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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3

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Della credulità del popolo si è abbastanza parlato per non dover qui ripetere il già detto. Restano le riflessioni critiche sopra Ireneo e sopra Teofilo.

Ireneo, dice il Middleton, attribuisce altrui il dono delle lingue, dov'egli predicando l'Evangelio nelle Gallie confessa di aver dovuto contrastare colle difficoltà d'un dialetto barbaro. Nel testo si legge, che il Santo si scusa di non iscrivere con Greca eleganza la storia dell'Eresie a motivo di questo barbaro dialetto: frattanto ci si suppone, che ciò accadesse nell'atto di predicar l'Evangelio. La parola Greca poi, alla quale si fa significare contrastare colle difficoltà di un dialetto barbaro realmente significa esercitare, usare, parlare un dialetto barbaro.

Teofilo rigettò la proposizione di rendere ad un morto la vita, per quanto bramoso fosse dalla conversion dell'amico. Il fatto è verissimo, e ne istruisce chiaramente, che gli antichi Vescovi non si avvisavano di poter fare i miracoli a lor piacimento. Ma che se ne vuole inferire? Dunque Ireneo, il quale dice, che questo prodigio non era raro a suo tempo, e ch'egli aveva conversato con persone, alle quali era stata fatta questa grazia, mentisce. Dobbiamo perdere il tempo a confutar questa maniera di argomentare? Dipendente da questo è l'altro esame che siamo ora per fare. Suppone l'Autore, che ogni uomo ragionevole confessi, non farsi più nella Chiesa veri miracoli. La sua perplessità è soltanto nel fissar l'epoca della pretesa sospensione. Fu immediatamente dopo la morte degli Apostoli? Alla conversione di Costantino? All'estinzione dell'Arriana eresia? Tacciamo che la perplessità non può aver luogo in chi ha impugnati i miracoli de' tempi d'Ireneo, e facciamo osservare, che i Cattolici esclusi dal numero degli uomini ragionevoli, perchè insegnano operarsi tuttora, benchè meno frequentemente, e doversi operare veri miracoli sino alla consumazione de' secoli nella Chiesa, lo dimostrano all'Autore co' suoi stessi principj.

Perchè ricuseremo noi la testimonianza di Beda o di Bernardo nell'ottavo o nel decimo secolo, ammettendo quella d'Ireneo nel secondo? Ecco il primo argomento.

Al presente la Chiesa ha degl'Increduli da combattere, degli Eretici da convincere, degli Infedeli da convertire, come ne' secoli andati, di sorte che l'utilità o sia la necessità de' miracoli è sempre la stessa. E questo è il secondo argomento.

La successione della dottrina, de' Santi, de' Martiri e de' miracoli in ogni secolo è così seguita, che non si scorge in quale anello siasi rotta la catena. Dunque essa non si è mai rotta; poichè confrontando l'un secolo coll'altro, la differenza, se vi fosse, dovrebbe essere sensibile. Ecco il terzo argomento.

Verisimilmente l'Autore avrà avuta in mira un'altra conclusione. Ogni uomo ragionevole confessa, che attualmente non accadono veri miracoli: ma quelli degli altri secoli giungendo di mano in mano sino agli Apostoli ed a Gesù Cristo, sono muniti delle stesse prove, e sembrano ugualmente utili; dunque tutti i miracoli sono mere imposture.

Ora ecco il vantaggio che hanno i Cattolici sopra i Protestanti. I primi ammettendo i miracoli presenti difendono senza fatica quelli della primitiva Chiesa, quelli degli Apostoli, quelli di Gesù Cristo, co' quali fanno una catena. I secondi non possono negare i miracoli de' tempi moderni, senza rovesciare gli altri, co' quali sono connessi. Ed il Middleton nella prima Opera dichiarò veramente, che non si poteva contrastare all'odierna Chiesa il vanto de' miracoli, se non prendendo a distruggere quelli de' primi secoli: ma egli non si accorse, che bisognava salire agli Apostoli ed a Gesù Cristo. Noi non ci tratterremo più sopra questo argomento, avendo rispinti i tentativi del nostro Autore; aspetteremo che alcuno de' Protestanti sciolga i nodi, che fa nascere il loro sistema, giacchè i due Apologisti Inglesi non hanno soddisfatto all'aspettazione del Pubblico.

Toccando alla sfuggita i miracoli di Gesù Cristo, l'Autore pretende, che i prodigi, che figuravansi di fare i primi Cristiani, li disponevano ad ammettere colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio, ch'ei chiama autentiche per nascondere in qualche maniera il veleno. Nella qual satira però non sappiamo, se la stolidezza non superi la malignità; perocchè supponendo i Cristiani illusi riguardo a se stessi, l'inganno non potea provenire se non dall'essere persuasi del divino potere di Gesù Cristo e dell'efficacia delle sue promesse, senza la qual persuasione non si sa comprendere come potevano vantarsi di far miracoli a nome di Cristo. La fede adunque de' propri miracoli si risolveva ne' miracoli di Cristo; non credevano ai miracoli di Cristo per un somigliante potere che attribuivano a se stessi.

I Cristiani confessavano e confessano sorpassare i misteri le forze del loro intelletto; e li credevano e li credono sulla forza de' miracoli, i quali provano averli Iddio rivelati. E questa è necessità di conseguenza, non facilità di credere.

Assuefatti, prosegue l'Autore, ad osservare ed a rispettare l'ordine invariabile della natura, la nostra ragione o almeno la nostra fantasia non è preparata sufficientemente a sostenere l'azione visibile della Divinità, cioè a credere, che Iddio possa o voglia mutare l'ordine naturale: e siccome in ogni tempo l'ordine della natura si è osservato invariabile, in ogni tempo, gli uomini avrebbero dovuto rigettare i miracoli. Ma si è dimostrato contro lo Spinosa non tanto da' Teologi, quanto da' filosofi di tutte le Sette, che l'ordine naturale, invariabile rispetto alle creature, è soggetto al volere del Creatore, il quale per puro suo beneplacito prescrisse alla materia piuttosto queste leggi che altre, come chiaramente si osserva da' Fisici nel moto degli astri, il quale, comunque si concepisca, in niun modo ripugna alla materia. Se Iddio poi abbia o non abbia voluto alcune volte sospendere le leggi della natura, ella è una questione di fatto, circa la quale il Signor David Hume pubblicò qualche sofisma, che non potè oscurare la luce di questa semplicissima verità, che i fatti si provano per via di testimonianze.

La fede dei Cristiani vien qui derisa come credulità: e si riflette che questo era il principale e forse l'unico merito, che si richiedeva dal Cristiano. S. Paolo al contrario diceva ai Fedeli: sia ragionevole l'ossequio della vostra fede; ed altrove s'inculca, che si provi rigorosamente lo spirito. La fede, che tanto si esaltava, era l'operazione della Grazia sull'intelletto: questa è una delle virtù teologali, e non la principale; giacchè la Scrittura dà la preminenza alla carità: major harum charitas; ed insegna, che la fede senza l'opere è morta.

solamente secondo i Dottori rigorosi, ma ancora secondo il dogma della Chiesa universale, le opere degl'Infedeli, le quali possono esser buone quanto alla pura sostanza, non conducono alla giustificazione. E quando si ponga mente, che il fine della beatitudine è sovrannaturale, si cesserà di maravigliarsi, come opere fatte colle pure forze della natura non vi abbiano rapporto.

Abbiamo fatta un'ampia e diretta apologia della verità de' miracoli, quando ci aspettavamo di sentire, come i falsi miracoli giovavano naturalmente a convertire gl'Infedeli.

Quarta Conclusione che dee provare l'Autore. Le virtù dei primi Cristiani furono una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo

Ristretto. I primi Apologisti rappresentano co' più vivi colori la riforma de' costumi, che s'introdusse nel mondo mediante la predicazione del Vangelo. Perchè mio disegno è di notar solamente quelle cagioni umane che furono scelte per secondar l'efficacia della Rivelazione, ne esporrò due, che naturalmente rendettero la vita dei primitivi Cristiani più pura ed austera di quella de' Pagani loro contemporanei: una era il pentimento delle lor colpe passate; l'altra il desiderio di sostener la riputazione della società. Furono i Cristiani accusati di attirare al loro partito i delinquenti più scellerati, che si persuadevano di lavare nell'acque del battesimo le colpe passate, per le quali dai tempj degli Dei ricusavasi loro qualunque espiazione. Quelli, che nel mondo avevan seguitato, sebbene imperfettamente, i dettami della benevolenza e del decoro, traevano dall'opinione della propria rettitudine una sì tranquilla soddisfazione, che li rendeva molto men suscettibili di que' subiti movimenti di vergogna, di cordoglio e di terrore, che avevan fatto nascere tante maravigliose conversioni. La brama della perfezione diveniva la passion dominante di quelli a dispetto della ragione, che si contiene dentro i limiti d'una fredda mediocrità. Ogni società particolare, che si è staccata dal corpo d'una nazione, divien subito oggetto d'universale ed invidiosa attenzione, e però ogni membro si trovava impegnato ad invigilare colla maggior premura sulla propria condotta e su quella de' suoi fratelli. Comecchè per la massima parte si esercitavano in qualche negozio o professione, vi attendevano colla massima integrità e col più onesto contegno. Il disprezzo del mondo e la persecuzione gli abituavano negli esercizi di umiltà, di mansuetudine e di pazienza. I Vescovi ed i Dottori d'allora spesso prendevano nel senso il più letterale que' rigidi precetti di Cristo e degli Apostoli, che i moderni comentatori hanno spiegato con libera e figurata maniera come consigli. Una dottrina così sublime doveva rendersi venerabile al popolo: ma era mal adattata per ottener l'approvazione di que' mondani filosofi, che nella condotta di questa vita passeggiera consultano i sentimenti della natura, e l'interesse della società. I principj della natura sono l'amor del piacere e quello d'agire, che rivolti in buon uso formano la privata e la pubblica felicità. Ma i primitivi Cristiani non bramavano di rendersi o piacevoli o utili in questo mondo. Eglino credevano illecito ogni piacere, i comodi, gli ornamenti, il lusso. Credevano che se Adamo si fosse conservato innocente, avrebbe propagata la specie umana in altro modo; che il matrimonio dee riguardarsi come uno stato d'imperfezione e di perfezione il celibato. Le vergini d'Affrica però permettevano a' Preti ed a' Diaconi d'aver luogo nei loro letti, e la natura insultata vendicava i propri diritti. Non erano i Cristiani meno alieni dagli affari che dai piaceri. Non sapevano come conciliar la difesa delle proprie persone e sostanze colla dottrina dell'illimitata tolleranza: offendevansi dall'uso de' giuramenti, e credevano illecita, la guerra.

 

Risposta. La maggior parte del presente articolo è impiegata a combattere la morale Cristiana co' vecchi sofismi, vestiti di brillanti espressioni, e nelle due prime ricerche si cambia la questione; poichè si prendono ad indagare le cagioni umane, per cui i primi Cristiani menavano vita più pura ed austera de' Pagani loro contemporanei: onde questa è la quarta volta, che l'Autore perde di vista il tema del suo ragionare. Come la morale Cristiana potè naturalmente operare tante conversioni, dal nostro Autore mai nol sapremo.

Anzi perchè è una specie di fatalità la sua, che distrugga con una mano quello, che si sforza di edificare coll'altra, s'impegna a provare, essere la morale Cristiana contraria alla natura ed all'interesse della società. Con tale asserzione come può conciliarsi, che questa stessa morale muovesse naturalmente i Gentili ad abbracciarla?

Ella non è contraria alla natura: noi lo vedremo, ma ella è contraria alle prave inclinazioni della natura corrotta: ella esige dalle passioni una perpetua ubbidienza alla ragione: ella prescrive che tutte le azioni si riferiscano a Dio: ella reputa beati quelli che piangono, quelli che sono perseguitati, gli umili, i poveri di spirito, ella ordina non pure il perdono, ma la dilezione ancora de' nemici. Questo sistema doveva sgomentar gl'Idolatri, la morale de' quali, consecrata dalla Religione, non vietava se non i delitti, che riguardano la sicurezza del pubblico; e quanto al piacere dei sensi accordava una libertà illimitata. Come poteva in così breve spazio di tempo farsi una grande rivoluzione ne' pregiudizi della mente e della disposizione abituale della volontà? Si stenta tanto a convertire un peccatore invecchiato nel Cristianesimo stesso, dove il culto, le prediche, l'esempio altrui operano incessantemente sul cuore: e dobbiamo figurarsi tanta facilità ne' Gentili, che in premio di tal cambiamento avevano innanzi i tormenti e la morte intimata dalle leggi, che avevano proscritta questa morale? È ciò conforme all'ordine della natura? I nostri Apologisti additando con istupore le numerose conversioni operate dalla predicazione dell'Evangelio, esclamano, questo essere un effetto sensibile della Grazia divina, che sola può superare i grandi ostacoli, che nella mente e nel cuore doveva incontrare; ed il nostro Autore vuole, che crediamo sulla sua parola, che la qualità stessa di questa morale produceva naturalmente quegli effetti, che ci fanno stupire; ma noi non cangeremo sentimento, fino a quando egli non avrà messa mano alle prove.

La prima questione, ch'egli tratta, è di spiegare, perchè i Cristiani, cioè gl'Idolatri già per altre vie convertiti, menavano vita più pura ed austera di quelli che restavano nell'Idolatria? Dichiara di spiegarlo con due cagioni umane, e poi ne assegna cinque. Il pentimento de' falli passati: il desiderio di sostenere la riputazione della società: l'interesse temporale: il disprezzo del mondo: la persecuzione.

Il pentimento de' falli passati. Erano nel sistema dell'Idolatria peccati inespiabili? Per appoggiare novità così singolare l'Autore non cita monumenti. Ma supposto, che i più grandi scellerati volessero purificarsi coll'acque battesimali, potevano riconoscere una virtù in questo sacramento senza riconoscere insieme la verità del Cristianesimo? Ed in questo caso non pure i gran peccatori, ma anche coloro, che vivevano con qualche onestà, dovevano farsi un dovere d'entrar nella via della salute; poichè una rettitudine naturale non può tener tranquillo chi crede alle minacce della Rivelazione: qui non crediderit, condemnabitur.

La conversione de' maggiori scellerati, che poi divennero i Santi più grandi, certamente fa onore alla Chiesa. Ma l'Autore, che vuol tutto avvelenare, soggiunge che a questi soli, e specialmente alle femmine di malvagio costume, i Missionari Evangelici si rivolgessero. Non possiamo meglio ribattere la calunnia, che invitandolo a scorrere gli Atti degli Apostoli, dove troverà, ed in gran numero venuti alla fede, Sacerdoti, Scribi, Farisei, Capi di Sinagoga tra Giudei, e tra Gentili, ministri di Regine, Governatori di Province, Centurioni, donne nobili e persone di lettere.

Il desiderio di sostenere la riputazione della società sarebbe stato di qualche stimolo, se i Pagani non si fossero trovati universalmente prevenuti, che nella società Cristiana si commettevano i più detestabili eccessi. Chi vi si ascriveva, dovea piuttosto resistere all'infamia, di che si copriva. Solo si può concedere, che dovevano impegnarsi a distruggere tali calunnie coll'esemplarità del vivere.

L'interesse fa custodire la buona fede e l'integrità in coloro, che fanno la professione di negozianti, o esercitano qualche mestiere. Ma qui l'Autore ci dipinge i Cristiani come morti a tutti gli affari del mondo; e prima ci aveva detto, che si astenevano da' mestieri, che quasi tutti alludevano ai riti Idolatrici.

Il disprezzo del mondo segue appunto per distruggere l'interesse. Quest'era una delle virtù ch'esercitavano, non una delle cagioni, per cui esercitavano la virtù.

La persecuzione fu posta in opera dagl'Imperadori come mezzo efficace a sgomentar l'animo: come partorisse naturalmente l'effetto contrario, l'Autore doveva spiegarlo. Ma della prima questione si è detto abbastanza; passiamo alla seconda.

La morale Cristiana è tacciata come eccessiva, fanatica, contraria ai principj della natura ed all'interesse dello Stato, riprovata da' filosofi, condannata dalla ragione, che ama la fredda mediocrità. E per questo noi abbiamo soggiunto, che era fuori dell'ordine naturale, che fosse così prontamente abbracciata. Ma non si parli più di questo. Diteci, quali sono i veri principj della natura, che formano la privata e la pubblica felicità. L'amor del piacere è il primo, l'amor dell'azione il secondo. L'uno e l'altro restano per sentimento dell'Autore degradati dalla morale Evangelica. A rettamente giudicarne, convien prima sviluppar i principj, e determinarne la generalità, colla quale a lui piace sempre di parlare al lettore.

L'amor del piacere. Vi ha un piacere intellettuale, ed un altro di senso, perchè l'uomo è composto di corpo e di spirito. Questo naturalmente è più nobile di quello; e seguendo le facili tracce della ragione, l'ultimo fine, per cui fu l'uomo creato, è un bene spirituale, non corporeo. Quindi altro non essendo i precetti morali che tanti mezzi naturalmente proporzionati all'indole del fine, segue per legittima illazione, che l'amor del piacere sensibile dee stare immutabilmente subordinato all'amore del piacere intellettuale, e che prende la forma di mal morale ogni qual volta viola questa subordinazione; poichè allora non riferendosi più l'azione al suo fine, esce dall'ordine.

Ciò premesso il solo riguardo della salute e della temperanza, e non so quale depuramento d'arte nei piaceri di senso formano il ben fisico, al quale attendono pure i bruti; il bene morale risulta da' principj dell'animo, non da' vantaggi del corpo: ed appena questo linguaggio sarebbe perdonabile ad un Materialista.

Nel confrontar poi con questo principio la morale Evangelica, l'Autore vuol dare ad intendere, che tutti i detti di Gesù Cristo abbiano forza di precetto, e che l'idea de' consigli fosse impiegata tardi per dare soddisfazione alla filosofia. Quante volte è stato prodotto contro gli oppositori il passo decisivo dell'Evangelio: se vuoi salvarti, osserva i precetti: se vuoi esser perfetto, vendi quanto possiedi, e segui me.

Ha egli in seguito raccolte alcune forti espressioni de' Santi Padri, i quali secondo lo stile concionatorio dimandano il più, affine di ottenere il meno, ed ha detto con intrepidezza: ecco, o Cristiani, la vostra morale: frattanto i Cristiani non trovano il peccato nelle cose appartenenti a' comodi ed a' piaceri de' sensi; se non quando esse turbano l'esercizio delle facoltà spirituali, e distolgono l'animo dalla sua naturale tendenza all'ultimo fine.

Che Adamo avrebbe generato senza concupiscenza, se si fosse conservato innocente è opinione privata; più comunemente s'insegna, che la via della generazione sarebbe stata sempre la stessa; ma che la concupiscenza non si sarebbe mai ribellata dalla ragione.

Le parole crescite et multiplicamini, e quelle di Gesù Cristo, che alludono all'istituzione del Sacramento del matrimonio, non palesano la perplessità d'un legislatore che permette ciò che non vorrebbe. Nè noi dobbiamo inquietarci colle questioni che fanno i Casisti a questo proposito, bastando alla condotta il sapere, che il matrimonio è lecito, e che fu inoltre elevato alla dignità di Sacramento.

Non possiamo negare, che secondo la Scrittura e la Tradizione il celibato sia più perfetto del matrimonio; ed a considerarne soltanto i vantaggi esterni, avremmo pure il suffragio della filosofia. L'Autore però non può ignorare, che questo non è un precetto se non ecclesiastico, e semplicemente per coloro, che vogliono portare il giogo, e che quanto all'interesse dello Stato nel Cristianesimo si prende per regola il bisogno del Pubblico più che la perfezione de' particolari.

L'uso delle Vergini Affricane di dividere il letto coi Diaconi e co' Preti, che S. Cipriano tentò di estirpare, ripeteva l'origine dalla dottrina del matrimonio, per la cui validità s'insegnava, che bastasse la congiunzione degli animi senza il commercio de' corpi. Con il Mosemio; il quale conviene cogli antichi Storici che sottoposte le Vergini alle prove più rigorose ritrovarono intatte; sicchè non sappiamo, perchè il nostro Autore copiando l'erudizione dal Mosemio abbia aggiunto contro di lui, che la natura insultata vendicò i suoi dritti. Questo non è uno de' difetti che egli scopre con pena, costretto dalla legge dell'imparzialità. E Dio volesse, che fosse il solo! Ma facciamo parola del secondo principio della natura.

L'amor dell'azione. A parlar con rigore l'azione non si ama per se stessa, ma come mezzo che conduce ad un fine. Noi riconosciamo volentieri, che l'operare in pace per far fiorire il buon ordine, e per procurare il ben essere de' nostri simili, come anche l'operare in guerra giusta per proteggere la pace, è conforme all'intenzione del Creatore, purchè si depuri dalla corruzione, che vi sogliono spargere l'ambizione, la cupidigia e l'ira; passioni che sempre campeggiano nella Storia Greca e Romana, ed oscurano quella scarsa porzione di bene, che l'attività di quelle genti produsse. Intorno alla qual cosa non temiamo di asserire, che il Cristianesimo non solo non distrugge questo amore d'azione necessario alla sicurezza ed alla prosperità dello Stato, ma inoltre lo fortifica e lo perfeziona.

Non lo distrugge, perchè non vieta la giusta difesa di se stesso, avendone lasciato un illustre esempio S. Paolo, il quale non si fece illecito di sostener la sua causa innanzi a' legittimi tribunali, e di appellarsi in ultimo grado a quello di Cesare. Si vieta l'odio, il rancore, lo spirito della vendetta, e lo vieta ancora la legge di natura.

Non lo distrugge, perchè nella dottrina della Chiesa non si è mai reputata illecita la guerra, come evidentemente lo provano i passi verbali del nuovo Testamento raccolti a bella posta dal Grozio; e come lo conferma il fatto medesimo, che ne addita le armate Romane non mai scarse di soldati e di ufficiali Cristiani. Origene, ed alcuni altri pochi Dottori seguirono l'opinione contraria.

Non lo distrugge, perchè lo spirito del Cristianesimo non si offende dall'uso de' giuramenti, ma dal giurare per le false Divinità e per la Fortuna dell'Imperatore, ch'era una di quelle.

Non lo distrugge finalmente, perchè i Cristiani, anzichè abborrire del tutto gli affari civili, s'impegnavano con prontezza negli uffizj loro destinati dagli Imperadori; e si sa, che non pure l'esercito, ma eziandio il palazzo di Diocleziano abbondava più di ministri Cristiani che di uffiziali Gentili.

 

Anzi lo fortifica; primo, perchè tanto nel Principe quanto ne' sudditi ci fa rispettare l'immagine di Dio; secondo perchè all'obbligazione esterna aggiunge l'interna; e terzo perchè propone un premio ed una pena nella vita avvenire, a cui niuna cosa del tempo può paragonarsi; e sostituendo il principio purissimo della carità a quello dell'amor proprio perfeziona il sistema della natura.

Gli antichi Cristiani non andavano a conquistare, portando la strage e la desolazione nelle città e nelle campagne; non celebravano la letizia de' trionfi con trarre incatenati al cocchio Sovrani, che non avevano altro delitto, fuorchè quello di aver difesa la propria libertà; non eccitavano popolari sedizioni per mettere in ischiavitù la Repubblica. Ma i Cristiani facevano immensi viaggi, e combattevano colle tempeste del mare, coi disastri della terra, colla fame, colla sete, per far fiorire in ogni angolo della terra l'amor di Dio e del prossimo. I Cristiani si affannavano a raccoglier limosine per distribuirle a' poveri; a visitare i pupilli; a consolare le vedove; ad estirpare gli odj e l'emulazioni; a bandire gli omicidj e gli adulterj. I Cristiani finalmente davano ricovero ai servi cacciati da' proprj padroni, e liberavano da una morte penosa i bambini esposti secondo il permesso delle leggi dalla crudeltà de' genitori, e li nutrivano, e li educavano per restituirli allo Stato. No, i Cristiani in tutto ciò non bramavano di piacere al mondo; ma vi voleva tutta l'intrepidezza del nostro Autore a soggiungere, che non erano utili al mondo. Egli ha provato questa accusa, come ha dimostrato, che la morale Cristiana fu la quarta cagione naturale dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.

Quinta Conclusione che dee provare l'Autore. L'unione e la disciplina della Cristiana Repubblica fu una delle cagioni dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo

Ristretto. I primitivi Cristiani morti agli affari ed a' piaceri del mondo trovarono un'occupazione nel governo della Chiesa. Una società, che attaccava la religion dominante dell'Impero dovè adottare una forma di governo particolare. Gli Apostoli non ne istituirono alcuna: le prime Chiese furono libere ed indipendenti; e sino a certo tempo il governo fu in mano de Profeti; per l'abuso de' quali furono in seguito le pubbliche funzioni della religione affidate ai Vescovi ed ai Preti; nomi che nella loro origine, sembra che indicassero lo stesso ministero ed ordine di persone. Eglino a principio governarono collegialmente: poscia fu stabilito un Presidente in ogni Collegio, come Ministro di tutto il Corpo. Questi in progresso divenne superiore per usurpazione. Verso la fine del secondo secolo le Chiese della Grecia e dell'Asia introdussero i Concilj ad imitazione delle città Greche, i quali comunicandosi gli atti con una corrispondenza reciproca venne così la Chiesa Cattolica a prender la forma, e ad acquistare la forza d'una repubblica federativa. Il Clero molte volte si oppose all'usurpazioni de' Vescovi, e fu accusato di fazione e di scisma; e la causa Episcopale dovette i suoi rapidi progressi agli ambiziosi artifizi di Cipriano e di pochi altri Prelati a lui simili. Le cagioni, che distrussero l'eguaglianza de' Sacerdoti, fecero nascere tra' Vescovi una preminenza di grado, ed indi una superiorità di giurisdizione. Quest'è l'origine de' Metropolitani ed il fondamento dell'autorità de' Papi. Ogni società ha diritto di escludere dalla sua comunione quelli che la ledono: la Chiesa Cristiana esercitava questo diritto contro gli ostinati, ed ammetteva i ravveduti alla penitenza pubblica. S. Cipriano riguardava la dottrina della scomunica e della penitenza come la più essenziale parte della Religione.

Risposta. Il governo, di cui tratta l'Autore sotto il titolo di disciplina, risguarda il regolamento interno della società Cristiana; onde se ne può spiegare la conservazione, non ha veruna relazione alle conversioni de' Gentili: nè egli ha pur tentato di dargli questo aspetto; e così lasciando intatto l'argomento, per la quinta volta si perde a fare un trattato di diritto canonico.

Ma neppure spiega così la conservazione della Chiesa. Dalla forma del governo egli deduce l'unione di tutti i Fedeli, e pretende che i Concilj dessero alla Chiesa la forza di una Repubblica federativa. Ora la sua stessa esposizione contiene gli argomenti che la distruggono.

Primo, egli è di avviso, che il governo fu sempre vario, finchè si stabilì l'autorità Episcopale, e che i Concilj furono introdotti ad esempio delle città Greche, verso la fine del secondo secolo: per la qual cosa se la Chiesa acquistò la forza d'una grande Repubblica federativa per l'istituzione de' Concilj, non se ne spiega la conservazione per tutto il tempo anteriore, in cui l'incostanza del governo, che prendeva, ora una, ora un'altra forma, non poteva darne alcuna stabilita.

Secondo, nella sua supposizione cominciarono i Cherici ad usurparsi la giurisdizione del popolo, e ad opprimerne la libertà e l'indipendenza; in seguito i Vescovi sottomisero i Sacerdoti: poscia s'introdusse una subordinazione tra' Vescovi, e finalmente il Romano Pontefice tirò a se tutta l'autorità. Il popolo fu in dissensione co' Cherici, i Cherici co' Vescovi, ed i Vescovi contrastaron fra loro e col Romano Pontefice. Questa tela di governo è ordita secondo la sua fantasia, non secondo la verità della storia: le dissensioni bensì son troppo vere; anzi egli non ne ha toccata che una parte sola; ed a noi non piace di scuoprire le piaghe dell'umanità, che lascia per tutto le funeste tracce della sua debolezza. Ci basta il sin qui detto a conchiudere, che se realmente invece della decantata unione, regnò nell'ovile di Cristo la dissensione, mal se ne prende a spiegare la conservazione dalla forma di governo, che ne fornì l'occasione.

Ragioniamo adesso sul diritto Canonico che l'Autore ci propone, e riflettiamo essere suo avviso, che qualunque forma di governo, che prendesse successivamente la Chiesa, fu d'istituzione puramente umana; o d'istituzione umana ancora i Concilj e le Censure. Noi lo neghiamo e speriamo di convincerlo ad evidenza, che il governo ecclesiastico fu istituito da Gesù Cristo, come pure i Concilj ed il diritto della scomunica; e che l'istituzione divina, anzichè soffrire alcun cangiamento, si osservò e si osserva tuttora inalterabilmente la stessa.

La società Cristiana, dic'egli, nemica della religion dell'Impero, dovè pensare ad una forma di governo particolare. Che i Cristiani fossero nemici dell'Idolatria, senz'esserlo dell'Impero, a cui ciecamente sempre si sottomisero, è cosa per loro gloriosa. Ma non si tratta ora di questo; si tratta di consultare i libri autentici della vita di Gesù Cristo, per vedere se vi lasciò istituito un governo, e di mostrar così quanto deviino dalla verità le congetture del nostro Autore.

Ivi si scorge, che Gesù Cristo ai soli Apostoli diede la facoltà di legare e di sciogliere; che a loro soli assegnò dodici troni per giudicare le dodici tribù; che a loro soli confidò il diritto di pascere le sue pecorelle. Infatti ebbe egli inoltre settantadue discepoli, ai quali non conferì se non una missione a certo tempo limitata, e ben si vede che non gli fece partecipi dei privilegi compartiti agli Apostoli. E perchè alla Chiesa aveva promessa la perpetuità, nè si può concepire una società permanente senza una forma di governo, chiara cosa è, che l'autorità conferita agli Apostoli doveva secondo l'intenzione divina trasfondersi ne' successori. Ma diremo che ogni Fedele succede agli Apostoli? In tal guisa tutti sarebbero Giudici, tutti Dottori, tutti Pastori, cioè nessuno Giudice, nessuno Dottore, nessuno Pastore, essendo questi termini relativi, che portano seco l'idea d'una subordinazione. Per non attribuire a Cristo un assurdo sì strano, uopo è dire che alle facoltà degli Apostoli succedono alcuni dei Fedeli, non tutti i Fedeli: e così il più leggiero ragionamento, che si faccia sopra i passi della Scrittura, purchè non si abbia impegno di difendere il sistema del partito, atterra irreparabilmente la democrazia, e stabilisce l'aristocrazia nella forma del governo delineata dal Legislatore Divino.