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Alla conquista di un impero

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– Un cadavere, – mormorò, respirando.

S’allungò lasciando il passo al morto e con cinque o sei bracciate giunse sotto la poppa del veliero.

Quantunque avesse avuta la precauzione di non levare le mani dall’acqua, gli uomini che vegliavano sul poluar, s’accorsero certamente di qualche cosa d’insolito, poiché udì distintamente una voce a dire:

– Si direbbe, Maot, che qualcuno ha rasentato il bordo della nave. Hai udito nulla tu?

– Solo il timone a cigolare sui cardini, – rispose un’altra voce. – Bah! qualche coccodrillo lo avrà urtato.

– Sarà meglio accertarsene, Maot. Mi hanno detto i seikki che quelli che montano la bangle non sono indiani.

– Guarda dunque. —

Sandokan si era prontamente cacciato sotto la poppa, aggrappandosi al timone.

Trascorse un mezzo minuto poi la medesima voce di prima riprese:

– Non si vede nulla con questa oscurità, Maot.

Ti ripeto che sarà stato un coccodrillo. Quelle brutte bestie non mancano su questo fiume.

Dammi un po’ di betel e riprendiamo la nostra guardia a prora. Dal castello osserveremo meglio. —

Sandokan, che ascoltava attentamente, udì uno stropiccìo di piedi nudi allontanarsi.

– Stupidi! – mormorò. – Al vostro posto non mi sarei accontentato di chiacchierare come pappagalli. Ah! sapete che noi non siamo indiani? Ecco una ragione di più per farvi saltare in aria. —

Attese ancora qualche minuto, poi rassicurato dal profondo silenzio, che regnava sul poluar, levò con una mano la scatola, si mise fra le labbra l’acciarino e l’esca, badando bene di non bagnare quest’ultima e appese la bomba al secondo cardine.

Ciò fatto strinse le gambe contro il timone e con grande precauzione, diede fuoco all’esca accostandola alla miccia.

Il rumore però, per quanto lievissimo, prodotto dalla selce battuta contro l’acciarino, fu certamente udito dai due battellieri di guardia, poiché Sandokan s’accorse che s’avvicinavano.

Si lasciò andare a picco nuotando sott’acqua con estrema velocità, onde non saltare insieme con la nave.

Emerse a cinquanta metri e fissò subito gli occhi sul poluar.

Piccole scintille cadevano sotto la poppa. Era la miccia che ardeva.

– Eccovi serviti, – mormorò, tornando a tuffarsi e percorrendo sempre sott’acqua altri cinquanta o sessanta metri.

Quando tornò a galla, urla acutissime partivano dal poluar:

– Al fuoco! al fuoco! —

Quasi nell’istesso momento un lampo squarciò le tenebre, seguìto da una detonazione che parve un colpo di cannone.

La poppa del piccolo veliero era stata squarciata dalla bomba, e per l’enorme falla l’acqua entrava a torrenti. Il timone era stato già mandato in pezzi.

A quel rimbombo, che si propagò lungamente sotto le interminabili volte di verzura che si estendevano sulle due rive, tenne dietro un breve silenzio, poi le grida dell’equipaggio tornarono a farsi udite:

– Il poluar affonda! Si salvi chi può! —

Sandokan con poche bracciate raggiunse la bangle e afferrata la fune, che non era stata ritirata, si issò sul ponte.

Surama e Tremal-Naik erano accorsi.

– Ah! Tigre della Malesia! – esclamò la prima. – Io ormai non dubito più di diventare una regina, quando l’uomo che mi protegge possiede tale audacia.

– Tu sei un demonio, – aggiunse il bengalese.

– Lascia che me lo dicano quei poveri diavoli che affondano, – rispose Sandokan, scuotendosi di dosso l’acqua.

Il poluar s’inabissava rapidamente, inclinandosi verso la poppa. Numerosi uomini saltavano in acqua, mentre altri si salvavano sull’alberatura mandando grida di terrore, colla speranza che il fiume non fosse in quel luogo così profondo da inghiottire tutta la nave.

– Lasciamoli urlare e raggiungiamo il canale, – disse Sandokan freddamente. – Se la cavino da loro. Ai remi, amici. —

I malesi che avevano assistito impassibili a quel disastro, per loro già non nuovo, afferrarono le lunghe pagaie e la bangle ridiscese velocemente il fiume, aiutata dalla corrente, che si faceva sentire piuttosto forte lungo la riva sinistra.

Per alcuni minuti i fuggiaschi udirono ancora le urla disperate dei disgraziati che venivano tratti a fondo insieme col naviglio, poi il grande silenzio tornò ad imperare sul Brahmaputra.

Sandokan che si era affrettato ad indossare le sue vesti, aveva raggiunto Surama e Tremal-Naik, che dall’alto della poppa cercavano ancora di discernere il poluar.

– Non mi ero ingannato, – disse loro. – Ho avuto la prova che quei battellieri avevano avuto l’incarico di sorvegliarci e fors’anche di catturarci. A bordo vi erano dei seikki del rajah.

– E come l’hai appreso? – chiese il bengalese stupefatto.

– Da un discorso fatto da due di quegli uomini, nel momento in cui stavo appendendo la scatola al timone. È un vero miracolo se non mi hanno scoperto.

– Sanno dunque chi siamo noi? – chiese Surama.

– Forse non lo credo, – rispose Sandokan, – ma qualche cosa è trapelato di certo dei nostri progetti. Tu devi aver parlato, Surama.

– È possibile, se mi hanno dato da bere qualche narcotico.

– E ciò m’inquieta per Yanez.

– Non spaventarmi signore! – esclamò la bella assamese. – Tu sai quanto io ami il sahib bianco.

– Tu finché Yanez non ci manda qualche messo, non devi preoccuparti. Aspettiamo che torni Bindar.

– Tu però sospetti che possa correre qualche pericolo.

– Pel momento no, e poi mio fratellino è un uomo da cavarsela anche senza il mio aiuto. Come ha giuocato James Brooke, il rajah di Sarawak, saprà burlare anche il rajah dell’Assam.

Aspettiamo sue nuove. —

La bangle che scendeva il fiume con grande rapidità, era già giunta dinanzi al canale che conduceva alla palude.

Kammamuri che aveva ripreso il suo posto al timone, guidò la barca entro il passaggio, dopo essersi prima ben assicurato che nessun’altra nave spiava la bangle.

Venti minuti dopo affondavano le ancore in mezzo al vasto stagno.

Essendo la jungla pericolosissima di notte, Sandokan mandò a dormire i suoi uomini, che cadevano per la fatica, vi mandò poi Surama, e lui si stese sul ponte, su una semplice stuoia accanto a Tremal-Naik, dopo essersi messa a fianco la sua fida carabina.

L’indomani, dopo aver assicurata bene la bangle che era loro necessarissima e d’averla nascosta sotto un enorme ammasso di canne e di rami, Sandokan ed i suoi compagni attraversarono felicemente la jungla e giunsero alla pagoda di Benar.

I malesi ed i dayachi si trovavano riuniti, sorvegliando attentamente il fakiro ed il demjadar dei seikki.

Durante l’assenza della Tigre della Malesia, nessun avvenimento aveva turbato la calma che regnava in quella parte della jungla.

Solo qualche tigre e qualche pantera avevano fatto la loro comparsa, senza però osar di assalire l’accampamento, troppo formidabile anche per quei feroci animali.

Sandokan fece allestire alla meglio, in una delle stanze dei gurum, un modesto alloggetto per Surama, non presentando la vasta sala della pagoda, in parte diroccata, molta solidità, ed attese pazientemente il ritorno di Bindar.

Fu la sera del settimo giorno che il fedele assamese finalmente comparve. Aveva risalito il fiume su un piccolo gonga, ossia su un battello scavato nel tronco d’un albero, e aveva attraversata la jungla prima che le belve, che l’abitavano si fossero messe in cerca di preda. Egli recava una terribile notizia.

– Sahib, – disse appena fu condotto dinanzi a Sandokan che stava fumando sotto un tamarindo, godendosi un po’ di fresco insieme con Tremal-Naik, – una catastrofe ci ha colpiti. —

Sandokan ed il bengalese balzarono in piedi in preda ad una vivissima agitazione.

– Che cosa vuoi dire tu? – gridò il primo.

– Il sahib bianco è stato arrestato ed i suoi malesi sono stati decapitati. —

Un vero ruggito uscì dalle labbra del pirata.

– Lui… preso!

– E tu stai per essere assalito. La jungla domani sarà circondata. —

21. Una caccia emozionante

Mentre Sandokan lavorava tenacemente e con buona fortuna a liberare Surama, Yanez si riposava, almeno apparentemente, alla corte del rajah, passando il suo tempo a bere, a mangiare, a fumare più sigarette che poteva e ad ammirare le bellissime bajadere, che ogni sera intrecciavano danze nel vasto cortile del palazzo al suono di tamburi d’ogni genere e di lottatori, avendone sempre un buon numero i principi indiani.

Non perdeva però di vista il greco e non mancava d’informarsi minutamente, ogni mattina, della guarigione del suo avversario, ben sapendo che il maggior pericolo stava celato nel cervello di quell’avventuriero.

Una cosa però l’aveva subito crucciato, una certa freddezza che aveva notato nel rajah. Dopo quella famosa rappresentazione teatrale ed il suo duello, il principe non si era più occupato di lui, né più lo aveva fatto chiamare, come se in tutto il regno gli animali feroci fossero scomparsi.

Ciò annoiava non poco quell’uomo d’azione che era tutt’altro che amante della neghittosità e dell’indolenza indiana.

– Per Giove! – esclamava ogni mattina, rotolando giù dal suo splendido letto dorato e scolpito. – Che cacciatore sono dunque io?

Possibile che gli animali feroci non mangino più indiani nell’Assam? Eppure le tigri non devono mancare in questo paese che ha così tante foreste e così tante jungle. —

Erano tre giorni che oziava non sapendo più come impiegare il suo tempo, quando la mattina del quarto, un ufficiale del rajah, si presentò dicendogli:

– Mylord, il rajah ha bisogno del suo grande cacciatore.

– Finalmente! – esclamò il portoghese che si trovava ancora a letto. – Il principe si è dunque ricordato di avere ai suoi servigi un distruttore di belve feroci? Cominciavo ad annoiarmi.

Di che cosa si tratta?

– Gli abitanti d’un villaggio, che si trova presso le rive del fiume, si lamentano perché un rinoceronte distrugge ogni notte i loro raccolti.

 

Tutte le piantagioni d’indaco, che formavano la loro principale ricchezza, sono perdute.

– Mi rincresce per quei disgraziati coltivatori, ma saranno vendicati. Dove scorazza quel bestione?

– A venti miglia di qui.

– Dirai al rajah che io lo ucciderò e che gli porterò il corno. Fa’ preparare cavalli ed elefanti.

– Tutto è pronto, mylord.

– Ed anche la mia carabina è pronta, – rispose Yanez. – Ed il favorito come va?

– Ieri sera si è alzato qualche ora.

– Per Giove! Quell’uomo ha la pelle più grossa del rinoceronte che andrò a uccidere, – mormorò il portoghese. – Se un’altra volta mi capita fra i piedi lo passerò da parte a parte. —

Saltò giù dal letto, chiamò il suo maggiordomo per dargli alcuni ordini, poi si vestì rapidamente.

– Chissà che uscendo dal palazzo non possa avere qualche notizia di Surama e di Sandokan, – disse quando fu solo. – E chissà che il rajah, dopo una tale caccia, si ricordi più sovente di me. Il greco lavora sott’acqua ed io farò altrettanto, amico. Vedremo chi uscirà colle costole rotte da questa battaglia. La popolarità s’avanza e quando sarà ben assicurata avrò buon giuoco su te e sul principe, tuo protettore.

Non è che questione di pazienza, come dice sempre Sandokan. —

Prese la sua carabina, quell’istessa che aveva già abbattuta la terribile tigre nera, chiamò i malesi fra i quali si trovava Kubang, che si era ben guardato di narrargli del rapimento di Surama, e scese nel gran cortile, dove si trovavano pronti dodici cavalli, due elefanti, molti cani e una ventina di seikki, che dovevano aiutarlo nella pericolosissima caccia.

Fu nondimeno un po’ sorpreso nel trovare invece d’un maggiordomo o d’un conduttore di scikari, un alto ufficiale del rajah, il quale gli disse senza preamboli:

– Mylord, la direzione della caccia spetterà esclusivamente a me.

– Oh! – fece Yanez incrociando le braccia. – Ed a me che cosa spetta?

– Di uccidere il rinoceronte.

– E se lo uccideste voi invece?

– Io non sono il gran cacciatore della corte, – rispose seccamente l’alto ufficiale.

– Ah!

– Mi hai capito mylord? Io solo ho la direzione.

– Spero che mi caccerai dinanzi il bestione però.

– Lascia fare ai seikki, mylord. —

Yanez salì su uno dei due elefanti, molto di cattivo umore ed un po’ anche pensieroso.

– Non ci vedo chiaro in questa faccenda – mormorò. – Il greco deve aver tentato qualche colpo. Come mai il rajah ha cambiato così presto d’umore verso di me? C’è qui sotto qualche cosa che mi sfugge. Stiamo in guardia. In una caccia è facile sbagliare un animale e uccidere invece un cacciatore.

Avvertirò i miei malesi d’aprire per bene gli occhi e di non perdere di vista un solo istante i seikki.

Il pericolo sta là. —

Si sdraiò sui cuscini della cassa, accese la sigaretta e affettando una calma completa che realmente non sentiva, fece segno al cornac di muovere l’elefante, il quale già cominciava a dar segni d’impazienza.

La carovana attraversò la città sfilando fra due ali di popolo, che osservava con curiosità, non esente da una certa simpatia, il famoso cacciatore; poi rimontò la riva destra del fiume avviandosi ai grandi boschi che si estendevano verso ponente, formati di superbi tek dal legno durissimo ed incorruttibile, di gomma lacca, di nagassi, ossia d’alberi dal legno di ferro perché i loro tronchi ed i loro rami sono così duri da smussare le scuri le più affilate, e di imponenti fichi baniani.

L’ufficiale del rajah che montava il secondo elefante, si era messo alla testa della truppa, fiancheggiato dai seikki che montavano bellissimi cavalli, di forme perfette, d’origine certamente araba o per lo meno persiana. Pareva che si fosse perfino scordato della presenza del grande cacciatore di corte a cui spettava il poco invidiabile onore di abbattere il terribile rinoceronte.

Per cinque ore la carovana continuò a costeggiare la riva del fiume, oltrepassando di quando in quando dei meschini raggruppamenti di capanne, formate di rami intrecciati, mescolati a fango rossastro o grigiastro; poi l’ufficiale fece l’alt nei dintorni d’un villaggio piuttosto grosso, che sorgeva in mezzo a vastissime piantagioni d’indaco, che si vedevano realmente qua e là gravemente danneggiate, come se una truppa di bestie si fosse divertita a farvi sopra delle corse sfrenate.

– È questo il luogo che il rinoceronte frequenta? – chiese Yanez al cornac che stava a cavalcioni dell’elefante.

– Sì, signore – rispose l’indiano. – Quel brutto animale ha già distrutto tanto indaco, che seicento rupie non sarebbero bastanti per ricompensare questi poveri contadini.

Oh, ma tu lo ucciderai signore, è vero?

– Farò il possibile.

– Ci fermiamo qui, signore. —

La popolazione del villaggio guidata dal suo capo, un bel vecchio ancora vegeto, erasi avanzata incontro alla carovana, dando a tutti il benvenuto e mettendosi a loro disposizione.

Essendo già stata precedentemente avvertita da un corriere mandato dal rajah, aveva preparato una specie di campo chiuso da bambù incrociati e solidamente legati, innalzandovi nel mezzo otto o dieci capanne formate con frasche e coperte da rami ancora verdeggianti. Yanez senza occuparsi dell’alto ufficiale, scelse la più comoda e la più ampia, istallandovisi coi suoi sei malesi.

Nella sua qualità di grande cacciatore, credeva di averne bene il diritto.

I cuochi servirono ai cacciatori ed ai servi una colazione fredda e abbondante, inaffiata con dell’eccellente toddy, poi il capo del villaggio, accompagnato dall’ufficiale del rajah, chiese a Yanez:

– Sei tu sahib, che sei incaricato di liberarci dal cattivo animale?

– Sì, amico – rispose il portoghese – ma per poter far ciò tu devi darmi delle indicazioni e anche una guida.

– Io darò a te tutto quello che vorrai, signore, e anche un premio.

– Quello lo darai ai danneggiati.

Dove credi che il rinoceronte abbia il suo covo?

– Nella foresta che costeggia lo stagno dei coccodrilli.

– Lontana?

– Qualche ora di marcia.

– Si è mai mostrato di giorno?

– Mai, sahib. È solamente a notte tarda che lascia la foresta per venire a devastare le nostre piantagioni.

– L’hai veduto tu?

– Sì, tre notti or sono gli ho sparato contro due colpi di carabina e probabilmente non sono riuscito a colpirlo.

– È grosso?

– Non ne ho mai veduto di così colossali.

– Va bene. Lasciami riposare fino dopo il tramonto e avverti l’uomo che deve guidarci di tenersi pronto.

– Sarò io che ti condurrò sul luogo che la cattiva bestia frequenta.

– Una parola, mylord – disse l’ufficiale del rajah. – Come intendi cacciarlo?

– Lo aspetterò all’imboscata.

– Non otterresti nulla, perché al primo colpo di fucile, quegli animali assalgono e scappano, e tu sai che una palla sola non basta ad atterrarli.

Il rajah ha messo a tua disposizione uno dei suoi migliori cavalli, onde tu possa inseguire l’animale dopo fatto il colpo.

– Me ne servirò, – rispose Yanez. – Ora lasciatemi tranquillo perché non so se questa sera avrò tempo di dormire. —

Attese che il capo e l’ufficiale si fossero allontanati, poi volgendosi verso i suoi malesi che stavano seduti a terra, lungo le pareti, disse loro:

– Qualunque cosa debba succedere, voi non mi lascerete solo nella foresta. Non abbiate paura del rinoceronte: penso io ad abbatterlo.

– Temi qualche tradimento, padrone? – chiese Kubang.

– Sono sicurissimo che quel maledetto greco, cercherà di vendicarsi, con tutti i mezzi possibili, del colpo di scimitarra che gli ho dato, e perciò dubito di tutto e di tutti.

In una caccia in mezzo alla foresta accade talvolta di ammazzare un cacciatore invece dell’animale.

– Non perderemo d’occhio i seikki, capitano Yanez. Alla prima mossa sospetta, piomberemo addosso loro come tigri e vedremo quanti sfuggiranno alle nostre scimitarre.

– Che uno di voi monti la guardia fuori della capanna e prendiamo un po’ di riposo. —

Si stese su una stuoia ed invitato dal gran calore che regnava e dal profondo silenzio, poiché anche gli elefanti e gli indiani si erano addormentati, chiuse gli occhi.

Fu svegliato verso il tramonto dai latrati dei cani, dai nitriti dei cavalli, dai barriti degli elefanti e dalle grida dei cornac e dei seikki.

I malesi erano già in piedi e pulivano le loro carabine e le loro pistole.

– La cena, – disse Yanez. – Poi andremo a scovare questo signor colosso. —

I cuochi avevano preparato il pasto serale e non aspettavano che l’ordine del gran cacciatore per servire.

Yanez mangiò alla lesta, prese la sua magnifica carabina a doppia canna, caricata con palle rivestite di rame, veri proiettili da grossa caccia, e uscì.

Gli uomini scelti ad accompagnarlo, non erano che in sei e tenevano per le briglie alcuni splendidi cavalli, fra i quali uno tutto nero che pareva avesse il fuoco nelle vene e che era riccamente bardato, con staffe corte all’orientale.

– Il mio? – chiese Yanez all’ufficiale.

– Sì mylord, – rispose l’indiano. – Non montarlo però ora.

– Perché?

– I cavalli devono giungere sul luogo della caccia freschissimi. I rinoceronti corrono colla velocità del vento quando caricano e guai al cavallo che in quel momento si trovasse affaticato.

– Hai ragione. E la guida?

– Ci aspetta di là delle piantagioni.

– Partiamo, ma senza cani: disturberebbero la caccia.

– Così ho pensato anch’io, desiderando tu cacciare all’agguato. —

Lasciarono l’accampamento e presero un sentiero che attraversava le piantagioni d’indaco, seguìti dagli sguardi di tutti i contadini, i quali si erano schierati sui margini dei campi.

La notte era splendida e propizia per una buona caccia. Una fresca brezzolina, che scendeva dagli altipiani giganteschi del Bhutan, soffiava ad intervalli, sussurrando fra le pianticelle d’indaco, e la luna sorgeva mestosa dietro i lontani picchi della frontiera birmana. In cielo le stelle fiorivano a milioni e milioni, proiettando una luce dolcissima.

Yanez colla sua eterna sigaretta fra le labbra, colla carabina sotto un braccio, seguìto subito dai suoi malesi, marciava in testa al drappello. L’ufficiale invece guidava i seikki che conducevano i cavalli.

Oltrepassate le piantagioni il drappello trovò il vecchio capo.

– L’hai veduto? – gli chiese Yanez.

– No, sahib, ma ho saputo dove si trova il suo covo. Un cacciatore di nilgò me l’ha indicato.

– Credi che sia già uscito a pascolare?

– Oh! non ancora.

– Meglio così: lo sorprenderemo nel suo covo. —

Ripresero la marcia avviandosi verso una foresta che nereggiava verso ponente e che sembrava immensa.

Bastò un’ora di marcia rapidissima, essendo gli indiani dei camminatori lestissimi ed infaticabili non meno degli abissini, perché la raggiungessero.

Per un caso veramente raro, quella foresta si componeva quasi tutta di fichi d’India, piante colossali d’una longevità straordinaria, dalle foglie ovali lanceolate, coriacee, mescolate a piccoli frutti d’un sapore dolciastro che poco hanno da fare coi nostri fichi d’Europa, e dai cui tronchi gl’indiani estraggono, mediante una semplice incisione, una specie di latte che non è però bevibile, ma che invece serve ottimamente a preparare una specie di gomma-lacca, che nulla ha da invidiare a quella che viene usata dai cinesi e dai giapponesi.

Il vecchio capo fece una breve fermata sul margine della foresta mettendosi in ascolto, poi non udendo che gli ululati lontani di alcuni lupi indiani, s’inoltrò risolutamente fra quella miriade di tronchi, dicendo a Yanez:

– Non ha ancora lasciato il suo covo. Se fosse uscito lo si udrebbe, perché quando scorazza per le boscaglie fa sempre udire il suo niff-niff.

– Meglio così, – rispose Yanez.

Gettò via la sigaretta, armò la carabina, fece segno ai malesi di fare altrettanto e seguì la guida che s’inoltrava con passo sicuro sotto le immense volte dei fichi, tenendo in mano un vecchio fucile che ben poco avrebbe potuto servire contro quei colossali animali, che hanno una pelle quasi impenetrabile ai migliori proiettili.

La foresta, di passo in passo che i cacciatori s’avanzavano, diventava sempre più fitta. Per di più enormi cespugli crescevano qua e là, avvolti in una vera rete di calamus e di nepente.

I cacciatori avevano percorso un buon mezzo miglio, quando il vecchio indiano fece a loro segno di arrestarsi.

– Ci siamo? – chiese Yanez sottovoce.

– Sì, sahib: lo stagno dei coccodrilli è poco lontano ed è sulle sue rive che il rinoceronte ha il suo covo. Fa’ avvolgere le teste dei cavalli nelle gualdrappe onde non nitriscano. L’animale può essere di buon umore e sfuggirci, invece di caricarci. —

 

Yanez trasmise l’ordine ai seikki poi disse alla guida:

– Avresti paura a seguirmi?

– Perché sahib?

– Desidero scovare il rinoceronte senza avere dietro di me i seikki ed i miei uomini. Spareranno dopo di me se non riuscirò ad abbatterlo.

– Tu sei il grande cacciatore del rajah, quindi nulla devo temere.

– Aspettatemi qui e tenetevi pronti a montare a cavallo, – disse Yanez alla scorta. – Se io manco aprite il fuoco e mirate bene. Se ci carica sarà un affare serio ad arrestarlo in piena corsa.

Andiamo amico: conducimi nel luogo preciso dove si trova il covo.

– Vieni, sahib. —

Si allontanarono in silenzio, passando con precauzione fra le innumerevoli colonne dei fichi, cogli occhi in guardia e gli orecchi ben tesi.

Regnava un profondo silenzio. Perfino i bighama, i lupi dell’India, tacevano in quel momento. Anche il venticello notturno era cessato e non faceva più stormire il fogliame degli immensi alberi.

Percorsi altri trecento passi il vecchio indiano tornò a fermarsi.

– Lasciami ascoltare, – disse sottovoce a Yanez. – Lo stagno dei coccodrilli sta dinanzi a noi.

– Odi nulla?

– Il respiro del rinoceronte. Deve essere nascosto in mezzo a quel vasto cespuglio.

– Che non abbia fame questa sera?

– Si sarà cibato abbondantemente stamane.

– Lo costringerò io a mostrarsi. —

Si guardò intorno e scorto un grosso pezzo di ramo, lo scagliò, con quanta forza aveva, al disopra del cespuglio.

Subito una specie di fischio rauco s’alzò fra le fronde seguìto da uno strano grido.

Era il niff-niff del rinoceronte.

– Si è svegliato – sussurrò Yanez mettendosi rapidamente la carabina alla spalla. – Che si mostri e gli caccerò due palle nel cervello. —

Trascorsero alcuni istanti senza che l’animale si mostrasse.

Anche l’indiano, quantunque avesse una scarsa fiducia nell’efficacia del suo vecchio fucile, si teneva pronto a sparare.

Ad un tratto il cespuglio si agitò in tutti i sensi, come se una tempesta fosse improvvisamente scoppiata nel suo seno, poi s’aprì bruscamente ed un enorme rinoceronte comparve lanciando furiosamente il suo grido di guerra.

Subito tre detonazioni rimbombarono l’una dietro l’altra, seguìte tosto da un altissimo grido lanciato dall’indiano.

– Fuggi, sahib!… —

Il rinoceronte quantunque dovesse aver ricevuto qualche palla, poiché Yanez non mancava mai ai suoi colpi, caricava all’impazzata coll’impeto furibondo, che è particolare a quegli animalacci.

Il portoghese vedendolo, aveva voltato le spalle slanciandosi a tutta corsa verso il luogo ove si trovavano i malesi e i seikki.

Fortunatamente gl’innumerevoli tronchi dei fichi d’India, che in certi luoghi crescevano così uniti da non permettere il passaggio ad un grosso animale, avevano frenato lo slancio terribile del colosso, lasciando così tempo ai fuggiaschi di raggiungere i loro compagni.

– A cavallo! – gridò Yanez.

Un seikko gli condusse prontamente dinanzi quel cavallo che il rajah gli aveva destinato. Il portoghese con un solo slancio fu in sella senza servirsi delle staffe.

I malesi e i seikki vedendo il rinoceronte apparire fra i tronchi dei baniani a corsa sfrenata, fecero una scarica, poi si dispersero in varie direzioni, trasportati loro malgrado dai cavalli spaventati che non obbedivano più né alle briglie, né agli speroni.

L’ufficiale del rajah era stato il primo a scappare, senza perdere tempo a far fuoco.

Yanez aveva fatto fare al suo nero destriero un salto terribile per evitare l’urto del furibondo colosso, mentre il vecchio indiano, più fortunato, si poneva in salvo, con un’agilità scimmiesca, su un fico.

Il rinoceronte, reso feroce dalle ferite ricevute, continuò la sua corsa per un due o trecento passi; poi fatto un brusco voltafaccia tornò indietro lanciando per la seconda volta il suo grido di guerra: niff-niff!…

Se gli altri erano scappati, Yanez era rimasto sul luogo della caccia e non per volontà sua, bensì per bizzarria del suo cavallo che pareva fosse diventato improvvisamente pazzo.

Faceva dei terribili salti di montone come se il peso del cavaliere gli spezzasse le reni, s’inalberava nitrendo dolorosamente, poi sferrava calci in tutte le direzioni.

Il portoghese però non si lasciava scavalcare e stringeva nervosamente le ginocchia e non risparmiava né strappate di briglie, né colpi di sperone, sagrando come un turco.

– Via! scappa! – urlava. – Vuoi farti sventrare? —

Il cavallo non obbediva ed il rinoceronte tornava alla caccia, colla testa bassa ed il corno teso, pronto ad immergerlo tutto nel ventre del nemico.

Un freddo sudore bagnava la fronte di Yanez. Un terribile sospetto gli era balenato nel cervello, ossia che il greco gli avesse preparato qualche tranello per perderlo nel momento più pericoloso.

Guardò rapidamente in aria. Appena ad un metro sopra la sua testa si stendevano orizzontalmente i rami dei fichi.

– Sono salvo! – esclamò, gettandosi a bandoliera la carabina.

In quel momento il rinoceronte piombò addosso all’imbizzarrito destriero. Il corno scomparve intero nel ventre del povero animale, poi con un colpo di testa alzò cavallo e cavaliere. Uno solo però cadde: il primo, poiché il secondo, che aveva conservato un meraviglioso sangue freddo anche in quel terribile frangente, si era disperatamente abbrancato ad un ramo, issandosi prontamente.

Il cavallo, sventrato di colpo, stramazzò al suolo, s’alzò ancora inalberandosi, poi cadde di quarto mandando un nitrito soffocato.

Il rinoceronte, colla brutalità e ferocia istintiva degli animali della sua razza, tornò addosso al povero animale immergendogli per la seconda volta nel corpo il corno, poi preso da un eccesso di furore indescrivibile, si mise a calpestarlo rabbiosamente mandando fischi acuti.

Sotto il suo peso enorme, le ossa del cavallo scricchiolavano e si spezzavano, e dagli squarci prodotti da quei due colpi di corno, uscivano insieme getti di sangue, intestini e polmoni.

Yanez che aveva ricuperata prontamente la sua calma, appena messosi a cavalcioni del ramo, ricaricò la carabina, borbottando:

– Ora vendicherò il cavallo del rajah, quantunque quel testardo, per poco, non mi abbia spedito diritto nell’altro mondo. —

In quel momento alcuni spari rimbombarono a breve distanza: poi i sei malesi passarono a centocinquanta metri circa da Yanez, trasportati in un galoppo sfrenato.

– Andate pure, miei bravi – disse Yanez. – Ci penso io al rinoceronte. —

Si accomodò meglio che poté sul ramo e puntò la carabina.

Il bestione che pareva impazzito non aveva ancora lasciato la sua vittima. La squarciava a gran colpi di corno avvoltolandosi nel sangue, la calpestava lasciandosi poi cadere con tutto il suo enorme corpaccio e non cessava di mandare urla stridenti.

Una palla che lo colpì un po’ sopra l’occhio sinistro, lo calmò per un istante.

S’arrestò guardando in aria, colla bocca aperta. Era il momento che Yanez aspettava.

Il secondo colpo di carabina partì colpendo l’animale al palato e penetrandogli nel cervello.

La ferita era mortale, pure il bestione non cadde. Anzi si mise a galoppare vertiginosamente intorno ai tronchi dei fichi schiantandone parecchi.

– Per Giove! – esclamò Yanez ricaricando l’arma. – Per questi animali ci vorrebbe una spingarda o meglio un cannone. —

Attese che gli passasse sotto e fece fuoco quasi a bruciapelo, colpendolo fra la nuca ed il collo.

L’effetto fu fulminante. L’animalaccio si rizzò di colpo sulle zampe posteriori, poi stramazzò pesantemente a terra rimanendo immobile. Aveva ricevuto cinque palle e tutte foderate di rame e di grosso calibro.

– Era tempo che tu morissi! – esclamò Yanez lasciandosi scivolare giù da uno di quegli innumerevoli tronchi. – Ho ammazzato tanti animali, ma nessuno m’ha fatto sudare né passare un brutto momento come questo. Vediamo ora che giuoco hai tentato, maestro Teotokris dell’Arcipelago greco. Che una tigre mi divori se qui sotto non vi è la tua mano! Il cavallo era troppo impazzito. —

S’avvicinò con precauzione al rinoceronte e dopo essersi ben accertato che era proprio morto e che non vi era più pericolo che si rimettesse in piedi, rivolse la sua attenzione al destriero del rajah.

Disgraziato animale! Intestini, cuore, polmoni e fegato giacevano intorno a lui, strappati dal brutale corno del colosso ed il suo corpo schiacciato, mostrava delle ferite spaventevoli dalle quali il sangue colava ancora abbondantemente.