche prima, tutto sarà finito e andrò a respirare una boccata d’aria marina, della quale sento un bisogno grandissimo.

– Come! Non ti fermerai alla mia corte, ammesso che io possa diventare la rhani dell’Assam?

– Sì, per un paio di settimane, ma poi tornerò laggiù, al Borneo, – disse Sandokan che era diventato improvvisamente cupo. – Anche nelle mie vene scorre sangue di rajah ed un giorno mio padre fu potente, e dominava una regione forse più vasta dell’Assam.

Pensiamo a dare ora un trono a te ed a Yanez: poi penserò a posare anche sul mio capo una corona.

Sono vent’anni che medito una vendetta e sono vent’anni che un miserabile straniero siede sul trono dei miei avi, dopo d’aver spazzato mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle!

Quel giorno che comparirò sulle rive del lago di Kini Ballù sarà un giorno di sangue e di fuoco.

– Sandokan! – esclamarono Tremal-Naik e Surama.

Il terribile pirata si era alzato cogli occhi accesi, il viso alterato da un furore spaventevole, agitando la destra come se brandisse una scimitarra assetata di sangue e di stragi, ma dopo qualche istante tornò a sedersi, calmo come prima, dicendo con voce rauca:

– Aspettiamo quel giorno! —

Caricò rabbiosamente la pipa, l’accese e si mise a fumare con furia, guardando la jungla che fiammeggiava sempre dietro gli elefanti.

Tremal-Naik gli batté su una spalla.

– Quel giorno, – gli disse, – spero che mi avrai per compagno.

– Ti accetto fin d’ora, – rispose la Tigre della Malesia.

– Ed io, – disse Surama, – metterò a tua disposizione tutti i tesori dell’Assam e tutti i seikki.

– Grazie fanciulla, ma a tuttociò, preferisco Yanez, il mio buon genio. Il principe consorte potrà assentarsi per un paio di mesi.

– Anche per dodici se lo vorrai. —

Gli elefanti, ancora spaventati dai bagliori dell’incendio, continuavano intanto la loro rapidissima corsa, ansando fortemente ed imprimendo alle casse tali scosse, che le persone che le montavano, di quando in quando, cadevano le une nelle braccia delle altre.

La jungla continuava ad estendersi lungo la riva destra del Brahmaputra, però a poco a poco tendeva a cambiare.

I bambù sparivano per lasciare il posto alle alte graminacee, ai folti cespugli, alle mangifere che formavano dei superbi gruppi, ai tara ed ai latania. Era però sempre una regione senza villaggi, senza capanne, non amando gli indiani abitare là dove imperano le tigri, i rinoceronti, le pantere ed i serpenti dal morso mortale.

Quella corsa velocissima durò fino alle dieci del mattino, poi Sandokan, vedendo che gli elefanti rallentavano, diede il segnale della fermata.

Ormai gli assamesi non erano più da temersi. Anche se avessero avuto dei cavalli di buona razza, non avrebbero potuto tenere dietro a quei colossi, che avevano mantenuto per cinque o sei ore una velocità assolutamente straordinaria.

Quella fermata si prolungò fino alle quattro del pomeriggio, poi gli elefanti ripresero, di buon umore, la loro corsa, senza aver bisogno di essere aizzati dai loro conduttori, avendo trovato, durante quel riposo, un’abbondante provvista di typha e di rami di bâr (ficus indica), il cibo che preferiscono sopra tutti gli altri, quando non trovano delle foglie di pipal (ficus religiosa).

A mezzanotte marciavano ancora, avanzandosi verso le non lontane catene di montagne, abitate dai sudditi del defunto Mahur, il padre di Surama.

Le jungle erano a poco a poco scomparse, per lasciare il campo a pianure ondulate e coperte da fitti gruppi di alberi, all’ombra dei quali, cominciavano a succedersi piccoli villaggi, circondati da risaie.

Un’altra fermata fu fatta che si prolungò fino alle sette del mattino: poi gli instancabili elefanti ripresero la corsa rimontando verso il nord-est, dove già si delineavano alcune catene di altissime montagne, coperte da foreste immense.

Altre due tappe, poi i pachidermi, sempre agili e sempre rapidi, salivano il giorno dopo i primi scaglioni di quelle boscose catene, innalzandosi gradatamente.

Il paese cominciava a popolarsi. Minuscoli villaggi di quando in quando apparivano sui declivi, in mezzo a folte macchie di mangifere e di tamarindi stupendi.

– Ecco i sudditi di mio padre! – diceva Surama con un sospiro. – Quando sapranno che la figlia del vecchio capo dei kotteri, dopo tanti anni, è ritornata, non le rifiuteranno il loro appoggio.

– Lo spero, – rispose Sandokan.

Quella sera l’accampamento fu piantato in mezzo alle foltissime foreste e mai notte fu più calma di quella, non abbondando sulle montagne né cani selvaggi, né sciacalli, ed essendo anche piuttosto rare le tigri, le quali preferiscono il clima umido e caldo delle jungle.

La sveglia fu suonata da Bindar, che possedeva un ramsinga di rame, alle quattro del mattino, desiderando tutti di riposarsi alla sera a Sadhja, l’antica residenza del capo dei kotteri.

Gli elefanti, ben riposati e anche ben pasciuti, avendo trovato dei banian da saccheggiare, avevano subito ripresa allegramente la marcia, costeggiando una enorme spaccatura, in fondo alla quale rumoreggiava il Brahmaputra, che forse dopo migliaia e migliaia d’anni, si era aperto un varco fra quelle montagne, per raggiungere il sacro Gange e riversare le sue acque nel golfo del Bengala.

Quantunque le chine fossero faticosissime, gli elefanti procedettero sempre con grande rapidità; dimostrando ancora una volta la loro incredibile resistenza e la loro agilità assolutamente straordinaria.

Verso il tramonto la carovana, dopo aver superate altre altissime montagne, sempre ricche di boscaglie, poiché la vegetazione dell’India non cessa che là dove cominciano le nevi ed i ghiacciai, entrava finalmente in Sadhja, la capitale del piccolo stato, quasi indipendente, ossia dei kotteri, dei montanari guerrieri, i più valorosi dell’Assam.

Bindar guidò i suoi padroni verso una vasta capanna, circondata da un giardino, dimora di un suo parente, la quale si trovava un po’ fuori dal bastioni della cittadella, desiderando non suscitare, almeno pel momento, la curiosità della popolazione.

Essendo già prossima la notte, quasi nessuno aveva fatto attenzione all’arrivo della carovana, trovandosi la maggior parte di quei montanari nelle loro casette a cenare.

Due vecchi indiani, parenti del giovane, accolsero cortesemente gli ospiti raccomandati dal nipote, mettendo a loro disposizione tutte le provviste che possedevano.

– Cenate senza preoccuparvi di me, – disse Bindar, – e consideratevi come in casa vostra.

Io vado ad avvertire Khampur del vostro arrivo.

– Come accoglierà la notizia? – chiese Sandokan che appariva un po’ pensieroso.

– Khampur era l’amico devoto di Mahur, il grande capo dei kotteri guerrieri, e sarà ben felice di rivedere la figlia del forte montanaro.