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Alla conquista della luna

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Avevano già fabbricato una macchina strana, che rassomigliava ad una cupola, con la parte superiore formata da lastre solidamente incastrate in telai che parevano d’alluminio, e la inferiore coperta di specchi immensi e di una serie di doppie eliche, che si vedevano funzionare senza posa, anche dopo il tramonto dell’astro diurno.

Che cosa fosse, nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Anche Faja che, avendo girato il mondo, doveva sapere tante cose e anche averne vedute molte, invano si lambiccava il cervello.

Solo cominciava a credere che quei due scienziati non fossero così pazzi come li aveva dapprima giudicati.

Erano trascorsi dieci giorni dalla partenza del misterioso piroscafo, quando un dopopranzo gl’isolani videro i due scienziati intenti ad abbattere il recinto.

Faja, avvertito che i due stranieri desideravano parlargli, si era affrettato a scendere sulla riva.

Lo scienziato dalla barba bianca lo ricevette e lo condusse dinanzi a quella strana macchina, i cui specchi percossi dal sole irradiavano un calore così intenso da non poter resistere.

– Noi stiamo per tentare il grande esperimento – gli disse.

– Quale? – chiese Faja.

– Di conquistare la luna.

– Ne siete ben certi? – chiese l’ex-marinaio, con tono di dubbio.

– Abbiamo, se non la certezza, almeno molta speranza – disse il vecchio. – Voi vedete questa macchina?

– Anche un cieco la vedrebbe, ma non so a che cosa potrebbe servire, specialmente con tutti quegli specchi.

– Chiamateli riflettori, signor alcade, o meglio ancora, insolatori.

«Basta orientarli a seconda della direzione dei raggi solari per ottenere uno sviluppo di calore così considerevole da mettere in movimento qualunque macchina.

«Essi danno a noi la forza necessaria per far funzionare gli apparecchi che si trovano sotto la cupola di cristallo, i quali dovranno mettere in moto tutte le ali ad elica, destinate a trasportarci in alto.

«Noi vogliamo tentare, con l’aiuto di quella novella forza, d’innalzarci a tale altezza non mai neppur sognata, fino ad uscire dall’orbita della terra e cadere sulla luna o su qualche altro astro, ciò che io ed il mio amico, dopo lunghi studi, crediamo possibile.

«Non sappiamo se il nostro tentativo, che può sembrarvi una pazzia, possa avere un esito felice o se finirà in un’orrenda catastrofe.

«Comunque sia, noi lasceremo alla scienza la nostra invenzione.

Prese un tubo di metallo, accuratamente chiuso, e lo consegnò all’ex marinaio, dicendo:

Qui vi sono dei documenti riguardanti la nostra scoperta. Se un giorno una nave approderà alla vostra isola ed il suo comandante li reclamerà, voi non dovete esitare a consegnarli. Datemi la vostra parola, signor alcade.

– Datemi la vostra parola signor accade. – Ve lo prometto – rispose Faja.

– Ve lo prometto – rispose Faja.

– Prendete ora queste cinquecento piastre che dividerete coi vostri pescatori, ed ora addio. Se non torneremo più sulla terra, avremo dimostrato la possibilità di conquistare gli altri mondi.

Strinse la mano all’alcade, salutò gli isolani, che erano accorsi in buon numero sulla spiaggia, poi raggiunse il suo compagno, chiudendo la porta della cupola.

Faja ed i pescatori si erano allontanati di parecchi metri, chiedendosi ansiosamente che cosa stava per succedere; d’altronde l’irradiazione proiettata da tutti quegli specchi era così ardente che le vesti degl’isolani minacciavano di prender fuoco.

I due scienziati, che si scorgevano benissimo attraverso la cupola di cristallo, eseguivano delle manovre misteriose attorno a certi apparecchi che rassomigliavano a piccole macchine a vapore, prive di camini.

Ad un tratto, gl’isolani videro le ali che si trovavano intorno alla cupola, un po’ sotto gli specchi, girare vertiginosamente e la macchina intera inalzarsi con la rapidità d’un uccello marino.

Scintillava come una massa di fuoco, lanciando in tutte le direzioni fasci di luce accecanti che impedivano quasi di osservarla, s’alzava sempre sopra l’isola, mantenendo una verticale quasi perfetta.

Per parecchi minuti Faja ed i suoi compagni poterono seguirla con gli sguardi, riparandosi gli occhi con le mani, poi scomparve fra la luce solare come se si fosse fusa.