La Spia

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CAPITOLO 2. L’Addio

Non avevo ancora compiuto trent’anni quando accadde uno degli eventi più strani della mia vita. Me lo ricordo perfettamente, perché quell’anno avevamo dovuto lavorare senza sosta per il fatto storico più rilevante accaduto al popolo americano, lo sbarco dell’uomo sulla Luna.

Un evento che cambiò la concezione che si aveva fino a quel momento sull’universo, ora sembrava che tutto fosse più vicino, accessibile, cosicché in pochi anni avremmo potuto colonizzare quell’astro vicino.

Quanto eravamo ingenui! Così tante ore di dibattiti televisivi tra giornalisti e intellettuali su quello che avremmo dovuto fare lì, e su cosa volesse dire il primo passo della colonizzazione di altri pianeti, tanto parlare e fare piani per niente.

C’erano anche quelli che vendevano lotti della Luna, così che quando fosse stata colonizzata si potesse avere il proprio posto lì, e ora, dopo qualche decennio, che ne è di tutto questo? Niente, perché nulla era reale, nemmeno gli esperti di quel tempo credettero a tutto ciò che si diceva, persino ora pare che non ci fosse alcun interesse a colonizzare la luna.

In quel periodo ero lontano dal mio Paese, in quella che era una missione segreta, ma invece di essere in campo nemico ero nel territorio dei nostri alleati.

La mia missione era di scoprire, copiare e trasmettere i progressi tecnologici che riguardavano la codifica e decodifica dei messaggi, cioè l’arte della crittografia, per cui ero autorizzato ad utilizzare qualsiasi metodo a mia disposizione.

Non negherò di aver fatto cose discutibili, ma necessarie, perché i miei capi volevano risultati e così per ottenere la collaborazione di alcuni scienziati, questi ultimi venivano fatti sparire durante le loro vacanze o subivano il rapimento di un parente. Per niente piacevole, ma il lavoro è lavoro!

Non mi occupavo di quella parte, mi limitavo a porre domande e a convalidare le informazioni che questi scienziati mi davano.

E poi venivano liberati, perché una volta scoperte le chiavi non importava cosa avrebbero fatto.

Anche se dovemmo visitarne di nuovo più di uno, perché avevano sviluppato codici diversi dopo che erano stati catturati e per continuare a nascondere i loro messaggi.

Nel frattempo, e per mantenere la mia copertura in quel paese, avevo una seconda vita come professore universitario il che mi permetteva di accedere alle biblioteche e ad altri insegnanti in modo da essere aggiornato sulle ultime novità dei loro lavori e informato su ciò che sapevano altri scienziati che avevano scoperto qualcosa che potesse interessarmi.

Senza saperlo, il resto del corpo docente era le mie orecchie, nel caso fossero venuti a conoscenza di uno scienziato che aveva fatto una qualche scoperta, e poi io, senza che nessuno lo sapesse, facevo quelle visite per estorcergli le informazioni.

A quel tempo, ero anche arrivato a farmi una certa reputazione nel mondo degli scacchi, ma solo in partite amichevoli dal momento che cercavo di non apparire in eventi pubblici che potessero svelare la mia copertura, perché nel caso avessi dovuto cambiare destinazione nessuno potesse riconoscermi.

Nonostante tutto fui chiamato da alcune università per qualche conferenza, e dopo giocavo due partite con coloro che avrebbero dovuto essere i migliori di quell’Istituzione.

A dire il vero, la prima la vincevo senza problemi, e la seconda, non direi che li lasciavo vincere ma non volevo umiliare l’istituzione che mi aveva invitato.

E quando nessuno mi vedeva, ogni settimana inviavo il rapporto corrispondente sui miei progressi, così come le informazioni che avevo ottenuto da quegli scienziati che avevo convinto a collaborare.

Tutto sembrava semplice e si poteva dire che fossi già un esperto, quando mi venne assegnata una nuova destinazione, Israele.

All’inizio ero sorpreso, non ne avevo idea, in nessun momento mi era stato suggerito o chiesto nulla così chiesi che mi confermassero le istruzioni, non era la prima volta che mi fossero state falsificate a causa della mia posizione e per la gestione delle informazioni delicate che avevo sempre per le mani.

Ho dovuto imparare ad essere cauto nel modo più duro, come si suol dire, perché in più di un’occasione ero caduto nella trappola di qualcuno, come mi era successo in Spagna, e nonostante il tempo passato, non sono riuscito a scoprire chi mi volesse così male in quel momento.

Dopo che mi confermarono le istruzioni mi liberai della squadra di supporto, quella che era incaricata di fare il lavoro sporco, rapimento ed estorsione, e feci le valige verso una destinazione sconosciuta, una colonia britannica che aveva poche prospettive di compiere progressi.

In un primo momento pensai che fosse una sorta di punizione anche se non ne capivo la ragione, ero sicuro di non aver mai sbagliato sul lavoro, anche se non era la prima volta che chi dava fastidio o non faceva bene il proprio lavoro veniva inviato a una destinazione inospitale, da cui non tornava quasi mai.

Non conoscevo il posto dove stavo andando, sapevo solo che era nel deserto, l’opposto di quello di cui avevo goduto finora con estati calde e inverni piovosi ma in ogni caso con una temperatura piacevole, ma il deserto!

Avevo lasciato la mia cattedra al college, la mia posizione privilegiata, quel tipo di vita comoda che avevo e tutto per andare in un deserto, non lo capivo, ma gli ordini sono ordini e bisogna sempre essere pronti a obbedire.

Sarebbe stato come tornare a casa, beh, all’origine del mio addestramento militare, in Arizona… in Arizona? Sì, ero lì all’epoca, no era in Pennsylvania! Probabilmente è lì che ho incontrato il mio primo amore.

Questa cosa della memoria mi fa confondere date o luoghi, e la cosa peggiore è che non me ne rendo conto finché qualcuno non me lo dice e, a volte, nemmeno in quel caso.

Ricordo ancora che una volta stavo parlando con qualcuno di un prossimo appuntamento, non ricordo quale, credo dal dottore, e gli stavo dicendo il giorno sei del mese prossimo.

– Certo! – mi disse la voce dall’altra parte del telefono. – ci vediamo giovedì prossimo.

– Giovedì? Le ho detto il sei, ed è martedì.

– No, Signore! Ce l’ho davanti a me il sei è giovedì’.

– No, signorina! giovedì prossimo è il nove.

– Stiamo parlando di marzo?

– Certo, signorina! Che? Pensa che non sappia che mese vivo?

– Ma… – ha esitato. – Di che anno?

– Beh, quale altrimenti? Il 1984 – risposi sorpreso dalla sua domanda.

– Oh, no signore, non è questo l’anno! – siamo nel 1990, probabilmente sta guardando in un vecchio calendario – rispose.

– 1990? Di cosa parla? Siamo nel 1984, o vuole che non sappia in che anno vivo? – Chiesi arrabbiato.

– Non voglio contraddirla, signore, ma è il 1990.

– Beh, non ci credo. chi è il Presidente?

– Signore, non credo che questa conversazione porterà a qualcosa. Le sarei grata se potesse passarmi un’altra persona con la quale poter risolvere la questione e concludere.

Poi mia moglie prese il telefono e risolse tutto scusandosi per la mia mente malata.

A dire il vero, nonostante tutto, e dopo aver chiuso, ero ancora convinto che fossi io ad aver ragione e non lei, per fortuna mia moglie mi rassicurò dicendo:

– Va tutto bene, è nuova non preoccuparti, ti porto dal dottore il giorno dell’appuntamento.

È un problema di memoria, che col tempo si sa è normale che ci sia qualche tipo di cedimento di tanto in tanto, ma mi metteva di cattivo umore quando qualcuno evidenziava la mia dimenticanza.

A volte passavo ore a pensare a ciò che avevo dimenticato, cercando di capire come o perché fosse successo.

Anche se la mia rabbia durava poco, perché in pochi minuti avevo scordato la ragione della rabbia e lasciavo perdere.

Quanto tempo sprecato cercando di ricordare…! a volte riuscivo a scoprire di cosa si trattasse e mi stupivo di essermi arrabbiato per una cosa così insignificante, ma non ero in grado di controllare le mie emozioni.

Col passare del tempo ero sempre più intransigente, e mi dava fastidio soprattutto, che gli altri non rispettassero ciò che avevano detto o quello che mi aspettavo che facessero.

D’altra parte, quando mi sbagliavo o qualcosa non andava trovavo sempre una giustificazione per questo minimizzando quell’errore, dicendomi che era una questione di età.

Quanto ero diverso da quando ero giovane! All’epoca ero un fedele uomo d’azione e non permettevo a me stesso di fallire per nessun motivo e naturalmente non avevo nessun problema di memoria, infatti, grazie al mio lavoro e agli scacchi avevo una memoria tale che qualcuno arrivò a paragonarmi addirittura a un’enciclopedia vivente.

Per chiunque, i Mitzvot, i seicento tredici precetti della Torah potrebbero sembrare molti, ma per me era un modo di vita naturale, tutto era pianificato, cosa doveva essere fatto e cosa no, e non c’era possibilità di errore, e il sapere come rispondere quando sorgeva una nuova situazione nella vita mi dava un po’ di pace mentale.

Anche se non mi considero un estremista religioso, credo di essere un buon ebreo, almeno questo è quello che dissi al mio capitano, che accompagnavo in Israele dalla base inglese.

Mi avevano preso come interprete dal momento che il mio capo non conosceva l’ebraico, perché anche se era una colonia inglese non tutti parlavano quella lingua, poiché l’ebraico era più usato tra chi proveniva da altre parti d’Europa.

Il mio capitano aveva chiesto le mie referenze perché non era sicuro della mia lealtà, dal momento che avevano avuto qualche problema con i collaboratori, come chiamavano i civili che generosamente si prestavano a lavorare come interpreti.

 

Ma i miei ordini erano in regola e, anche se non risultava la mia provenienza come personale dell’esercito americano, il mio fascicolo non dava spazio a dubbi, dato che i servizi segreti del mio paese non lasciavano questioni in sospeso.

Avevo passato così tanto tempo a infiltrarmi in paesi diversi, in ognuno dei quali avevo un nome una professione e un passato diversi, che a volte era difficile per me ricordare chi fossi quel giorno.

Per evitare errori in termini di lingua o costumi che avrei dovuto usare in quel paese, cercavo di avere una mia foto nel vestito o abbigliamento più tipico possibile, in modo che con un semplice sguardo a quella foto sapevo esattamente dove ero, quale era la mia missione e con quale identità.

Ero meticoloso nel mio lavoro, perché anche se tutto era apparenza, non volevo distruggere il lavoro di chi mi aveva procurato la destinazione, l’identità, una storia convincente… alle volte quando era necessario, ero un padre di famiglia, altre volte uno sposo novello o celibe, il modo più conveniente per non destare sospetti nel posto in cui mi trovavo.

Allo stesso modo dovevo usare gli accenti del luogo di origine, a volte forzando il tono per essere sicuro, cosa che non mi costava troppo a causa della mia facilità per le lingue, e perché venivamo addestrati con i nativi che ci aiutavano a dare la giusta tonalità.

Quasi nessuno sapeva nulla del mio vero io o del mio passato, dal momento che cambiavamo partner a ogni missione e una delle regole era di non fornire informazioni personali, cosa che a volte generava una grande sensazione di solitudine ma era necessario per il lavoro che stavo facendo.

Sono nato in Polonia, da una famiglia ebrea ortodossa cosa che mi aveva permesso di avere facilità per le lingue, dal momento che in casa mia se ne parlavano diverse. Fin da piccolo, mia madre insistette che imparassi l’inglese e il francese.

Sebbene non capissi perché volevano che imparassi quelle lingue di luoghi che non avevo mai sentito nominare, all’età di dieci anni ero in grado di padroneggiarne quattro, le due precedenti, più l’ebraico e naturalmente, il polacco.

Più tardi mi sono interessato al russo e allo spagnolo, la verità è che forse l’aver iniziato in così tenera età con lo studio di lingue diverse mi ha reso più facile espandere le mie conoscenze.

A volte mi hanno chiesto come possa non fare confusione con tante lingue e rispondo che per me è naturale, che non devo fare nulla, per esempio quando in una conversazione in inglese qualcuno mi chiede qualcosa in francese, lo capisco e posso rispondergli senza problemi. Un vantaggio nella mia vita che mi ha aperto molte porte e mi ha permesso di arrivare fino in Israele.

I miei ordini erano sempre gli stessi scoprire nuove chiavi di codifica e rimandarle al comando, e per rendere sicura la spedizione avevo sviluppato un codice particolare, una chiave famigliare, o meglio riferito alla famiglia.

Facevo finta di scrivere a casa commentando il mio viaggio e chiedendo di questo o quel parente, quindi a seconda di chi nominavo, stavo dicendo che avevo trovato qualcosa o no. Era un codice molto semplice, ma proprio per questo difficile da decifrare, perché per chiunque l’avesse vista non era altro che una lettera a un famigliare, una delle tante inviate dai soldati.

Quando riuscivo a ottenere il codice di qualcuno allora facevo una spedizione speciale, un piccolo regalo da turisti avvolto in carta da giornale dove segnavo con inchiostro invisibile quei caratteri che formavano la chiave di decodifica del messaggio scoperto.

All’inizio fu difficile portare l’inchiostro non rilevabile, era necessario portare ovunque andassi un piccolo flacone, cosa non sempre facile, ma poi, e seguendo l’esempio degli antichi ho imparato a farlo con limone. Una macchia su un foglio, che non si nota né ha odore, ma che, quando messo contro luce davanti a una candela o a una torcia lascia un segno inconfondibile dove è stato messo l’acido.

La formazione di Intelligence includeva una moltitudine di metodi per ricevere e inviare ogni tipo di informazione, sia tra gli oggetti, sia all’interno di essi, naturalmente sperando che colui al quale li inviavo sapesse come riceverli per essere in grado di interpretarli correttamente, evitando così malintesi o la perdita delle informazioni inviate, metodo che ho usato ovunque mi inviassero.

Arrivai in Inghilterra dove fui ben accolto anche se, a quanto mi dissero, erano meravigliati da quanto accaduto in Spagna e sorpresi dalla mia capacità di cavarmela.

Dopo aver comunicato con il mio comando e dopo aver aspettato diversi giorni una risposta, mi assegnarono come assistente di un capitano che doveva sovraintendere alle truppe in una delle colonie vicino all’Egitto.

In un primo momento l’idea mi sembrò buona, supponendo che avrei avuto poco lavoro, non conoscevo l’arabo come lingua, ma quando mi dissero che sarei andato in Israele ebbi un brivido.

Non che io sia un radicale, ma ho avuto un’educazione ortodossa, e per noi, è come, non lo so, come per gli americani il Lincoln Memorial.

Lo desideravo così tanto da non poterlo nemmeno immaginare, oltre a tutto mi avrebbe dato l’opportunità di rispolverare il mio ebraico che da quando avevo lasciato i miei genitori in America non avevo più usato, beh, né quella lingua né il polacco, perché non avevo avuto nessuna occasione per parlarla.

In pochi giorni arrivammo in Israele, il capitano anche se un po’ pignolo mi portava ovunque, esaminando ogni checkpoint e interrogando ogni ebreo che incrociava per la strada.

Non so molto bene cosa volesse o cercasse, ma a volte la situazione si faceva tesa, soprattutto quando mi chiedevano in ebraico perché servissi questi signori.

Io mi limitavo a tradurre e chiedevo di rispondere alle domande, anche quando qualcuna mi sembrava fuori luogo.

Il mio capitano a volte cercava di intimidire quelle persone, provare che era il capo, o almeno quella era impressione che mi dava.

Ma nel pomeriggio, quando era libero, il mio Capitano a malapena lasciava la base se non con una scorta, passava il tempo quasi sempre riposando come gli piaceva, non sopportava il clima per cui stava meglio nei suoi alloggi.

Io d’altra parte, ogni volta che ne avevo l’opportunità, lasciavo quel posto per stare con la gente e per camminare attraverso quelle terre, non mi sembrava vero di essere lì!

In un’occasione stavo camminando immerso nei miei pensieri quando improvvisamente ho sentito una voce accanto a me:

– Beh? Non vai in giro con la tua scorta?

– Quale scorta? – Gli chiesi un po’ sorpreso dalle sue parole.

– Perché lavori per loro?

Mi girai e vidi un uomo anziano con la barba lunga e vestito di nero dalla testa ai piedi, senza dubbio era un rabbino o almeno lo sembrava.

– Mi scusi, signore, è il mio lavoro!

– E perché lo fai? ce ne sono di più degni!

– Mi spiace, ma è così che sfamo la mia famiglia. Sono anni che lavoro per dar da mangiare ai miei cari.

– Un nobile scopo anche se ottenuto, penso, in modo inappropriato; dovresti pensare a chi stai servendo se gli uomini o il tuo Creatore!

In quel momento non seppi cosa rispondere, dal momento che così come non avevo praticato l’ebraico o il polacco da molto tempo, allo stesso tempo non avevo professato la mia religione nonostante la grande importanza che mia madre le avesse sempre dato, esortandomi a essere scrupoloso con la Legge e a rispettarla qualunque cosa fosse successa.

Alzando lo sguardo notai che l’uomo era andato via senza darmi l’opportunità di rispondere, forse perché sapeva già la risposta.

Immerso nei miei pensieri, vagabondai per le strade senza un percorso definito, volevo solo chiarire alcune idee, quell’uomo mi aveva fatto una sola domanda ma per me non era affatto semplice. Dopo un po’ mi sedetti su una sedia all’ombra di un telone che fungeva da parasole in un bar.

– Cosa desidera? – me chiese un giovanotto.

– Un tè, molto freddo, per favore! – risposi.

Me lo portò dopo un po’ e io girai con il cucchiaino lo zucchero che avevo aggiunto per addolcirlo, mentre pensavo alle parole di quello straniero.

Se qualcuno mi vedesse con questo aspetto da militare non mi riconoscerebbe. La prima cosa che ho dovuto fare per entrare nell’esercito è stato tagliarmi i capelli, soprattutto fu emblematico il momento in cui mi hanno tagliato i payot, quei boccoli che, seguendo il Mitzvah, non mi avevano mai tagliato, perdendo così il mio segno distintivo di identità, per fortuna i miei genitori non mi hanno mai visto così! Pensavano che sarei diventato importante non per gli uomini, ma per il Creatore.

Mia madre mi diceva sempre quanto fosse importante l’osservanza in ogni momento, che ci guardavano sempre, e che qualunque cosa fosse successa, non avrei mai dovuto perdere la protezione dall’alto.

Quante storie mi aveva raccontato, com’era chiaro adesso! Quasi come fosse la vita di qualcun altro, dove restavano tutte quelle ore di studio e discussioni con altri compagni o con qualche rabbino sul Talmud; sì, una delle mie occupazioni preferite era mettere in discussione tutto e cercare di confutare, argomentando, il resto.

Da quando entrai nell’esercito tutto fu differente, avevo lasciato indietro la mia vita passata cercando integrarmi, per non far capire che avevo una famiglia e un’origine così diversa dagli altri, e ora a Gerusalemme tutto sembrava assumere un qualche tipo di significato.

Chi avrebbe detto che sarei arrivato in questa terra, calpestando il suolo dei nostri antenati dove era scritta la storia del nostro popolo, e quanto, al contrario tutto mi sembrasse strano, quanto mi sentissi fuori luogo!

Mi sfregai il viso rasato come da regolamento, ma quella faccia non lasciava trasparire la mia vera immagine quella che ero stato educato ad avere, adesso vedevo altri ebrei di passaggio che rispettavano la Mishnah, la legge ebraica, con l’immancabile kippah, mentre coloro che provenivano dall’Europa si distinguevano da caffetano nero e lo shtreimel, un cappello di pelliccia, mentre io avevo solo l’uniforme regolare dei militari britannici.

Ero assorto in quei pensieri quando due donne mi passarono davanti, una di loro dopo avermi guardato immagino, sorrise.

Non diedi molta importanza alla cosa, ma riscuotendomi dai miei pensieri mi alzai e seguendo un impulso interno del tutto inspiegabile, le salutai:

– Buon pomeriggio, signore! Potete dirmi che ore sono?

– Signore? – dissero ridendo. – A cosa le serve l’orologio al polso?

Avevo detto la prima cosa a cui ero riuscito a pensare, e lo guardai nello stesso momento in cui dicevo:

– Beh, non funziona!

Uno di loro mi afferrò la mano e la sollevò per guardarlo.

– Ora, sembra di sì!

– Oh, grazie…! – feci in tempo a dire, prima che se ne andassero ridendo.

Mi sentivo così strano non capivo perché mi fossi alzato, e con una scusa così pessima.

Tanti anni di servizio e avevo dimenticato una parte di me, l’uomo di famiglia, la mia famiglia. Tutti abbiamo l’obbligo di formarla, in modo da trasmettere le nostre conoscenze e le lezioni che abbiamo ricevuto alle nuove generazioni.

Ma l’esercito mi aveva assorbito così tanto e per così tanto tempo, che stavo solo facendo il mio lavoro e nient’altro.

Ma quelle donne, non lo so! Quell’incidente aveva risvegliato qualcosa dentro di me, o forse era il tè, o forse quella città. Mi sentivo molto, molto perso.

Naturalmente, non sapevo tutto quello che so ora, se l’avessi immaginato allora avrei preferito tornare negli Stati Uniti, o anche in Inghilterra.

Almeno lì avrei avuto una vita diversa non migliore, ma forse sarebbe stata più semplice.

In Inghilterra avrei ricominciato i miei corsi al College; in America, sono sicuro che mi avrebbero messo a capo di qualche centro di intelligence o di supporto logistico, dove avrebbero beneficiato dei miei anni di esperienza, ma rimanere in Israele è stata la cosa più rischiosa e strana che potesse succedermi, e che mi sia successa.

Dopo tanti anni, posso vedere come le circostanze abbiano cospirato per compiere il mio destino se così si può dire, almeno è quello che potrebbe pensare un non credente, ora che è passato il tempo sono sicuro che stavano guidando i miei passi per compiere una missione.

 

Come tutto sembra diverso col passare del tempo! Quante sciocchezze, quanto tempo sprecato, per non aver confidato nel Creatore!

Quando vedo passare un giovane in uniforme militare mi dispiace per lui, così eccitato, così ansioso e così perso, non sa quale sarà il suo futuro.

Pochi, tra tutti quelli che si arruolano alla fine fanno carriera, al massimo restano qualche anno o poco più, alcuni rimangono cinque o sei anni e basta, e il resto se ne va senza ripensamenti, anche se non hanno un posto dove andare.

Anche l’esercito quando arrivano a una certa età, li allontana, soprattutto per certe posizioni avanzate, dal momento che i riflessi e l’entusiasmo del principio si perde con gli anni.

D’altra parte, per certe posizioni è il contrario, più anni di esperienza meglio è, così fai carriera, perché la performance che puoi offrire all’esercito è migliore e tra quelle posizioni ci sono quelle dell’intelligence, a cui ho dedicato tutta la mia vita.

Chi l’avrebbe detto? Un “semplice matematico”, come mi definivano i miei superiori, e guarda dove sono arrivato, e tutto perché ero al posto giusto nel momento giusto, Israele.

Quello fu il posto in cui la mia vita cambiò davvero in tutti i sensi, un posto così diverso da quello che mi aspettavo, con persone che hanno sempre lottato per la loro sopravvivenza.

Stranamente è lì dove ho scoperto le mie radici, così lontano dalla mia terra o dai miei genitori.

Sembra ieri quando gli dissi addio, quasi senza preavviso e dopo averci riflettuto molto nel corso della traversata su quella nave che ci portava in America e, una volta lì, dovemmo registrarci e poi ci accolsero.

All’inizio tutto andava bene, in quella crescente comunità di Ebrei ci aprirono le porte, e condividevano quello che avevano con tutti i nuovi arrivati, compresa la casa e il cibo.

Mia madre soffriva di nostalgia, non appena usciva per strada diceva che tutto le sembrava molto strano, aveva anche difficoltà della lingua così temeva che se fosse stata fermata da qualche autorità, non avrebbe saputo cosa rispondere; anche se era già al sicuro in un altro Paese, continuava a pensare a tutto quello che aveva dovuto lasciarsi alle spalle.

Mio padre passava tutto il suo tempo a cercare lavoro, e anche se alcuni di quei nuovi conoscenti gli avevano proposto di lavorare con loro lo aveva rifiutato. Non so se per orgoglio, o per non voler abusare ulteriormente della gentilezza dei suoi fratelli nella fede.

Il problema è che nessuno dei due parlava inglese, a parte poche parole per dire ciao, ma per niente sufficiente per condurre la loro vita quotidiana.

Tuttavia, questo non era il mio caso, mia madre aveva fatto in modo che fin dall’infanzia imparassi quella lingua, cosa che ora mi veniva molto bene e li aiutavo come interprete quando era necessario.

Quel paese sembrava così diverso, c’era una strana atmosfera di diversità, non era una cultura, ma un misto di queste, con persone di diversi colori e credenze.

Beh, ad ogni modo avevo ascoltato altri giovani sulla nave parlare della loro intenzione di arruolarsi, alcuni dicevano che era il modo più veloce per ottenere la cittadinanza, o che avrebbero avuto un posto di lavoro, ma altri, ed era quello che mi interessava di più, dicevano che l’esercito dava uno stipendio mentre erano lì, oltre ai pasti e un posto per dormire, cosa che catturò la mia attenzione, se già ricevevo cibo e mi fornivano il vestiario e l’alloggio, a cosa mi sarebbe servito lo stipendio?

Poi pensai che sarebbe stata una buona soluzione se mio padre non avesse trovato lavoro in questo nuovo paese, come in effetti fu.

Una mattina, dopo aver eseguito le mie preghiere, scesi in sala da pranzo e lì, riunita la famiglia, dissi loro:

– Mi arruolerò nell’esercito americano!

– Ma che dici, figliolo? – disse mia madre con una faccia smarrita.

– L’esercito? Ma sei impazzito? – chiese mio padre.

– Ci ho pensato molto attentamente e ho deciso, apprezzerei se mi dessi la tua benedizione.

– La mia benedizione? – mio padre chiese sorpreso. – Sai che non possiamo usare le armi, se non per difenderci!

– Ma l’esercito non serve proprio per questo?

– Se questo non è il tuo paese, perché vuoi farlo?

– Mi avete sempre insegnato a fare quello che pensavo fosse giusto, e questo è quello che penso si debba fare.

Mio padre lasciò quella stanza senza dire una parola, mia madre cominciò a piangere in modo inconsolabile.

Di fronte a quella scena e dopo aver aspettato un po’ per vedere se mio padre sarebbe tornato, qualche istante dopo lascia quella casa e non tornai più.

Questo è stato certamente uno dei momenti più amari della mia vita, mio padre che voleva che fossi un rabbino vide che suo figlio non stava seguendo quella strada, e inoltre stavo andando a fare qualcosa di inappropriato come entrare nell’esercito. Mia madre, perché ero suo figlio e mi stavo allontanando praticamente dalla sera alla mattina e senza preavviso.

Ogni volta che ho difficoltà nel mio lavoro mi chiedo se ho agito bene in quel giorno amaro, quando sono uscito di casa con solo quello che avevo addosso. Il resto fu più facile, per così dire. Mi presentai nell’ufficio di reclutamento che avevo già individuato, e quando arrivai non ebbi alcuna difficoltà, mi dissero di aspettare qualche ora in modo che l’autobus che mi avrebbe portato alla base militare più vicina per effettuare il mio addestramento, si riempisse.

Mentre aspettavo vidi famiglie di ogni tipo, alcune orgogliose che i loro figli entrassero nell’esercito; altre tristi e dispiaciute per questo; c’erano anche quelli che non lasciavano andare il collo del loro figlio nel salutarsi, ma quasi tutti arrivavano con le loro famiglie tranne me.

Non rividi più i miei cari, nonostante fosse ciò che desideravo di più al mondo. Entrai nell’esercito proprio perché non gli mancasse nulla. Nel registro di arruolamento avevo lasciato istruzioni di inviare la mia paga ai miei genitori, qualcosa che sorprese l’ufficiale di reclutamento tanto che me lo fece ripetere tre volte.

A volte, nonostante tutto il tempo che è passato, quando ricordo questo evento della mia vita mi viene un nodo allo stomaco, dopo tutto, non sono sicuro che sia stata la scelta migliore!

Era certamente una soluzione l’unica che mi era venuta in mente all’epoca, ma che causò molta sofferenza, o almeno così credo, perché non ricevetti mai notizie dai miei genitori, anche se scrivevo loro quasi ogni settimana durante il mio addestramento.

Poi, quando ci trasferirono in Arizona ci dissero che non potevamo più farlo, perché era una base segreta e da lì non poteva entrare o uscire nessuna comunicazione.

Cosa sarebbe successo alla mia vita se fossi rimasto a casa? Probabilmente ora sarei un rabbino, mi prenderei cura della mia piccola comunità rispettando i precetti, e facendo in modo che gli altri li adempiano, rispondendo alle domande dei più inquieti e officiando le cerimonie per la comunità, una vita piena dedicata al Creatore.

E invece, quanto tempo sprecato cercando di dimostrare il mio valore davanti agli altri e a me stesso! Tempo passato lontano dalla mia fede, credendo in cose banali come la fortuna. È stato il mio viaggio particolare attraverso la vita, vagando da un luogo all’altro alla deriva, allontanandomi da tutto ciò in cui credevo senza altro scopo se non quello di rimanere in vita un altro giorno.

Ho fatto molti errori nella mia vita, alcuni senza rendermene conto, altri per mancanza di lungimiranza, ma il più grave senza dubbio, fu di entrare nell’esercito anche se, stranamente, il mio Creatore non mi ha abbandonato in nessun momento e mi ha protetto guidando i miei passi.

Adesso, col tempo, lo vedo chiaramente, altrimenti non sarei potuto arrivare dove sono. Nessuno avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe successo e anche se qualcuno si fosse impegnato perché accadesse, tutto quello era più che fortuna, molto più che il destino, erano i miei passi guidati.

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