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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 3

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Ma quali sono gli argomenti, a cui egli dà tanto peso? Iddio è immutabile. Che ne segue? Si muta egli forse per aver limitata l'esistenza dell'uomo? No. Perchè adunque non ha potuto ab eterno volere, che la legge Mosaica durasse sino a certo tempo, e poi desse luogo a quella, che ne' suoi immutabili decreti doveva seguire? Gesù Cristo e gli Apostoli osservarono le ceremonie di Mosè: perchè, dice S. Paolo, non era stato ancora squarciato l'antico chirografo; dappoichè Gesù ebbe consumate sulla croce tutte le profezie, cominciò un nuovo ordine di cose, e gli Apostoli coll'intervento del divino Spirito dichiararono, che il peso de' riti Mosaici non era più necessario.

Vi vuol dunque una gran dose di stupidezza o di malignità a dire, che la sagacità de' santi Interpreti qui ha dato di piglio all'allegoria, ovvero ai sofismi, come se in una cosa tanto facile e piana sorgessero difficoltà da non potersi altrimenti superare.

Nel raccontar le vicende della Chiesa di Gerusalemme l'Autore confonde i Nazarei Eretici co' primi Cristiani, ch'ebbero per qualche tempo la denominazione medesima: tolto il quale equivoco, si scorgerà chiaramente nella Storia che la Chiesa Gerosolimitana fu sempre ortodossa, e quando andò, e quando ritornò da Pella; mentre se professava coll'Evangelio i riti Mosaici, non ne insegnava la necessità; sebbene per essere que' Fedeli ammessi nella nuova città edificata da Adriano sul monte Sion avessero dovuto rinunziare ad ogni costume Giudaico. I Nazarei Eretici, che ne difendevano la necessità, e nutrivano altri errori capitali contro la fede, cacciati da Gerusalemme non ebbero più permesso di farvi ritorno per la loro ostinazione, e rimasero separati dalla comunicazione dei Fedeli nella stessa guisa di prima. Secondo alcuni eglino stessi sono gli Ebioniti; ma secondo altri l'una setta è diversa dall'altra.

San Giustino Martire fu d'avviso, che non fosse peccaminosa l'osservanza de' riti Mosaici, purchè non si credesse necessaria. Ma invece di spiegarsi colla più riservata diffidenza, nel passo si legge ripetuto tre volte salvatum talem iri aio. Nella traduzione dell'Autore Trifone l'interroga del sentimento della Chiesa; e nel testo si dice; an sunt, qui dicant, hujusmodi salvatum non iri? Sunt, ego respondi. Non esprime quanti erano, molto meno che fosse opinione di tutta la Chiesa. Cum talibus, prosegue il Santo, neque consuetudinis, neque hospitii communionem habere audent; parole compendiate così dal Mosemio: minus clementer decernunt. L'Autore prese da questo la citazione, e vi fece un ampio comento: asserendo che quando Giustino fu pressato a dichiarar il sentimento della Chiesa, confessò che vi erano molti fra gli Ortodossi Cristiani, che non solo escludevano i loro giudaizzanti fratelli dalla speranza di salvazione, ma che evitavano ancora ogni commercio con loro ne' comuni offizj di amicizia, d'ospitalità e di vita sociale. In un quadro d'intolleranza si doveva por mano a tinte assai forti.

Gli Gnostici non rigettarono l'antico Testamento per averlo trovato pieno di difetti, ma perchè fu inspirato dal Creatore, che nel loro sistema de' due principj era l'Autore del male. Per lo stesso sistema neppur poterono accomodarsi agli Evangeli, ne' quali s'insegna, avere il Verbo assunta umana carne, la quale era per loro opera del Creatore.

Le difficoltà, ch'egli cita contro l'antico Testamento, abusando del nome degli Gnostici, sono state ripetute sino alla nausea dai predecessori del Signor Gibbon, e gli Apologisti vi hanno tanta luce arrecata, che non possono più rimettersi in campo senza stancare la pazienza del Pubblico. Simili dettagli al nostro istituto non si convengono.

Dite voi, che sino ad Adriano la Chiesa tollerò tutte le Sette? Gesù Cristo aveva ordinato: si ecclesiam non audiverit, sit tibi, tanquam ethnicus et pubblicanus; e l'Apostolo aveva detto haereticum hominem devita. Nell'epistole di S. Paolo, di S. Giovanni e di S. Ignazio, discepolo degli Apostoli, ad ogni passo s'incontrano vive esortazioni a fuggire gli Eretici.

Passando da Gerusalemme a Roma, l'Autore si maraviglia, come i Cristiani avessero in tanto orrore ogni segno di culto nazionale. Ma o Iddio non esige un culto neppur naturale; o un culto contrario all'unità della sua natura ed alla perfezione de' suoi attributi dee veramente inspirare l'orrore, col quale i Cristiani guardavano l'universale depravazione delle leggi di natura, consecrata agli Dei nel culto idolatrico. L'Autore motteggia sul demonio, come se senza l'intervento di lui l'idolatria non fosse il più enorme di tutti i peccati. I demonj erano autori, patrocinatori ed oggetti dell'Idolatria, in quanto tentavano gli uomini contro il precetto di onorare Dio, come giornalmente li tentano intorno agli altri doveri.

Nella storia delle stravaganze dello spirito umano mancava chi facesse il panegirico dell'Idolatria. L'Autore ha occupato il posto voto: ma il suo elogio non può piacere se non a coloro, le cui idee e le cui brame terminano ne' sensi. La superstizione compariva sempre sotto l'apparenza del piacere e spesso della virtù, e sappiamo qual piacere ella menasse in trionfo. Virtù e voluttà formano un'idea complessa di nuova invenzione.

Era un dovere penoso pei Cristiani il conservarsi puri in mezzo a tanta corruzione. Come stettero saldi? E come fecero uscire i Gentili dal lezzo, in cui si giacevano? Secondo il corso della natura i Gentili dovevano sovvertire i Cristiani, anzichè i Cristiani convertire i Gentili. Ma noi siamo tornati insensibilmente al titolo dell'Articolo, e l'Autore non vuole che se ne parli.

Seconda Conclusione che dee provare l'Autore. La dottrina d'una vita futura, accompagnata dall'opinione dell'imminente fine del mondo, e del beato regno de' mille anni fu una delle cagioni naturali dello stabilimento o de' progressi del Cristianesimo

Ristretto. Gli antichi filosofi inculcavano questa semplice verità, che nulla attender si dee dopo la morte: ma pochi saggi della Grecia e di Roma seguendo la guida dell'immaginazione e della vanità insegnavano essere l'anima immortale. Una dottrina tanto superiore ai sensi, se occupava piacevolmente l'ozio de' solitari, perdeva ogni efficacia nel commercio e nei negozi della vita civile; giacchè la filosofia non potè co' più alti sforzi che indicar debolmente il desiderio, la speranza, o al più la probabilità d'una vita futura, il darne la certezza apparteneva alla Rivelazione. La mitologia Pagana non poteva giovare, perchè già se n'era cominciato a scuotere il giogo. Questa dottrina dell'immortalità però si stabilì più prosperamente nell'Indie, nella Siria, nell'Egitto, nella Gallia per l'ambizione de' Sacerdoti. Nella legge Mosaica, dove si dovrebbe trovare, non se ne fa menzione: i Giudei fino ad Esdra si limitarono al presente. Indi a non molto i Sadducei la rigettarono attaccati al senso letterale della Scrittura, e l'ammisero i Farisei con altri dommi tratti dalla filosofia Orientale, il cui partito finalmente prevalse. Ma non divenendo essa per ciò più probabile, era necessario che ricevesse da Gesù Cristo la sanzione di verità divina. Allorchè fu offerta agli uomini la promessa d'una felicità eterna, non è maraviglia che venisse accettata da gran numero di persone d'ogni religione, d'ogni condizione, d'ogni Provincia.

L'opinione della prossima fine del mondo, fondata sulle parole di Gesù Cristo e degli Apostoli, che dopo il corso di 17 secoli non si è avverata, produceva i più salutari effetti sopra i Cristiani, e contro gl'Increduli si annunciavano le più orribili calamità.

Si credeva inoltre, che Gesù Cristo avrebbe regnato in terra mille anni innanzi la risurrezione generale. Questo sistema adattato ai desiderj ed alle apprensioni degli uomini dovè molto contribuire a' progressi del Cristianesimo. Quando poi non se n'ebbe più bisogno, fu condannato come invenzione dell'eresia.

La condanna de' più saggi e de' più virtuosi Pagani offende l'umanità e la ragione del presente secolo: ma nella primitiva Chiesa si condannava al supplicio eterno la massima parte della specie umana. Sentimenti così rigidi sparsero di amarezza un sistema di amore: i Fedeli insultavano i Politeisti, e questi subitamente atterriti senza poter essere sovvenuti da' Sacerdoti o da' Filosofi loro, restavano soggiogati; e se una volta inducevansi a sospettare, che potesse la religion Cristiana esser vera, diveniva facile il convincerli, che il partito più prudente era quello di abbracciarla (p. 139).

Risposta. Prosegue l'Autore colla stessa copia d'idee estranee, e colla stessa scarsezza di ragionamenti adattati al bisogno. Noi dobbiamo investigare, come naturalmente giovasse all'avanzamento della Religione la dottrina dell'immortalità, l'aspettazione dell'imminente fine del mondo, l'opinione del beato regno di mille anni.

Circa la prima parte egli dopo di averci esposti i sentimenti delle antiche nazioni e gli sforzi della filosofia, termina con queste parole. Allorchè fu offerta agli uomini la promessa d'una felicità eterna, non è maraviglia che venisse accettata da un gran numero di persone d'ogni religione ec. Eccoci adunque nello stesso caso di prima: questo è un replicare con giro diverso di termini, che la dottrina dell'immortalità fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo; che era quello che si dovea provare.

Non è maraviglia, che venisse accettata da gran numero di persone. Cesserà la maraviglia o pel vantaggio derivante dalla stessa dottrina, o per la qualità di coloro, che predicarono, o per la disposizione, nella quale trovavansi quelli a cui fu predicata.

Non può l'Autore attenersi alla prima parte, avendo supposto, che la dottrina dell'immortalità, se allettava l'ozio dei solitari, perdeva ogni efficacia nel commercio e ne' negozj della vita civile. Ma ponendo da parte i pensamenti di lui, la incoerenza de' quali non reca alcun giovamento alla causa della verità, la dottrina della vita avvenire, quale si stabilisce nel Cristianesimo, ha un aspetto seducente ed un altro ributtante. Non possono non allettare gl'ineffabili beni di una beata eternità promessi a chi soffre coraggiosamente i travagli d'una brevissima vita. Ma non possono non ributtare gl'inesplicabili tormenti aggravati dall'immenso peso dell'eternità sopra un miserabile, che abbia avuta la disgrazia di atterrare il cumulo di tutti i suoi meriti con un solo peccato di desiderio. Ed il dogma della Predestinazione, che si riferisce a questo gran termine, eccita, più che speranza, terrore ed abbattimento di spirito. Se non che questo stesso terrore, questo abbattimento di spirito può servir di motivo a seriamente pensare ad un negozio di tanta importanza. Ma egli è indubitato, che una dottrina, sia per l'amor proprio interessante quanto si voglia, non acquisterà mai alcun grado di efficacia, se non quando si presenterà alla mente dotata della necessaria certezza. Le promesse e le minacce senza prova son nulla.

 

I Predicatori Evangelici, attesi i loro caratteri esterni, non avevano l'autorità de' filosofi. Oltre ciò i nostri non prendevano a convincere con ragioni filosofiche. Eglino proponevano l'immortalità come un articolo che si doveva credere, non come il prodotto d'una dimostrazione. Su qual fondamento potevasi prestar fede alle loro dichiarazioni? O dovevano essere dispregiati, o gli animi dovevano restar penetrati dall'evidenza delle prove generali della Rivelazione. Ma in tal guisa la verità del Cristianesimo, già riconosciuta, faceva ricevere unitamente agli altri dommi quello dell'immortalità, quando ci doveva provare, che la dottrina dell'immortalità era la cagione, che faceva abbracciare il Cristianesimo.

Qual era la disposizione degli Ebrei? A tempo di Gesù Cristo la dottrina della vita avvenire costituiva un articolo essenziale della loro credenza; onde il Cristianesimo non offeriva loro alcun nuovo vantaggio, e ritrovava un ostacolo naturalmente impossibile a superarsi. Nel Cristianesimo la vita eterna era promessa soltanto a chi credeva in Gesù Nazareno; nel Giudaismo a chi osservava senza mescolanza di altri culti le istituzioni Mosaiche.

Circa la credenza de' Pagani l'Autore non sa determinarsi; nè noi ci gioveremo della sua perplessità. O essi profetavano questa dottrina, o non la professavano. Nella prima supposizione non vi è ragione sufficiente, per cui il Pagano dovesse abbandonare la Religione della patria, che insegnava lo stesso sistema. Nella seconda bisogna rinunciare al senso comune per non vedere, che una novità di tal natura, in luogo di agevolare le conversioni, ne accresceva la difficoltà. Voi Cristiani, doveva dire il Politeista, mi promettete un paradiso, se io abbraccierò l'Evangelio; e mi minacciate un inferno, so resterò nella Religione, nella quale son nato. I grand'uomini della Grecia e di Roma hanno altamente derisa questa dottrina; lo stesso popolo di presente la considera come una chimera; nel Senato e nei Teatri di Roma si annuncia pubblicamente e senza velo, che tutto finisce colla morte: sopra quali prove voi vi fondate? Non è questa la disposizione naturale, in cui le istanze de' Cristiani metter dovevano i Gentili?

Lo opinioni del prossimo fine del mondo e del terreno regno di Cristo sono soggette alle stesse difficoltà. Esse non potevano prendere neppure aspetto di probabilità, se prima gl'Infedeli non rimanevano convinti dalle verità della Rivelazione Cristiana. E la prima era inoltre in se tant'odiosa, tanto sensibilmente feriva la sensibilità de' Romani per la gloria e per la perpetuità dell'Impero, che fu una delle cagioni che nel fuoco delle persecuzioni gli stimolava ad incrudelire contro persone, le quali lor pareva, che bramassero l'estinzione di tutto il genero umano. Ma è tempo di passare alle digressioni.

Chiunque abbia una leggiera tintura della storia della filosofia, sa che tra' Greci l'immortalità dell'anima dal solo Epicuro fu rigettata.

I Romani sino a Catone universalmente la credettero. Dappoichè penetrò in Roma la filosofia di Epicuro, lo spirito di Scetticismo infettò alcuni di que' letterati; ma il popolo rimase costante nell'antica credenza, ch'era conforme a quella degl'Indiani, degli Assirj, degli Egizj, de' Galli, i Sacerdoti de' quali non avevano alcuna preeminenza sopra quelli de' Romani. Anzi allora fu, che all'Epicureismo sottentrò il nuovo Platonismo confederato colla filosofia Orientale, quando il Cristianesimo cominciava a predicare la vita avvenire; allora i filosofi, alzarono altare contro altare; e tutto fu inutile.

Se l'Autore ha lette le dimostrazioni addotte da' moderni filosofi in favore dell'immortalità, doveva accennare i difetti per convincersi, che la filosofia co' più alti suoi sforzi non può indicarne se non che debolmente il desiderio e la speranza o al più la probabilità. Vero è che queste dimostrazioni, che non si assomigliano punto alle sue, non possono solleticare il suo gusto.

Ne' libri di Mosè si fa molte volte non oscura menzione di questa dottrina: confessiamo però, ch'ella non è contenuta nell'economia dell'antica legge, ristretta dentro la sfera del temporale, sicchè se non vi si trova, non vi si dee trovare. L'Autore Inglese della divina legislazione di Mosè, che il Sig. Gibbon poteva consultare, parla molto acconciamente di questo argomento.

I Sadducei la negarono, perchè quantunque ella si trovi ne' libri di Mosè, e più chiaramente ne' seguenti Scrittori, quelli si compiacquero di profanar la Scrittura colla Filosofia di Epicuro. Per la stessa ragione l'ammisero i Farisei, non per l'autorità della filosofia Orientale; se l'Autore non voglia distruggere quanto ha sostenuto sull'inflessibile ostinazione de' Giudei nel ricusar di unire alcuna istituzione con quelle di Mosè.

Del resto egli riconosce questo dogma dettato dalla natura, benchè prima l'avesse creduto inspirato a pochi filosofi dalla vanità: lo confessa approvato dalla ragione a dispetto della filosofia, che co' più alti suoi sforzi non potè dimostrarlo: gli piace, che l'avesse adottato la superstizione, dopo d'aver dichiarato la Mitologia insufficiente a farlo ricevere; che i più savj Politeisti ne avevano scossa l'autorità; e che i voti del popolo Pagano diretti a Giove e ad Apollo risguardavano il solo presente. Finalmente gli Ebrei lo credevano come rivelato; ma perchè ciò nulla vi aggiungeva di probabilità, fu necessario, che lo rivelasse Gesù Cristo. Il Sig. Gibbon ha bisogno della sagacità d'un interprete più che santo.

La distruzione prossima del mondo, la comparsa dell'Anticristo, e la venuta di Cristo giudice è una predizione contenuta formalmente nell'Evangelio e nell'Epistole di S. Paolo, di S. Pietro, di S. Giovanni: ella pel corso di 17 secoli non si è avverata: dunque questi libri non furono divinamente inspirati. Ecco l'obbiezione, ed ecco la risposta, che si raccoglie dalla bell'Opera del Sig. Hammond Scrittore Inglese più antico del nostro. Convien distinguere due venute di Gesù Cristo, l'una a punire i Giudei, e l'altra a giudicare tutto il genere umano. Quella nella Scrittura si predice imminente, ma questa si dà per incerta. Applicate i passi in quistione alla comparsa dei primi Eresiarchi denominati Anticristi da S. Giovanni, ed alla distruzione di Gerusalemme sotto Vespasiano, e troverete adempita la predizione nel tempo da' sacri Autori designato.

Se il Sig. Gibbon avesse rammentato, che Origene fiorì molto prima di Lattanzio, ed ebbe gran numero di seguaci, non avrebbe detto, che da S. Giustino Martire fino a Lattanzio tutti i Padri riguardavano la dottrina del Millennio come una verità creduta da tutta la Chiesa. Origene sostenuto dal maggior numero distrusse sì fattamente l'errore, che avendo il Vescovo Nipote (molto prima di Lattanzio) tentato di ristabilirlo, non trovò, dice il Mosemio, se non pochi fanatici nelle campagne e ne' borghi dell'Egitto, che gli prestassero orecchio. Per altro diversamente ideavano questo regno i pochi Ortodossi, che avevano adottata tale chimera, e diversamente gli Eretici: finchè scopertasi l'origine nelle favole Giudaiche ed in Corinto, la Chiesa giustamente lo proscrisse. E siccome abbiamo dimostrato, che la riferita opinione nulla per se poteva influire ne' progressi del Cristianesimo, riesce insipido il sentirci dire, che quando l'edifizio della Chiesa fu quasi al termine, si tolse di mezzo il sostegno, che aveva servito un tempo per comodo della fabbrica.

La riprovazione de' pretesi saggi e virtuosi Pagani ben intesa non offende nè l'umanità, nè la ragione del nostro secolo, ma come si debba intendere secondo la fede cattolica, nè noi possiamo brevemente spiegarlo, nè ai semplici nuoce il non saperlo. Giova l'udire, che questi sentimenti spargevano di amarezza un sistema d'amore; poichè tanto più ci maravigliamo, come l'Autore abbia riposta in questa dottrina la sua seconda cagion de' progressi del Cristianesimo, quanto più candidamente egli ne accenna gli effetti contrari.

Terza Conclusione che dee provare l'Autore. Il dono de' miracoli falsamente attribuito alla Chiesa primitiva fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e dei progressi del Cristianesimo

Ristretto. I doni soprannaturali, che dicesi avere ricevuti i primi Cristiani, dovevano contribuire a convincere gl'Infedeli. Oltre i prodigi accidentali, la Chiesa si è arrogata sin dagli Apostoli una successione non interrotta di facoltà miracolose, come il dono delle lingue, le visioni e le profezie, il potere di scacciare i demonj, di sanar gli ammalati e di resuscitare i morti. Ireneo, che attribuisce il dono delle lingue ai suoi contemporanei, dice di se stesso, che predicando l'Evangelio nelle Gallie, doveva contrastare colle difficoltà di un dialetto barbaro. E se i Cristiani d'allora richiamavano a vita gli estinti, come ne fa testimonianza Ireneo, lo Scetticismo di que' tempi non si potrebbe spiegare. Teofilo ricusò di dar questa prova ad un Pagano che si sarebbe convertito. Del resto in ogni secolo si osserva una succession di miracoli; e verremmo a contraddirci, se negassimo nell'ottavo e nel decimo secolo al venerabile Beda e a S. Bernardo quella fede, che abbiamo con tanta generosità accordata nel secondo a Giustino e ad Ireneo. L'utilità poi de' miracoli è sempre la stessa: ogni secolo ha avuto degl'increduli da combattere, degli Eretici da convincere, degl'Infedeli da convertire. Frattanto confessando ogni uomo ragionevole esser già tal potere cassato, dovè togliersi alla Chiesa in un'epoca che noi non sappiamo terminare. Di presente regna un segreto Scetticismo: assuefatti da gran tempo ad osservare ed a rispettare l'ordine invariabile della natura, non siamo sufficientemente preparati a sostenere l'azione visibile della Divinità. Diversa era la situazion degli uomini al nascere del Cristianesimo. I più curiosi ed i più creduli fra' Pagani s'inducevano spesse volte ad entrare in una società, che si attribuiva un attual diritto alla potestà di far miracoli. I primitivi Cristiani battevan continuamente una strada mistica: i prodigi, ch'eglino si figuravano di operare, li disponevano a ricevere colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio ed i misteri, che per loro confessione sorpassavano le forze del loro intelletto. Quest'intimo convincimento fu celebrato sotto nome di fede, e raccomandato come il principale e forse l'unico merito del Cristiano, poichè secondo i più rigidi Dottori le virtù morali, che possono praticarsi egualmente dagl'Infedeli, son prive d'ogni valore o efficacia per operare la nostra giustificazione (p. 147).

Risposta. Che il dono de' miracoli dalla primitiva Chiesa vantato ne agevolasse naturalmente i progressi, l'Autore neppure ha tentato di provarlo: ci avverte a principio, che ciò doveva contribuire a convincere gl'Infedeli: in tutto il restante perde di vista la conclusione; e finalmente termina con asserire, che i Gentili entravano per curiosità o per credulità nella Chiesa che vantava il poter de' miracoli.

Tanta parsimonia qui non è fuor di ragione. Imperciocchè impegnatosi egli a provare, ch'erano illusioni o imposture i miracoli, che all'antica Chiesa si attribuiscono, il mettersi poscia a seriamente provare, che l'imposture e l'illusioni contribuivano a convincere gl'Infedeli, sarebbe stato lo stesso che contraddirsi.

Quindi dobbiamo prendere in ischerzo, che i Gentili rinunciassero alla propria Religione, ed entrassero nella Chiesa perseguitata dal Principe per pura curiosità. Questo sarebbe un nuovo principio morale di mutar il cuore, e dal libertinaggio farlo passare all'estremo di una vita pura ed austera.

 

Vi potevano entrare per credulità. In quel tempo i Romani erano troppo illuminati, e a udire l'Autore avevano già scossa l'autorità della Mitologia, che spacciava tante maraviglie. Or poi entrati per soverchia semplicità nella Chiesa, come potevano rimanervi, trovando la loro aspettazione delusa? Se miracoli non se ne operavano, i Proseliti non potevano trovarvene. Chi gl'incantava? Come concepivano un tenacissimo attaccamento a questa madre? Per quale speranza si lasciavano barbaramente tormentare e toglier la vita? Subodorata appena l'impostura o l'illusione, non dovevano abbandonare con isdegno una società infame? Non dovevano alzar la voce, ed avvertire i parenti, gli amici, i magistrati, il pubblico, che si guardassero dalle frodi Cristiane?

Sarebbe puerilità il voler più insistere sopra un assurdo così palpabile: rivolgiamoci piuttosto all'oggetto, al quale tendono veramente gli sforzi dell'avversario. Egli non vuol miracoli di veruna sorta, nè in verun tempo: egli investe quelli de' primi secoli, quelli degli Apostoli e di Gesù Cristo, ed in generale ogni evento che non sia nell'ordine della natura. Questa è la vera meta delle sue ricerche, ed a questo noi ora volgeremo le nostre difese.

Avanti però d'innoltrarsi, convien premettere due osservazioni. Ecco la prima. Non si dee contendere, se la primitiva Chiesa vantasse un potere di far miracoli permanente, e da esercitarlo a sua disposizione. Mai non si è così creduto nel Cristianesimo: mai non si è avuta l'arroganza di pretendere, che Iddio assoggettata avesse la sua onnipotenza all'arbitrio degli uomini. Quante difficoltà non farebbe nascere un tale sistema? A chi Iddio confidò questo potere? Ad ogni Fedele in particolare? O all'unione di tutti? O pure a' Vescovi presi ad uno ad uno, ovvero al Sacerdozio in corpo? E qual condotta conveniva tenere nelle occorrenti emergenze? Quelli d'una Provincia erano padroni di fare il miracolo, o dovevano implorare il consenso ed il soccorso di tutte le Chiese? Essendo somigliante disegno impossibile ad eseguirsi, si è sempre insegnato, che Iddio secondo il suo puro beneplacito accordava i doni miracolosi ad alcuni d'eminente virtù e nelle circostanze che gli rendevano necessari, nella stessa guisa, che furono conceduti a Mosè e ad altri illustri personaggi dell'antico Testamento.

La seconda riflessione riguarda l'origine istorica della presente controversia. Fu ella posta in campo dal Dottor Middleton colle stesse difficoltà critiche, che il nostro Autore ha tolte di peso da lui. La novità dell'impresa sollevò contro il Middleton tutto il Mondo Cristiano, ed i suoi Avversari lo ridussero alla disperazione di cambiar lo stato della questione, per ritirarsi con onore. Dichiarò egli di non aver tolti a combattere i miracoli passeggieri ne' primi secoli accaduti, ma solo il poter permanente, di che si credeva rivestita la Chiesa: cosa, ripiglia il Mosemio, da niuno sostenuta, e che per conseguenza non meritava la pena di confutarsi con un grosso volume. Il Sig. Gibbon cita questo grosso volume, cita l'opposizioni che incontrò, cita l'Apologia ch'egli preparò; ma non dichiara il fine ch'ebbe la disputa, e par che ignori, che la di lui piuttosto ritrattazione che apologia fu data alla luce un anno dopo la morte del medesimo.

Fu rimproverato al Middleton che le difficoltà da lui fatte contro i miracoli dei primi secoli si stendevano naturalmente a quelli degli Apostoli e di Gesù Cristo. In fatti egli oppose ai primi il Pirronismo dei letterati contemporanei, la credulità del popolo ed alcune leggerissime riflessioni di critica sopra i monumenti degli antichi Scrittori, e gli fu fatto vedere, che le stesse leggerissime riflessioni di critica possono applicarsi agli Evangeli, e che si rinviene la stessa credulità del popolo Ebreo, e lo stesso Pirronismo negli Scribi e ne' Farisei. Il Middleton, persuaso della verità de' miracoli depositati ne' libri canonici, non volendo riconoscere la fatale conseguenza de' suoi principj, amò meglio di mutar la questione. Col nostro Autore è superfluo l'affannarsi a mettergli in vista la stessa conseguenza, come quegli, che lungi dall'averla in orrore, se la fa propria, e temendo che il suo lettore non sia capace di scuoprirla da se, ve lo conduce per mano, e si leva del tutto la maschera verso il fine del capo.

Ora noi qui non prenderemo direttamente a difendere i miracoli di Gesù Cristo, giacchè egli non gli ha direttamente assaliti; faremo l'apologia de' prodigi de' primi secoli nella già divisata maniera ch'ei gli ha attaccati, e la certezza di questi terrà al coperto la certezza di quelli.

E prima di sciogliere le sue difficoltà, ci sia permesso di ragionare alquanto sul fatto e diciamo, che se i Gentili venivano in folla alla fede, questa è una prova evidente della verità de' miracoli, che si dicevano accaduti. E vaglia il vero o bisogna supporli tutti stupidi e privi di ogni amore per la Religione della patria, o confessare, che la conversione loro era il risultato di veri miracoli. Imperciocchè i Cristiani lungi dal cercare la solitudine e le tenebre operavano in pubblico; e ciò apparisce da quella specie di disfide, che s'incontrano ad ogni passo aprendo i libri degli Scrittori dei primi secoli. Dall'altra parte i vantati prodigi erano di tal natura, che anche i più rozzi contadini potevano formarne giudizio. Il parlare diverse lingue, il liberare gli ossessi, il richiamare a vita gli estinti, ricercano recondite cognizioni di fisica o sublimi sforzi d'ingegno a deciderne? Dunque supponendo i Gentili forniti del senso comune, e freddamente interessati per la propria Religione, se nelle operazioni Cristiane non vi era un fondo di verità, se ne dovevano accorgere; onde se si convertirono contro l'interesse delle proprie passioni, il fatto stesso fa una invittissima prova in favore di essi miracoli.

Inoltre abbiamo detto, che se nella Chiesa non si facevano veri miracoli, i Proseliti, che vi erano entrati per credulità, dovevano o presto o tardi disingannarsi, ed uscirne. A che dobbiamo attribuire la loro perseveranza per fino in faccia de' tormenti e della morte? Non si trattava d'una famiglia, di una città, di una Provincia. Dovunque erano sparsi i Cristiani, vantavano le stesse maraviglie. Apostati ve n'ebbe in ogni tempo, in ogni tempo gli Eretici esclusi dal seno della Chiesa erano pronti a calunniarla; e la perpetua cura de' filosofi era di porre in discredito i seguaci dell'Evangelio. Credibile che per niuna di queste vie siasi potuta mai giuridicamente provare una frode, una collusione? Noi avremmo voluto che l'Autore, in vece di esercitarsi nella gramatica, avesse trattato da filosofo questo argomento. Ma ascoltiamo quanto gli è piaciuto di ripetere dietro la scorta di un Dottore sconfitto.

Come si può spiegare lo Scetticismo de' letterati Pagani intorno all'immortalità dell'anima ed intorno la rivelazione in generale? Si spiega ottimamente con accordarvi di buon grado, che questi guardavano gli affari Cristiani con quell'indifferenza, e con quel dispregio, con cui credete di mortificarci in tanti passi dell'Opera vostra. Persone, che non credono, perchè non si sono informate, perchè non hanno fatto esame veruno, qual peso di autorità possono avere? Oltre che è legge forse di Psicologia, che la volontà si determini invincibilmente secondo la verità che scuopre l'intendimento? Perchè peccano tanti Cristiani persuasi fermamente dell'esistenza dell'inferno? Non si debbono avere in conto alcuno i pregiudizi, la superbia, i legami civili che stringono più che ogni altro le persone di merito distinte? E di questi stessi personaggi non ne vantò in gran copia la primitiva Chiesa?