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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12

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In questa grande vicissitudine politica, abbiamo il vantaggio di poter confrontare fra loro le relazioni di Villehardouin e di Niceta, i giudizj opposti che il Maresciallo di Sciampagna e il Senatore di Bisanzo portavano97. Parrebbe a primo aspetto che le ricchezze di Costantinopoli non avessero fatto altro cambiamento fuor quello di passare da una nazione ad un'altra, e che il danno e il cordoglio de' Greci dal vantaggio e dalla gioia de' Latini stati fossero pareggiati; ma nel funesto giuoco della guerra non è mai eguale alla perdita il guadagno, e a petto delle calamità sono deboli i godimenti. Illusorio e passeggiero fu il giubilo de' Latini. Intanto che i Greci deplorando l'irreparabile scempio della loro patria, vedeano rincalzati i loro affanni dallo scherno e dal sacrilegio de' vincitori. Ma di qual profitto furono a questi i tre incendj che una sì gran parte de' tesori e degli edifizj di Bisanzo distrussero? Qual vantaggio ebbero dalle cose che infransero, o fecero tronche perchè non le potevano trasportare? Che fruttò ad essi l'oro nel giuoco e nelle crapule prodigalizzato? Quante preziose suppellettili i soldati vendettero a vile prezzo per non conoscerne il valore, o perchè impazienti di spacciarsene; talchè sovente il più abbietto mariuolo greco tolse ad essi il prezzo della vittoria! Fra i Greci di fatto sol quella classe di gente che non potea perdere nulla, vantaggiò alcun poco nella pubblica calamità. Tutti gli altri a deplorabilissimo stato furon ridotti. Le sventure di Niceta ce ne porgono un saggio. Incenerito, per effetto del secondo incendio, il magnifico palagio ove dianzi dimorava, questo misero Senatore, seguìto dalla famiglia e dagli amici, si riparò ad una picciola casa che in vicinanza alla chiesa di S. Sofia tuttora rimanevagli. Fu alla porta di questa casa, ove il mercatante veneziano, vestito da soldato, diede a Niceta il modo di salvare con una precipitosa fuga la castità della figlia, e i miseri avanzi de' posseduti tesori. Questi sciagurati fuggitivi già avvezzi a nuotare nella abbondanza, partirono a piedi nel cuore del verno. La moglie di Niceta era incinta; pur furono costretti, essendone disertati gli schiavi, ella e il marito a portar sugli omeri le proprie bagaglie. Le donne di questa famiglia poste in mezzo alla comitiva, venivano esortate a nascondere la propria avvenenza, col bruttar di fango il volto, che dianzi erano use ad imbellettarsi; perchè ciascun passo le avventurava ad insulti e pericoli; ma le minacce degli stranieri, lor pareano anche meno insopportabili dell'insolenza de' plebei, che divenuti eguali ad essi si riguardavano. Finalmente respirarono con più sicurezza a Selimbria, città lontana quaranta miglia da Costantinopoli, e che fu termine di quel doloroso pellegrinaggio. Cammin facendo, incontrarono il Patriarca, solo, mezzo ignudo, a cavallo ad un asino, e ridotto a quell'appostolica indigenza, che se fosse stata volontaria, avrebbe potuto non andar priva di merito. In questo medesimo tempo i Latini, trascinati da licenza e spirito di fazione, spogliavano e profanavano le sue chiese, e strappate dai calici le perle e le gemme che li fregiavano, ad uso di nappi convivali sen valsero. Giocavano e gavazzavano, seduti a quelle tavole, ove effigiato vedeasi Cristo co' suoi appostoli: calpestavano co' piedi i più venerabili arredi del culto cristiano. Nella chiesa di S. Sofia, i soldati fecero in brani il velo del Santuario, per torgli la frangia d'oro; buttarono in pezzi, e se lo spartirono, l'altar maggiore monumento dell'arte e della ricchezza de' Greci; stavano in mezzo alle chiese i muli e i cavalli per caricare sovr'essi i fregi d'oro e d'argento che staccavano dalle porte e dalla cattedra del Patriarca; e quando questi animali si curvavano sotto il peso, gl'impazienti conduttori ne li punivano coi lor pugnali, e di quel sangue rosseggiava il pavimento del tempio. Una meretrice andò ad assidersi sullo scanno del Patriarca, e questa figlia di Belial, dice lo Storico, cantò e ballò nella chiesa per porre in derisione gl'inni e le processioni degli Orientali: l'avidità condusse indi costoro nella chiesa degli Appostoli, ove stavano le tombe de' Sovrani; al qual proposito si vuol far credere, che il corpo di Giustiniano, sepolto dopo sei secoli, venne trovato intatto e senza dare alcun segno di putrefazione. I Francesi e i Fiamminghi correvano le strade della città, avvolti i capi in cuffie di veli ondeggianti, e vestiti di abiti sacerdotali variamente dipinti, e de' quali persin bardamentavano i proprj cavalli: la selvaggia intemperanza delle loro orgie98, insultava la fastosa sobrietà degli Orientali, e per deridere le armi più adatte ad un popolo di scribacchini e studenti, si trastullavano con penne, calamai, carta alla mano; nè s'accorgevano certo che gli strumenti della Scienza, adoperati dai moderni Greci, divenivano per essi deboli ed inutili quanto quelli del valore lo erano stati.

Nondimeno l'idioma che parlavano i Greci e l'antica rinomanza, sembravano attribuir loro un qualche diritto di schernire l'ignoranza dei Latini e i deboli progressi del loro ingegno99, e quanto ad amore e rispetto per le Belle Arti, la diversità fra le due nazioni più manifesta ancor si mostrava. I Greci serbavano tuttavia con venerazione i monumenti de' loro antenati che imitar non sapevano; nè noi possiamo starci dal partecipare al dolore e all'ira di Niceta, a quella parte di racconto ove narra la distruzione delle statue di Costantinopoli100. Abbiam già veduto nel corso della presente opera come il dispotismo e l'orgoglio di Costantino, avessero incessantemente contribuito ad abbellire la sua nascente Metropoli. E Dei ed Eroi sopravvissuti alla rovina del Paganesimo, e molti resti di un secolo più fiorente, ornavano ancora il Foro e l'Ippodromo. Dalla descrizione pomposa e ricercatissima, che di parecchi fra questi monumenti ne ha lasciata Niceta101, sonomi studiato di ritrarre il seguente specchio delle cose più meritevoli d'intertenere una erudita curiosità. I. Le immagini de' condottieri dei carri, che aveano riportato il premio, venivano, a spese loro, o del pubblico, scolpite in bronzo, e nell'Ippodromo collocate. Vedeansi questi in piedi sul loro carro nella postura di correre ancora alla lizza; e gli spettatori, ammirandone l'attegiamento, poteano giudicare della somiglianza fra le statue e gli originali. Le più preziose fra queste immagini erano state, giusta ogni apparenza, trasportate dallo stadio olimpico. II. La sfinge, il cavallo marino, e il coccodrillo, si annunziavano, per sè medesimi, lavori egiziani e prede fatte in Egitto. III. La lupa che allattò Romolo e Remo, soggetto egualmente piacevole ai Romani antichi e moderni, non potea però essere stato trattato, prima del declinare della greca scoltura. IV. Un'aquila che tenea fra gli artigli e straziava un serpente, monumento particolare alla città di Bisanzo, veniva dai Greci attribuito alla potenza magica del filosofo Apollonio, che, giusta la lor tradizione, adoperò questo talismano per liberare da velenosi rettili la città. V. Un asino e il suo conduttore, monumento posto da Augusto nella sua colonia di Nicopoli, rammemorava il presagio che aveva annunziata la vittoria di Azio al dominatore del Mondo. VI. Una statua equestre rappresentava giusta la credenza del popolo, il capitano degli Ebrei, Giosuè, nel momento di stendere il braccio per fermare il corso del sole; ma una più classica tradizione soccorreva a scorgere in questo gruppo, Bellerofonte e il caval Pegaseo: e di fatto il libero atteggiamento del corridore, lo mostrava più inclinato a spingersi nell'aere, che a camminare per terra. VII. Un obelisco di forma quadrata, colle sue superficie scolpite in rilievo, offeriva una varietà di scene pittoresche e campestri; augelli che cantavano; villani intenti alle rustiche loro fatiche, o in atto di sonare la cornamusa; pecore che belavano, saltellanti agnelli, il mare, un paese, una pesca, e moltitudine di pesci diversi; amorini ignudi che ridevano, folleggiavano, e gettavansi l'un l'altro le pome; sulla cima dell'obelisco una immagine di donna, che il menomo fiato di vento facea volgere, nominata perciò la Seguace del Vento. VII. Il pastore di Frigia presentava a Venere il premio della beltà, ossia la poma della discordia. IX. Veniva indi l'incomparabile statua di Elena. Niceta descrive col tuono della ammirazione e dell'amore, il piè di lei delicato, le braccia d'alabastro, il labbro di rosa, l'incantatore sorriso, il languore degli occhi, la bellezza delle arcate sopracciglia, la perfetta armonia delle forme, la leggerezza del panneggiamento, la capigliatura che ondeggiar sembrava a grado de' venti. Tanti pregi di avvenenza congiunti insieme, avrebbero dovuto destar pietà o rimorso nel cuore de' Barbari che la distrussero. X. La figura virile, o piuttosto divina di Ercole102, animata dalla dotta mano di Lisippo, avea sì sterminata dimensione, che il pollice era grosso, la gamba alta, quanto è grosso ed alto un uomo di ordinaria statura103. Larghissimi ne erano il petto e le spalle, nerborute le membra, increspati i capelli, imperioso l'aspetto; non gli si vedea nè clava, nè arco, o turcasso, sol la pelle di lione gli ammantava negligentemente le spalle; egli era assiso; stavasi seduto colla gamba e col braccio destri, stesi quanto eran lunghi; il ginocchio sinistro piegato ne sosteneva il gomito, e la testa appoggiata alla mano sinistra: i suoi sguardi pensierosi annunziavano indignazione. XI. Vi si vedeva un'altra statua colossale di Giunone, antico monumento del Tempio samio di questa Dea; solo a trasportarne l'enorme testa sino al palagio, vi vollero quattro paia di buoi. XII. Eravi un terzo colosso di Pallade, o Minerva, alto trenta piedi, che con ammirabile energia, l'indole e gli attributi di questa vergine marziale esprimea. Ragion di giustizia vuole che qui non si tacia, essere stati i Greci medesimi, i quali dopo il primo assedio, mossi da timore e da superstizione, questo monumento distrussero104. I Crociati nella lor cupidigia, incapaci d'ogni gentil sentimento, infransero o fusero le altre statue che ho qui descritte, e il prezzo e il merito lor di lavoro in un momento disparvero. L'ingegno postovi dagli artisti svaporò in fumo, e la materia metallica, convertita in moneta, servì a pagare i soldati. I monumenti di bronzo non sono mai i più durevoli. Di fatto i Latini ben distolsero con stupido disprezzo i loro sguardi, dai marmi animati da Fidia e da Prassitele105; ma eccetto il caso di straordinarj avvenimenti, questi massi inutili alla barbarie sui lor piedestalli rimasero106. I più ingentiliti fra que' pellegrini, quelli che ai diletti affatto barbari de' lor compagni non parteciparono, fecero pietoso uso del diritto conquistato sulle reliquie de' Santi107; laonde cotesta guerra procurò alle chiese d'Europa, una immensità di teste, di ossa, di croci, e d'immagini, e pel numero de' pellegrinaggi ed offerte che queste reliquie produssero, divennero forse la parte più lucrosa dell'orientale bottino108. Molta parte d'antichi scritti, perduti ai dì nostri, eranvi ancora nel dodicesimo secolo; ma poca vaghezza aveano i Latini di conservare, o trasportar volumi in idioma straniero composti. La sola moltiplicità delle copie, può perpetuare carte o pergamene, che ogni eventualità la più lieve basta a distruggere. La letteratura de' Greci racchiudeasi quasi per intero entro i recinti della Capitale109; onde, comunque non conosciamo tutta l'estensione della nostra perdita, certamente non sarebbe fuor di ragioni per noi, il versar qualche lagrima sulle biblioteche, che i tre incendj di Bisanzo distrussero.

 

Il primo Concilio (V. p. 7) generale di Nicea, l'anno 325, adunato per ordine di Costantino, sostenendo contro i Vescovi Ariani, e contro tutti i loro numerosissimi seguaci la negata divinità di Gesù Cristo, e volendo esprimerla, e determinarla (dopo avere lungamente discussi e sostenuti i motivi di credibilità, contenuti sì nell'antica, che nella nuova Scrittura) col vocabolo consubstantialem da porsi in una solenne, e scritta professione di Fede, fu questa nel Concilio medesimo distesa alla presenza del potentissimo Imperator Costantino, avverso agli Ariani, per dover essere, siccome fu, ed è la regola di fede de' Cristiani di retta regione, vale a dire ortodossi, e che leggesi in Greco, e tradotta in Latino nella grande Collezione de' Concilj del Lebbe, T. 2, p. 31, edizione Veneta del Coletti: eccola.

Credimus in unum Deum patrem omnipotentem, omnium visibilium, et invisibilium factorem: et in unum dominum Jesum Christum filium Dei, ex patre natum unigenitum, idest ex substantia patris, Deum ex Deo, lumen de lumine, Deum verum ex Deo vero; natum non factum, consubstantialem patri, per quem omnia facta sunt, et quae in coelo, et quae in terra. Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit, et incarnatus est, et homo factus est; passus est, et resurrexit tertia die, et ascendit in coelos, et iterum venturus est judicare vivos, et mortuos: et in Spiritum Sanctum.

Circa quarant'anni dopo, cioè intorno all'anno 365, il greco vescovo Basilio (nel suo libro dello Spirito Santo scritto al vescovo Anfilochio) disse: Primum igitur, quis auditis spiritus appellationibus, animo non erigitur, et ad supremam naturam cogitationem non attulit? Nam spiritus Dei dictus est, et spiritus veritatis, qui ex patre procedit (Joan. cap. 15), spiritus rectus etc., (Ps. 50). E lo stesso Basilio, che così scrisse al cap. 9 del libro suddetto, ne intitola il cap. 19. Adversus eos qui dicunt non esse glorificandum; e sostiene, che lo Spirito Santo è da glorificarsi. E nell'anno 372, essendo Papa Damaso nel provinciale Concilio Romano II, trattandosi de explanatione fidei, fu scritto; nominato itaque patre et filio, intelligitur Spiritus Sanctus, de quo ipse filius in evangelio dicit «quia Spiritus Sanctus a patre procedit; et de meo accipiet, et annunciabit vobis» (Jo. 15) Collect. Conc. Labbe.

E nel Concilio provinciale d'Iconio, l'anno 379 (Labbe, ediz. Coletti t. 2, p. 1076-1080), Ansilochio vescovo appunto d'Iconio, ed amico dell'altro vescovo Basilio, disse e scrisse in una lettera sinodale, vale a dire fatta a nome del Concilio, ed approvata, che per malattia Basilio non era venuto al Concilio, e soggiunge: Neque vero sanctam nostram ecclesiam passi sumus etiam illius vocis carere, sed habentes Librum ipsius (De Spiritu Sancto), quem de hoc peculiariter argumento elaboravit, ipsum pariter nobiscum in scripto loquentem obtinemus; e venendo a professare il Credimus etc. di Nicea, e indi a sostenere i detti di Basilio intorno lo Spirito Santo, dice: Docuerunt enim (cioè i vescovi del Concilio di Nicea nell'anno 325), sicut credi debet in patrem, et filium, ita etiam credendum esse in Spiritum: Quaenam ergo est nostrae fidei perfectio? Domini traditio, quam postquam resurrexisset a mortuis mandavit sanctis suis discipulis praecipiens: euntes docete omnes gentes, baptizantes in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti; e da queste parole Ansilochio poscia deduce; sed et oportet in doxologiis Spiritum una cum Patre et Filio conglorificare.

 

Indi l'anno 381, s'adunò il Concilio generale II in Costantinopoli particolarmente contro i Vescovi, preti, e secolari Macedoniani (così detti da Macedonio loro Capo ed Arcivescovo di quella Città, allora sede degl'Imperatori, e del Senato) che negavano la divinità dello Spirito Santo. Volevano i Vescovi cattolici, che i Vescovi Macedoniani confermassero il Credimus ec. di Nicea, ma i Macedoniani, ch'erano anche semi-Ariani, dichiaravano fermamente, ch'essi non ammettevano la parola consubstantialem contenuta nel Credimus etc., di Nicea, e quindi venivano a negare la divinità di Gesù Cristo, e si ritirarono dal Concilio, e dalla Città. Questo Concilio di cento e cinquanta Vescovi, confermò il Credimus etc. di Nicea, e v'aggiunse molte altre espressioni per dilucidare e determinare quella credenza che dovevasi avere, siccome si può rilevare paragonando parola per parola il Credimus etc., di Nicea, col seguente scritto in questo Concilio di Costantinopoli.

Credimus in unum Deum patrem omnipotentem factorem coeli, et terrae, visibilium omnium, et invisibilium: Et in unum dominum Jesum Christum, filium Dei unigenitum, ex patre natum, ante omnia saecula, Deum ex Deo, lumen ex lumine, Deum verum ex Deo vero natum non factum homousion (parola greca che vuol dire consubstantialem) patri, hoc est ejusdem cum patre substantiae, per quem omnia facta sunt, qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de coelis, et incarnatus est ex Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est. Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus, ac sepultus, et tertia die resurrexit secundum scripturas, ascendit in coelus, sedet ad dexteram patris inde venturus est cum gloria judicare vivos, et mortuos; cujus regnum non erit finis. Credimus in Spiritum Sanctum dominum, et vivificantem ex patre procedentem, et cum Patre, et Filio adorandum, et conglorificandum qui locutus est per prophetas: et unam sanctam catholicam, et apostolicam ecclesiam. Confitemur unum baptisma in remissionem peccatorum; expectamus resurectionem mortuorum et vitam venturi saeculi. Amen.

Confermando il Credimus di Nicea e ripigliandolo, v'aggiunsero i Vescovi del Concilio alcune espressioni intorno l'incarnazione, ex Spiritu Sancto, ex Maria Virgine contro gli Apolinaristi; ed alcune altre, spiegando più ampiamente l'articolo dello Spirito Santo, dominum et vivificantem ex patre procedentem, et cum patre, et filio adorandum, et conglorificandum, qui locutus est per prophetas, contro i Macedoniani, e poi v'aggiunsero tutte l'altre cose fino al fine. Ed il Concilio poscia ordinò che nessuno poteva rifiutare il Credimus etc. di Nicea, e ch'egli rimaneva nella sua autorità, e che si diceva anatema a tutti gli errori specialmente degli Eunomiani, degli Ariani, dei Semi-Ariani, dei Sabelliani, dei Fotiniani, e degli Apolinaristi; trattò poi d'altre materie, e fece alcuni canoni di giurisdizione, e di disciplina.

Prima, o intorno all'epoca del Concilio suddetto di Costantinopoli, molti scrittori ecclesiastici, detti SS. Padri, che moltissimo influivano a determinare la credenza, così si espressero intorno lo Spirito Santo, indicando proceder egli dal Padre, e dal Figlio.

Tam vero cum Christus ex patre credatur Deus ex Deo, et Spiritus ex Christo, sive ab ambobus; ut Christus his verbis asserit; «qui a patre procedit, et hic de meo accipiet etc.» (Jo: c. 15. 16) Epifane in Ancor. n. 71.

Spiritus Sanctus, Spiritus veritatis est lumen tertium a Patre, et filio. Epifane Haeres. n. 74, e nello stesso libro: Porro Spiritus Sanctus ex ambobus: Spiritus e Spiritu; Deus enim est Spiritus.

Nam ut patri conjunctus est filius, et cum ex illo esse debeat non tamen posterius existit; sic etiam Spiritus Sanctus proximo haeret filio, qui sola cogitatione, secundum rationem principii, prius consideratur productione Spiritus. Greg. lib. I. con. Canom.

E Didimo, spiegando le parole di Cristo, disse. «Non enim loquetur a semetipso»: hoc est non sine me, et patris arbitrio, quia inseparabilis a mea et patris est voluntate, quia non ex se, sed ex Patre, et me est. Lib. 2, de S. Sancto.

E lo stesso altrove; neque alia substantia est Spiritus Sancti praeter id quod datur ei a Filio.

Cum ergo Spiritus Sanctus in nobis existens conformes nos efficiat Deo, procedat autem ex Patre, et Filio; perspicuum est divinae ipsum esse substantiae, substantialiter in ipsa, et ex ipsa procedentem; quemadmodum utique flatus ille, qui ex ore hominis excurrit. S. Cyrillo in Thesauro. lib. 34. E lo stesso: Si quidem est Dei, et Patris, et Filii ille, qui, substantialiter ex utroque, nimirum ex Patre per Filium, profluit Spiritus. Lib. I.

Da questi, e da altri passi più, o meno chiari di scrittori ecclesiastici, si dedusse in quel tempo, e si continuò sempre a sostenere, ed a credere specialmente da' teologi Latini, fra i quali il P. Petavio, che ne ricava il senso, (Dogmata theologica, lib. 7, c. 3) che lo Spirito Santo procede non solo dal Padre, come già era nel Credimus di Costantinopoli, ma anche dal figlio, cioè da Gesù Cristo, contro i teologi Greci, che quasi tutti sostennero sempre, e sostengono a torto, che lo Spirito Santo procede soltanto dal Padre, per mezzo del figlio: ecco la differenza che costituì, e costituisce principalmente lo scisma fra i Cristiani Greci, ed i Latini.

A' passi de' Greci scrittori favorevoli al dogma della prima e della seconda procedenza bisogna aggiugnere anche quelli dei Latini, fra' quali leggonsi: Spiritus quoque Sanctus cum procedit a patre, et filio, non separatur a patre, non separatur a filio. Così verso la fine del quarto secolo scrisse S. Ambrogio. Liber de Spir. San. c. 10.

Non possumus dicere quod Spiritus Sanctus et a filio non procedat, neque enim frustra idem Spiritus et Patris et filii Spiritus dicitur. S. August. de Trinitate.

Per altro v'erano alcuni S. Padri da eccettuarsi, per esempio Teodoreto. Avendo S. Cirillo Patriarca d'Alessandria detto anatema a Nestorio Patriarca di Costantinopoli, ed a tutti quelli che dicessero, aver Gesù Cristo usato dello Spirito Santo, come di una forza altrui, per far i miracoli, e non riconoscessero essergli quello proprio, Teodoreto affermollo, (Teod. in confut. Anath.) se s'intendeva procedere lo Spirito dal Padre; ma disse esser cosa empia, se s'intendesse avere lo Spirito Santo l'eccellenza sua dal Figlio, o pel Figlio. Cirillo che credeva appunto averla, dissimulò questa risposta, perchè bastavagli in quel momento lo stabilire contro Nestorio, non essere lo Spirito Santo avventizio al figlio, ma proprio (Petav. ibid).

Intorno all'anno 400, i Cristiani-Priscillianisti, così detti da Priscilliano Vescovo, e principal loro Capo, unito ai Vescovi, Instanzio e Salviano, sorsero e prosperarono in Ispagna. Professavano l'antichissimo dogma orientale dei due Principj, ossia delle due Divinità, una origine del bene, l'altra del male morale e fisico, dogma detto anche Manicheismo, ed inoltre sostenevano, come prima avevano fatto co' loro seguaci, Prasea, Nocto, Sabellio, Fotino, ec. che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano la medesima cosa e sostanza; senza alcuna distinzione reale di persone credevano, che Gesù Cristo fosse risuscitato in apparenza, ed avevano altri errori. Molti altri Vescovi di Spagna fra' quali Igino (che divenne poscia priscillianista), Idacio e Turibio si mossero fieramente contro di loro; ed il persecutore Idacio non si ristette che allor ch'ebbe, coll'autorità del tiranno Massimo, fatto mozzar il capo a Priscilliano, uomo per altro disinteressato, sobrio, umile, di bel naturale, ed eloquente; la sua morte, e la persecuzione sanguinaria de' suoi seguaci, fatta da' Cattolici, fecero, accesosi il fanatismo, quasi tutta la Gallizia priscillianista, provincia allora molto più estesa d'oggidì.

Furono condannati i Priscillianisti da alcun Concilio provinciale. Indi Turibio scrisse al Papa Leone I una lettera in cui condannava i Priscillianisti, e Leone poco dopo gli risponde con un'altra colla quale riassumendola, e confermandola, così si esprime: Leone Vescovo a Turibio Vescovo d'Astorga.

Capo I. «Perciò nel primo capitolo si dimostra quanto empiamente pensino (i Priscillianisti) intorno la Divina Trinità, asserendo essere il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo una medesima persona, nominando lo stesso Dio ora Padre, ora Figlio, ora Spirito Santo; e quindi altra cosa non sia colui che generò, altra chi è generato, altra colui che da ambedue procede; e dicono doversi intendere bensì la sola Unità con tre vocaboli, ma non in tre persone; il qual genere di bestemmia presero da Sabellio ec.» (Labbe, T. 4, p. 658 e Fleury, Hist. eccl. T. 6). Ricevuta, questa Lettera, si tennero tosto in Ispagna uno, o due Concilj provinciali; uno di 19 Vescovi, in cui si condannarono ancora i Priscillianisti, ed i Vescovi dichiararono, che lo Spirito Santo procede dal Padre ed anche dal Figlio, prendendo ciò dalla lettera di Leone, scritta a Turibio. Il P. Quesnel pensa che quei Vescovi abbiano ricevuta cotale credenza cioè filioque, da S. Agostino, ma ciò non sembra (Tillemont, Hist. t. 15, p. 455). Quei Vescovi non ordinarono per altro che si cantasse nelle chiese il Credimus etc. di Costantinopoli coll'aggiunta del filioque, la quale allora non vi si fece; soltanto era creduta, e s'insegnava al popolo. (Petavius, Dogm. theol. lib. 7).

Ma il Concilio generale di Calcedonia tenutovi l'anno 451, avendo confermato il Credimus etc. di Nicea e di Costantinopoli e le decisioni ancora del Concilio generale d'Efeso contro Nestorio, ed avendo approvato gli scritti del Papa Leone I contro Nestorio, e contro Eutiche, e condannate anche le opinioni teologiche di quest'ultimo decretò per mezzo de' suoi Presidenti: «il vero e santo Concilio tiene questa Fede e la segue; non vi si può nè aggiungere, nè togliere cosa alcuna» e letto questo decreto i Vescovi esclamavano: »così crediamo; così siamo battezzati; così battezziamo; così crediamo, così crediamo; si scriva che Santa Maria è Madre di Dio, e ciò s'aggiunga al simbolo, siano discacciati i Cristiani Nestoriani, che ciò non credono, anatema a chi pensa diversamente«. I consiglieri di Stato dissero, le vostre approvazioni ed acclamazioni saranno recate all'Imperatore (Tillemont, Histoire etc.).

Ma insorse ancora contrarietà, intorno alla Fede; si convenne di trattare per mezzo di Commissarj la definizione di essa; e questi furono ventidue Metropolitani, ossia Arcivescovi, che esaminate le cose che dovevansi proporre da credere, ne scrissero finalmente la definizione, che letta dall'Arcidiacono di Costantinopoli, così veniva a conchiudere:

«Secondo i SS. Padri, noi dichiariamo d'una voce, che si deve confessare un solo e stesso Gesù Cristo, nostro Signore, lo stesso perfetto nella Divinità e perfetto nella umanità, veramente Dio e veramente uomo; lo stesso composto d'un'anima ragionevole, e di un corpo consustanziale al Padre, secondo la Divinità, e consustanziale a noi, secondo l'umanità; in tutto simile a noi, eccettuato il peccato; generato dal Padre, avanti tutti i secoli, secondo la Divinità, e negli ultimi tempi nato dalla Vergine Maria, Madre di Dio, secondo l'umanità, per noi, e per nostra salute; un solo e stesso Gesù Cristo, figlio unico, Signore in due nature (contro i Cristiani Eutichiani), senza confusione, senza cangiamento, senza divisione, senza separazione, senza che l'unione tolga la differenza delle nature; al contrario la proprietà di ciascuna è conservata, e concorre in una sola persona, (contro i Cristiani Nestoriani) e in una sola ipostasi, di modo ch'egli non è diviso, o separato in due persone (contro pure i Cristiani Nestoriani) ma egli è un solo e stesso figlio unico, Dio Verbo, nostro Signor Gesù Cristo». Il Concilio proibisce a chiunque d'insegnare, e pensare altrimenti, sotto pena ai Vescovi e preti d'esser deposti, ai monaci e laici d'essere scomunicati, vale a dire scacciati dalla società cristiana cattolica. I Vescovi gridarono: «questa è la fede; che i Metropolitani la sottoscrivano»; e così fu fatto. (Labbe Actio IV, et V. Concil. Chalched., e Fleury Hist. Eccles.).

Le cose intorno la credenza della procedenza anche filioque rimasero nel medesimo stato per quasi quattro secoli nei paesi cristiani occidentali, che già i cristiani dei paesi orientali s'attenevano strettamente alla veduta, decisione del Concilio generale di Calcedonia, che non si dovesse nè levare, nè aggiungere cosa alcuna alla credenza espressa nel Credimus di Costantinopoli, e ciò costituiva separazione, o scisma fra le due Chiese orientale, ed occidentale.

Dal fatto seguente, avvenuto l'anno 809 si rileva, che si cantava nelle Chiese delle Gallie, ed in altre, prima che nella romana, il Credimus etc. di Costantinopoli e coll'aggiunta del filioque; nè si sa quando, ed in che occasione abbiasi cominciato a cantare il Credimus etc. con quell'aggiunta, nella Chiesa romana, quantunque, almeno fino dalla Lettera di Leone I a Turibio, debbasi pensare che cotale aggiunta fosse credenza dogmatica.

Il Concilio d'Aquisgrana, dell'anno 809 (Concilia gallicana t. 2, p. 256, e Labbe t. 9, p. 277, an. 809), regnando Carlomagno, mandò alcuni Vescovi, come Legati al Papa Leone III per udir il suo parere intorno l'aggiunta già introdotta del filioque. Il Baronio (Annales ad an. 809, t. 13) dice, che non si dubitò, e trattò in questo Concilio, se lo Spirito Santo procedesse, o no oltre dal Padre anche dal Figlio; ma che avendo gli Spagnuoli, ed i Francesi aggiunto al Credimus etc. le quattro sillabe filioque, additae fuerunt symbolo illae syllabae filioque, (Baronio, ivi) disputossi se fosse bene che il Credimus etc. con quell'aggiunta si continuasse a cantare, o no nelle chiese; ma egli ciò dice contro le espressioni degli atti del Concilio medesimo, che ci dicono chiaramente: «nel qual Concilio si trattò la questione della processione dello Spirito Santo; cioè, se siccome procede dal Padre, così proceda anche dal Figlio» (Labbe t. 9, p. 277; in qua Synodo de processione etc.). Ed a maggior dimostrazione, che nel Concilio d'Aquisgrana dell'anno 809, si discusse precisamente la questione della procedenza filioque, e non solo di continuare a cantare, o no l'aggiunta, il dotto P. Pagi adduce altre prove storiche, come leggasi nella sua Critica, al luogo suddetto dagli Annali del Baronio.

Vedasi in Labbe (t. 9, p. 277), ed anche in Baronio, (Annales an. 809) il dialogo fra i Legati, e Leone III. Questi disse, che si deve credere alla procedenza dello Spirito Santo anche filioque se non si vuole esser dannato eternamente: i Legati dissero; se la cosa è così, domandiamo se sia lecito o no cantare nelle chiese il Credimus etc. di Costantinopoli coll'aggiunta del filioque, onde sia da tutti udita: il Papa disse che non tutte le cose, che si credono si cantano nel Credimus etc., non accordando con ciò il canto dall'aggiunta del filioque: i Legati, (cui sembrava doversi cantare il filioque, posto, che dalla credenza in queste quattro sillabe, dipendeva la salvezza eterna) ripigliano, per qual ragione non si potrà cantare il filioque, e cantando insegnarlo al popolo, se ciascuno è obbligato a crederlo, e se il crederlo è di fede? ed il Papa risponde: noi qui in Roma non lo cantiamo, ma soltanto lo leggiamo e leggendolo lo insegniamo, ma leggendolo, e insegnandolo, non osiamo aggiungere alcuna cosa al Credimus etc. di Costantinopoli: i Legati riconoscendo la proibizione d'aggiungere, o levare fatta dal Concilio generale di Calcedonia, insistono a domandare definitivamente se si possa cantare l'aggiunta filioque, o no; ma il Papa ripete di non cantarla, conchiudendo: «Si prius quam ita cantaretur etc., ut quod jam nunc a quibusque prius nescientibus recte creditur, credatur, et tamen illicita cantandi cousuetudo, cujusque fidei laesione, tollatur.»

Leggesi poi tanto in Baronio, che in Pagi, che Leone III fece porre due tavole d'argento nella Chiesa di S. Pietro, in una delle quali in greco, e nell'altra in latino, era scritto il Credimus etc., senza il filioque. Per le cose seguite e riferite l'erudito Vescovo Mansi pose una picciola nota al Baronio, dicendo: «non voglio disputare se Leone III abbia o no disapprovato l'aggiunta del filioque; è certo per altro, che Leone stesso inviò a' Vescovi delle province d'Asia una professione di fede in cui si legge, che lo Spirito Santo procede dal Padre, ed anche dal Figlio».

Eccola (Baronio anno 809, e Baluzio Miscell., t. 7, p. 18).

Simbolo di ortodossa fede di Leone III Papa alle Chiese orientali.

LEONE VESCOVO SERVO DEI SERVI DI DIO A TUTTE LE CHIESE ORIENTALI

Vi mandiamo questo simbolo di fede ortodossa, acciocchè da voi, e da tutti i credenti sia tenuta retta, ed inviolata fede, secondo la santa romana cattolica, ed appostolica Chiesa.

«Crediamo la Santa Trinità, cioè Padre, Figlio, e Spirito Santo, solo Dio onnipotenti, di una sola sostanza, di una sola essenza, di una sola potenza, creatore di tutte le creature, da cui, per cui ed in cui sono tutte la cose; il Padre da se stesso, e non da altro, il figlio generato dal padre, Dio vero da Dio vero, lume vero da lume vero, non però due lumi, ma un solo lume; lo Spirito Santo dal Padre, e dal Figlio egualmente procedente, consustanziale, coeterno al Padre, ed al Figlio. Il Padre è pieno Dio in sè, il figlio è pieno Dio, generato dal Padre, lo Spirito Santo è pieno Dio procedente dal Padre, e dal Figlio. Non però sono tre Dei» ec.

Deposto Ignazio Patriarca di Costantinopoli, l'anno 858, per disposizione della Corte Imperiale, fu eletto a lui successore Fozio d'illustre nascimento, di grande ingegno, e di sapere superiore a qualunque altro, che allora fosse in Europa. Siccome era laico, gli furon dati tutti gli Ordini, ed in sei giorni fu fatto Patriarca. Il deposto Patriarca Ignazio aveva grande partito, ma un Concilio di trecento vescovi in Costantinopoli confermò la deposizione d'Ignazio e l'elezione di Fozio. Nicolò I papa, uomo intraprendente e fiero, in un Concilio provinciale di Roma, annullò la sentenza del Concilio di Costantinopoli di gran lunga più numeroso del romano, scomunicò Fozio per l'autorità di Dio, degli Appostoli, di tutti i Santi, delli sei Concilj generali e del giudizio che lo Spirito Santo pronunzia per bocca del Papa romano, vale a dire di sè medesimo. Fozio uomo pure non meno fiero, che avveduto, sdegnatosi di un atto poco considerato, adunò un Concilio a Costantinopoli, scomunicò e depose Nicolò I, e preso il titolo di Patriarca universale, e pretendendo, secondo le idee ricevute da lungo tempo, che col trasferimento della sede dell'Impero da Roma a Costantinopoli, fosse stato anche trasferito il Primato nella Chiesa, concepì il grande progetto di rendere indipendente la Chiesa greca orientale dalla romana occidentale. E da uomo avvedutissimo, conformandosi al pensare, ed al credere del popolo, fa accuse a' Papi ed alla Chiesa di Roma, acconce a far grande impressione sugli spiriti; loro rimprovera acerbamente d'aggiungere illecitamente al Credimus etc. del Concilio ecumenico, ossia generale di Costantinopoli dell'anno 481 e contro il decreto del Concilio pure ecumenico di Calcedonia dell'anno 451, la parola filioque, di sostenere, di prescrivere, d'insegnare cotale aggiunta, di permettere il cacio ed il latte in quaresima, d'imporre a' preti il celibato, seguitando in ciò il Manicheismo: condanna il digiuno del Sabbato, ed il costume de' Cherici di radersi la barba, e nomina empietà mostruosa, distruggitrice del Cristianesimo, l'aggiunta filioque.

Fozio avendo coraggiosamente rimproverato Basilio di aver ucciso l'Imperatore Michele III, e d'essersi per tal modo fatto di lui successore, fu da Basilio discacciato. Un altro Concilio di Costantinopoli, essendo Adriano II Papa, ed essendovi presenti tre suoi Procuratori, o Legati, condannò Fozio e ristabilì Ignazio. Sembrava il grande contrasto finito, ma l'interesse e la superbia lo fecero risorgere. Il Re de' Bulgari, la cui moglie era cristiana, erasi fatto cristiano, e molta parte de' sudditi aveva seguito l'esempio del Re, siccome suole avvenire, o la Storia ci mostra, tanto a favore che contro il Cattolicismo, specialmente de' fatti della Germania protestante, e de' re Gustavo Vasa, di Svezia, ed Enrico VIII d'Inghilterra. Pretendeva Adriano II papa, che la Bulgaria dovesse essere sotto la sua giurisdizione, e non sotto quella del Patriarca di Costantinopoli Ignazio. Ma un Concilio di Costantinopoli decise a favore del Patriarca; ed i Legati di Adriano reclamarono contro la decisione del Concilio, e contro Ignazio, (del Papa stesso prima sostenuto contro Fozio) ed il Papa Giovanni VIII successore, minacciò di scomunicarlo e di deporlo. Morì Ignazio; e Fozio avendo riavuto il credito alla Corte, ed avendo Giovanni molto bisogno dell'Imperator Basilio contro gli Arabi, che lo avevano obbligato ad un grosso tributo, si determinò a riconoscere Fozio, per mezzo de' suoi Legati, lusingandosi che questo Patriarca avrebbe per cotale riconoscimento, rinunciato alla giurisdizioni della Bulgaria; ed un Concilio di Costantinopoli di quasi quattrocento Vescovi, nell'anno 879, ristabilì Fozio, annullando tutti gli atti fatti contro di lui negli anteriori Concilj, composti dei medesimi vescovi di quest'ultimo, il che non è senza ragionevole maraviglia. Ma Fozio non rinunciò alla Bulgaria perchè riputava, che il suo ristabilimento gli fosse dovuto; ed allora il Papa Giovanni mutò condotta, adoperò le sue solite armi; scomunicò Fozio, ed i successori di Giovanni, pel dominio della Bulgaria, non lo vollero riconoscere; e poscia cacciato in bando dall'Imperatore Leone, lasciò morendo il fondamento dello scisma, che cento e cinquant'anni dopo assodossi sotto il Patriarca Michele Cerulario, che aggiunse nuove accuse a' Papi ed al Clero occidentale, fra le quali l'uso del pane azzimo nella Messa, e sosteneva, negando il purgatorio, che i beati non godono della presenza di Dio prima del Giudizio universale. Una lettera molto forte del Papa Leone IX, accrebbe l'odio di Cerulario contro i Papi, ed il loro Clero; Leone rimproverava alla Chiesa cristiana d'Oriente più di novanta eresie, cioè opinioni erronee, condannate dalla Chiesa occidentale, fra le quali il permettere il matrimonio ai preti, che non è un'eresia, e provava la sovranità temporale de' Papi colla falsa donazione dell'imperator Costantino, allora creduta vera: un atto di scomunica del Papa, portato da' suoi Legati a Costantinopoli, diceva: che Michele ed i suoi seguaci siano anatemi, co' simoniaci, cogli eretici, col Diavolo e cogli Angeli suoi, se non si convertono: ed il Patriarca Michele Cerulario con questo esordio cominciò la sua risposta. Uomini empj, usciti dalle tenebre dell'Occidente, sono venuti in questa divota città, da cui la Fede ortodossa s'è diffusa per tutto il Mondo; hanno tentato di corrompere la Fede ortodossa colla diversità dei loro dogmi ec. I Greci disprezzavano in quel tempo grandemente i Romani, trattavanli da ignoranti, erano presi da sdegno per le pretese de' Papi di generale dominazione. Gli odj per motivi veri, o falsi di religione vera, o falsa, sono pur troppo eterni, ed atroci perchè v'è chi ha interesse a fomentarli. Le ragioni di Cerulario, per la natura della quistione non erano niente più valide di quelle di Leone IX. ed il filosofo discuopre che le passioni, piuttosto che le prevenzioni, animavano le loro penne e dirigevano le loro azioni disapprovabili.

Gl'Imperatori greci ridotti a stato tristissimo, e povero da' Turchi vittoriosi, proposero poscia alcune volte a' Papi (allora per sè stessi ridondanti d'oro e d'ogni assoluta possanza, e signori ancora delle armate e dei tesori dei popoli, e de' sovrani d'Europa, de' quali disponevano) di riconoscere il loro Primato, di ammettere il filioque, e di convenire intorno agli altri articoli di controversia, per avere soccorsi in danari ed in armate: e ciò specialmente avvenne nelle due seguenti epoche.

Cominciò circa l'anno 1204, tempo in cui i Crociati cacciarono dal trono imperiale di Costantinopoli Alessio III Comneno, e vi posero Baldovino I latino, ad esservi comunione fra le due Chiese greca e latina, e si costrinsero a fuggire quegli ecclesiastici e laici greci, che non vollero acconsentirvi; ma avendo indi Michele III Paleologo scacciato da Costantinopoli l'ultimo Imperatore latino Baldovino II, e messosi in trono intorno l'anno 1260, coll'aver fatto cavare gli occhi al giovanetto Imperator greco Giovanni Lascari, di cui era tutore, si rinovò lo scisma. E vedendo Michele, che il potente Carlo d'Angiò, impadronitosi del Regno di Napoli, voleva rimettere sul trono di Costantinopoli Baldovino fuggito in Italia, mostrò accortamente disposizione al papa Clemente IV, che aveva ordinato un gran numero di crociate, e donato il regno di Napoli a Carlo, di riconoscere il primato de' Papi, e di accomodarsi intorno le altre cose di dogma, e di disciplina, affinchè distornasse Carlo dal divisamento; e Gregorio X, successo a Clemente, colta la bella occasione, adunò a Lione un Concilio generale nell'anno 1274. Michele Paleologo vi mandò ambasciatori con lettere sue, e de' vescovi greci, nelle quali era ammesso il filioque, in un col primato de' Papi in tutto, e s'accordavano le altre cose credute e praticate in occidente; il Papa disse la Messa, e quando si venne al passo del Credimus etc., o Credo ec. di Costantinopoli, il Papa, e tutti i vescovi e preti greci e latini cantarono ad alta voce per tre volte il filioque, che il papa Leone III non aveva voluto, che si cantasse cinque secoli prima. Si accordò anche al Papa il diritto di giudicare in appellazione, ciò ch'era stato tanto fortemente negato dalla Chiesa cattolica della province d'Affrica nel quinto secolo, prima d'essere distrutta dai Vandali a dagli Arabi.

Cessati i bisogni di Michele a de' Vescovi greci, lo scisma ritornò come prima. Poscia nell'anno 1438, il Papa Eugenio IV veneziano, combattendo col Concilio generale di Basilea, adunò l'altro Concilio generale di Firenze, e l'imperator Giovanni Paleologo, ridotto a misero stato in un co' suoi vescovi, dalle vittoriose armate de' Turchi, chiedendo soccorsi al Papa, ed ai Principi latini, propose ad Eugenio di aderire ad ogni cosa. Venne a Firenze col Patriarca di Costantinopoli, e con vent'un vescovi, e dopo lunghi contrasti per le espressioni del Decreto d'unione, fu esso scritto e sottoscritto ammettendo il filioque, il Primato, il Purgatorio, e le altre cose volute da Eugenio, che manteneva l'Imperatore, il Patriarca, i Vescovi greci; dava loro mensualmente danari, secondo il grado, e pagò il viaggio di venuta, e di ritorno. Il Vescovo greco Bessarione, che fu poi Cardinale, scrisse il Decreto, ed accortamente rimase in Italia. Eugenio diede anche all'Imperatore i soccorsi promessi. Il solo Marca vescovo d'Efeso, non volle sottoscrivere il Decreto. Tornati in Grecia i vescovi greci ripigliarono le loro prime opinioni direttamente contrarie al Decreto, e Marco scrisse lettera circolare a' Vescovi greci ed orientali contro il Concilio di Firenze; si mostrarono frodi fatte da' latini nell'estendere il Decreto. Vedi Pietro de Marca De Concordia ec. Lo scisma ritornò interamente come prima, e dura tutt'ora, e l'imperatore Giovanni timoroso de' suoi sudditi, e bisognoso de' Latini stette perplesso, morì poco dopo, e Costantinopoli poi fu presa da' Turchi l'anno 1453.

97Niceta descrive in patetica guisa il saccheggio di Costantinopoli e le sciagure che personalmente il percossero (p. 367-369, e Status urbis C. P., p. 375-384). Innocenzo III, Gesta, c. 92 conferma perfino la realtà de' sacrilegj deplorati da Niceta: ma Villehardouin non lascia scorgere nè pietà, nè rimorsi.
98Se ho ben inteso il testo greco di Niceta, le loro vivande predilette eran cosce di manzo a lesso, maiale salato condito coi ceci, zuppa con aglio ed erbe forti, o acide (p. 582).
99Niceta si vale di espressioni durissime αγραμματοις βαρβαροις, και τελεον αναλφαβητοις Barbari illetterati, e totalmente ignari dell'abbicì. (Fragm. apud Fabricium, Bibl. Graec., t. VI, p. 414). Vero è che questo rimprovero si riferisce principalmente alla loro ignoranza della lingua greca e delle sublimi opere di Omero. I Latini del dodicesimo e tredicesimo secolo non mancavano di opere di letteratura nella propria lingua. V. le Ricerche filologiche di Harris, p. 3, c. IX, X, XI.
100Niceta, nativo di Cona in Frigia (antico Colosso di S. Paolo) era pervenuto al grado di Senatore, di Giudice del Velo e di gran Logoteta. Dopo la rovina dell'Impero, di cui fu vittima e testimonio, si ritrasse a Nicea, ove compose una compiuta e accurata storia che procede dalla morte di Alessio Comneno insino al regno di Enrico.
101Un manoscritto di Niceta (nella biblioteca Bodleana) contiene questo singolare frammento che riguarda lo stato di Costantinopoli, e che o ad arte, o per vergogna, o piuttosto per trascuratezza è stato ommesso nelle precedenti edizioni. Lo ha pubblicato il Fabrizio (Bibl. graec., t. VI, p. 405-416), e l'ingegnoso Harris di Salisbury non ha limiti nel lodarlo (Ricerche filologiche part. III, cap. V).
102Per darne un'idea della statua di Ercole il sig. Harris ha citato un epigramma, e presentata la figura scolpita in una bella pietra; ma questa non offre l'atteggiamento di un Ercole, senza clava, col braccio e la gamba stesa siccome di questa statua vien detto.
103Ho trascritte letteralmente le proporzioni indicate da Niceta, le quali mi sembrano oltre modo ridicole, e forse ne condurranno a giudicare che il preteso buon gusto di questo senatore ad ostentazione e vanità riducensi.
104V. Niceta, ove parla d'Isacco l'Angelo e di Alessio (cap. 3, p. 339). L'Editore latino osserva con molta ragionevolezza che lo Storico greco coll'enfasi del suo stile suol fare ex pulice elephantem.
105Niceta in due passi (edizione di Parigi, p. 360, Fabrizio p. 408) rampogna aspramente i Latini οιτου καλου ανεραστοι Βαρβαροι, Barbari nemici del bello, e indica in precisi termini quanto fossero avidi del bronzo. Non può però negarsi ai Veneziani il merito di avere trasportati quattro cavalli di bronzo da Costantinopoli alla piazza di S. Marco (Sanuto, Vite dei Dogi, Muratori, Script. rer. ital. t. XX, pag. 534).
106Winkelmann, Storia dell'arti, t. III, p. 269-270.
107V. nel Gunther (Hist. C. P. c. 19-23, 24) il pietoso furto dell'abate Martino, che trasportò un ricco fardello di questi tesori religiosi nel suo convento. Nondimeno il Santo non andò immune dalla scomunica, e forse dalla taccia di avere violato un giuramento.
108Fleury, Hist. eccles. t. XVI, p. 139-145.
109Conchiuderò questo capitolo con alcuni cenni sopra una Storia moderna che descrive colle sue particolarità la presa di Costantinopoli per opera dei Latini; ma venutami fra le mani alquanto tardi. Paolo Ramusio figlio del Compilatore de' Viaggi, ebbe dal Senato di Venezia la commissione di scrivere questa Storia: ma ricevè un tal ordine in gioventù e lo eseguì solamente anni dopo, pubblicando un'opera ingegnosamente scritta che ha per titolo, De bello Constantinopolitano et imperatoribus Comnenis per Gallos et Venetos restitutis (Venezia 1635 in folio). Il Ramusio o Ramnusio, trascrive e traduce, seguitur ad unguem, un manoscritto che ei possedeva del Villehardouin; ma ha inoltre arricchito il suo racconto di materiali greci e latini, e gli andiamo pur debitori della descrizione esatta della flotta, dei nomi di cinquanta nobili Veneziani che comandavano le galee della Repubblica, e per lui sappiamo le circostanze delle opposizioni che, spinto da amore di patria, mosse Pantaleone Barbi contro la scelta del Doge a Imperatore di Costantinopoli.