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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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– Ha fatto bene! Ha ragione Lei, ma benone, tutto quello che desidera!

E di quanto giovamento ciò fosse lo si può di leggieri argomentare!

La mattina dopo, al letto del focoso amico, cui non era per il sonno ancora sbollita l'ira, mentre stava per alzarsi, si presentarono due suore, fra cui quella che era stata causa del chiasso. Ambedue gli porgevano dei panieri di frutta pregandolo da parte della madre superiora, che lo mandava a riverire, di accettare quel piccolo presente, chiedendogli in pari tempo scusa di avergli arrecato dispiacere e dello scandalo dato.

– Ma che scuse, ma che scandalo, ma che frutta! gridò l'amico, dolce come un'istrice e facendo l'atto di buttar all'aria ogni cosa.

Le monache spaventate posarono i panieri sul letto e fuggirono.

Poco dopo, radunati intorno al letto parecchi di noi ed acquetato il fegatoso amico, facemmo festa alle frutta, e mandato a prendere un fiasco di vino bianco, le inaffiammo a piacer nostro.

Per essere giusti però e per debito di storico fedele, debbo dire che ne fu offerto anche alle suore in segno di pace.

Dopo quella scena l'amico non aveva che da chiedere qualunque cosa volesse e gli veniva tosto concessa.

Dei feriti ricoverati a Sant'Onofrio molti versavano in uno stato gravissimo. Ricordo come ora un capitano romagnolo, uomo sulla quarantina: aveva una ferita alla gamba sinistra e non grave, anzi era prossima a cicatrizzarsi. Ma improvvisamente venne preso dal tetano. Due giorni interi spasimò orribilmente, aggomitolandosi e distendendosi, contraendo convulsivamente i muscoli del volto ad un terribile sorriso sardonico, mentre soffriva dolori d'inferno; finalmente il terzo dì soccombette.

Anche a lui fu fatta molta ressa perchè si volesse confessare. Morendo, dispose che i pochi suoi vestiari li avessero due garibaldini i quali lo avevano assistito. Fu un casus belli! Il regolamento dell'ospizio prescriveva che gli oggetti di vestiario dei morti restassero proprietà dell'Opera pia: il testamento quindi fu dichiarato nullo e l'amministrazione del pio luogo ebbe quei pochi cenci.

Questo individuo, pur troppo, posteriormente si scoperse che era indegno del nome e dell'assisa di garibaldino, perchè apparteneva ad una sètta sanguinaria. Fu certamente una disillusione crudele e però, tacendo della sua vita e avendo dovuto dire della sua morte, copro di un pietoso velo il suo nome.

Un altro ferito vidi io pure morire, ed era degno della più alta pietà. Era un giovinetto di poco oltre i quindici anni. Veniva, mi si disse, da Mantova, dove trovavasi in educazione in quel seminario, ed era fuggito per seguire Garibaldi.

Erano le prime armi che faceva, il poveretto, e furono anche le ultime. Vaneggiava; e più ancora che per la ferita gravissima d'arma da fuoco che gli passava il petto, morì delirante dallo spavento. Battutosi valorosamente alla baionetta ed atterrato da un avversario altrettanto forte quanto vile, venne preso di mira a bruciapelo, supino ed esanime e passato da parte a parte da piombo nemico, non so se italiano o straniero; forse è meglio ignorarlo. Al vedersi l'arma omicida puntata sul petto da quel vigliacco, il giovinetto, impotente a reagire, die' in un subitaneo delirio e perduto ogni sentimento, pazzo, fu trasportato all'ospedale e, pazzo di spavento e di dolore, spirò.

E ricordo pure un gentilissimo e biondo inglese, Scholey, cui si dovette amputare il braccio sinistro, operazione che affrontò colla maggior serenità fumando il sigaro e ringraziando il dottore. Mi richiamava il povero Maroncelli nello Spielberg. Ma poi per successiva irrefrenabile emorragia dovette soccombere.

L'amico Mosettig era stato collocato nelle sale a pianoterra assieme al Papazzoni. Io andavo quasi ogni giorno a trovarlo. Nella stessa stanza giaceva pure un giovane marchigiano, la cui ferita destava l'attenzione e l'interesse dei medici curanti perchè molto grave. Era una lesione alla vescica per arma da fuoco con permanenza del proiettile. Soffriva spasimi indicibili e la cura cui dovea sottostare, era oltremodo dolorosa. Eppure più tardi seppi che, partito in discrete condizioni, da ultimo era perfettamente guarito.

Al letto del Mosettig trovai più volte un monsignor Antici Mattei, prelato domestico, protonotario, canonico, ecc., e più tardi cardinale, in cui la vacuità del cervello era pari all'albagia. Costui, sedotto pur esso da quel benedetto nome di Colloredo, s'era fitto in testa di voler procacciare al Mosettig migliore trattamento e di ottenere che fosse trasferito in una casa privata. Vane essendo riuscite le pratiche presso il Comando militare, senza meno ei pensò di rivolgersi a Pio IX in persona, contrariamente al volere del Mosettig.

Pio IX che certamente ricordò l'accoglienza avuta dal Colloredo a S. Spirito, rifiutò qualsiasi concessione. Dolente il monsignore venne a riferire l'esito della sua missione, rimproverando al Mosettig lo sgarbo usato al Santo Padre e la irreligione dimostrata e non trovò migliore rimedio a tanto male se non, invitandolo dapprima e seccandolo dipoi in tutti i modi, perchè, confessato, facesse pubblica ammenda, in modo che il Santo Padre n'avesse piena soddisfazione; e andava ripetendogli:

– Io riferirò a Sua Santità il vostro pentimento! mi incarico io di portare a' suoi piedi la vostra umiliazione! Vedrete che senza dubbio allora egli si degnerà d'ascoltare le vostre suppliche e vorrà disporre per trovarvi un ricovero conveniente alla vostra condizione ed al vostro stato!..

Un ultimo contrattempo ebbe il Mosettig a patire, sempre in causa di quel malaugurato scambio di passaporto; ed anche allora, trovandomi per fortuna presente, fui io che in qualche modo lo salvai.

Venne un dì a trovarlo quel padre Colloredo che ho sopra ricordato, dei preti dell'Oratorio, un vecchietto, sulle cui spalle dovea certo gravare un secolo di carnevali.

Egli, che da molti e molti anni non avea riveduto il paese natìo, cominciò a tempestare il Mosettig di domande relative al casato ed ai parenti.

– Come sta mio nipote Girolamo? quanti figli ha? e il nipote Riccardo, e la Elisa? Vive ancora suo marito? E il fratello Giacomo? ed il nipote Martino? e il cugino Lucrezio?

Il Mosettig che non ne sapeva una maledetta di quel parentado, fingevasi aggravato dal male per non rispondere e, per il poco che ne sapevo, rispondevo io in sua vece, e, quando non sapevo nulla nemmeno io… inventavo. Dio sa qual bella famiglia di fratelli, cognati e nipoti gli avrò creato!

Col permesso del Comando superiore e debitamente accompagnati vennero in quei giorni parecchi forestieri a visitare l'ospedale e specialmente alcuni parenti dei feriti.

Tra i molti ne rammento uno che rappresentava non so qual società democratica o comitato dell'Umbria o della Romagna che fosse, e veniva per reclamare la salma d'un garibaldino morto pochi giorni prima. Quella società o comitato non potevano scegliere rappresentante più infelice!

Venne annunziandosi tout-bonnement per quello che era e non ricordo se recasse con sè anche coccarde o gonfaloni, ma è probabile.

C'è sempre un santo per gli imbecilli e infatti costui riuscì a trovare chi lo introdusse nello ospedale. Ci venne perchè, tornate vane le pratiche per esumare e asportare il cadavere, voleva ricuperare gli effetti di vestiario, e cioè una camicia ed un berretto logori e macchiati. Avrebbero servito, diceva egli, per i solenni funerali, che si stavano apprestando a quel martire.

– Vede, rispondevagli con un sorriso canzonatorio uno scaltrito cappuccino, vede, caro signore, le sembra, non dirò convenienza, ma elementare prudenza, di venire qui a Roma a nome dei framassoni a chiedere di queste cose?

– Ma che ne vogliono fare di quei due cenci logori e sudici? replicava insistendo in buona fede il malcauto ambasciatore.

– E che ne vogliono fare lor signori?

– Devono servire pei solenni funerali, replicava egli ingenuamente.

– Già: si apporranno sul feretro cogli strappi e le macchie di sangue in vista, su d'un catafalco in chiesa, e lì davanti ad una turba di vassalli e d'eretici che da anni forse non poser piede in un tempio cristiano, qualche tribuno indiavolato vomiterà bestemmie ed improperi alla religione, al Santo Padre, alla Chiesa. Abbia pazienza, caro signore, a Roma non si chiedono certe cose e ringrazi Domeneddio d'aver fatto capo a me anzichè ad altri.

Ma quel signore insisteva e per poco non perdeva le staffe. La sua domanda sembravagli tanto naturale! Partito il frate, non potei a meno di consigliarlo a far tesoro dell'ultimo avvertimento datogli. Ad insistere c'era di che farsi legare.

Ma egli ancora non era persuaso e non giurerei che tornato al suo paese, a proposito del consiglio da me datogli, non abbia esclamato: Col lupo si sta e col lupo si urla!

Fra le notabilità diplomatiche o militari venute a farci visita non va dimenticato il cavaliere della Vandea, il colonnello degli zuavi De-Charrette. Si intrattenne a lungo in conversazione col capitano Ronco, al quale rese ampia testimonianza del valore con cui si batterono i garibaldini.

Ci venne pure monsignor Ricci, governatore di Santo Spirito, proprietario del locale ove eravamo ricoverati, e già governatore d'Ancona nel 1861 all'epoca del fatto d'arme di Castelfidardo. Costui era un furbacchione matricolato; bastava parlare con lui per avvedersene. Fu, credo, l'ultimo dei governatori dell'opera di Santo Spirito ch'era un tempo ospizio ricchissimo.

Monsignor Ricci aveva un figlio, un giovinotto che morì, se ben ricordo, nel 1872. Faceva parte della guardia nazionale a cavallo, corpo scelto fra il fiore dell'aristocrazia danarosa di Roma. I suoi commilitoni, dalla splendida montura e dagli stupendi cavalli, gli fecero corteo funebre brillantissimo. Credo anzi che un tal fatto per la sua pubblicità abbia poscia di molto raffreddato i rapporti dell'Eminentissimo padre con Sua Santità.

 

Un giorno, nelle sale si presentò una dama francese accompagnata da una suora e seguita da un servitore in alta livrea che recava biancheria, indumenti, sigari e dolci. Essa sembrava molto interessarsi ai casi nostri, e la suora le accennava quelli fra i nostri che erano più bisognosi di vestiario. Passando vicino a me ed avendole io risposto in francese che per il momento di nulla avevo bisogno:

– Coraggio, ragazzi, coraggio! replicò sottovoce in buonissimo italiano, e mi diè una stretta di mano lasciandovi cadere alcuni sigari, poi continuò disinvolta a fare la francese.

Non credo però che la sua parte le sia riuscita fino in fondo, perchè più tardi la vidi alle prese colla madre superiora generale, che gentilmente volea persuaderla, poichè avea fatta la sua distribuzione, a voler lasciare l'ospedale. Chi fosse quella signora non mi fu dato di sapere neanche dopo.

Un'altra invece venne col proposito deliberato di far la missionaria, come faceva Monsignor Talbot, e regalava a tutti libri di devozione, medagliette, Agnus-Dei. L'istituto De propaganda fide avea così fra noi per rappresentanti Monsignor Talbot… e la sua signora. Quale fine abbiano fatto quei libri ed amuleti sarebbe stato piacevole indagare. Per me, so benissimo qual fine fecero i sigari della mia francese, che furono davvero eccellenti.

Il fumare era libero. Si fumava anche alla domenica mentre il prete in mezzo alla crociera celebrava la messa: condiscendenza, per dir vero, a quei tempi, in un ospedale di Roma quasi incredibile. L'abitudine da soldatacci in taluni di pipare e fumare eternamente era però tale che in quel luogo diventava addirittura crudeltà. Si fumava, si beveva e si rideva infatti senza scrupolo veruno, mentre avevamo vicini compagni di sventura che gemevano e morivano.

In brevi giorni pur troppo s'era ridotti a tal punto! L'egoismo in date circostanze diventa sovrano ed il cinismo non ha limiti. Entrambi sono frutto dell'abitudine e l'abitudine è presto contratta nelle circostanze della vita in cui la necessità si impone e diventa legge. Io che rabbrividisco vedendo del sangue e cui la vista d'un cadavere fa ribrezzo, allora assistevo impassibile alle operazioni chirurgiche, e rammento d'avere, come se nulla fosse, pranzato accanto ad un letto sul quale giaceva un misero compagno spirato appena da pochi minuti!

Le lettere che ricevevo da casa, non mi pervenivano più col visto del general Zappi, ma chiuse e suggellate; e questo mercè la gentilezza d'un prete, il cui nome mi è obbligo di segnalare in questo libro, chiudendo col suo ricordo il breve racconto di questi episodi di prigionia.

Era monsignor Giovanni Biffani, già canonico di Santa Maria in Trastevere ed ultimamente cappellano al collegio militare. Parecchi anni or sono, vidi, con sincero rimpianto, annunciata la sua morte dai giornali; posso quindi scrivere di lui liberamente.

Era un giovane sacerdote di cultura ed intelligenza distinte. S'era trovato prete e prete in Vaticano presso Pio IX, perchè figlio d'un famigliare del papa fin da quando era semplice vescovo d'Imola. Pio IX intese beneficare il fedele domestico concedendo un canonicato al figlio maggiore ancora in tenera età, e gli è perciò che il Biffani fu prete.

Quando la capitale era ancora a Firenze, erano state notate in un diario fiorentino certe corrispondenze da Roma, che contenevano notizie molto esatte e particolari molto intimi della Corte del Vaticano. I sospetti caddero su monsignor Biffani, e non potendosi o non volendosi fare lo scandalo d'una espulsione, si ricorse al mezzo tradizionalmente sbrigativo, già altre volte usato in Vaticano, il veleno!

Monsignor Biffani prima di coricarsi avea l'abitudine di bere una tazza di consommé. Una sera, essendo rincasato piuttosto tardi e sentendosi stanco, andò a letto senza sorbire la solita tazza che ordinariamente gli veniva lasciata sul tavolo del salottino d'ingresso. La bevve invece suo padre l'indomani, e poco dopo morì.

Fu eseguita una segreta inchiesta e fu accertato il colpevole nella persona d'un prete che dimorava prossimo al Biffani ed era anzi in comunicazione di casa. Fu istruito un processo segretissimo, dal quale risultò che i tentativi d'avvelenamento erano stati fatti più volte e non si limitavano alla sola persona del canonico. Il reo fu condannato a vent'anni di galera, e del fatto fu severamente proibito far parola.

Monsignor Biffani ragionava spesso con me, e più liberamente che con altri, delle speranze e delle aspirazioni nostre; confortava i prigionieri garibaldini, li incoraggiava, li assisteva ed i deboli sorreggeva, aiutandoli a camminare. Le sue attenzioni furono ben presto notate e dopo un primo rabuffo inflittogli d'ordine superiore da uno dei frati soprastanti, fu finalmente bandito dall'ospedale. Ciò fu però dopo la mia partenza ed egli stesso mi diede la notizia per lettera.

Io, il Mosettig ed altri ancora gli consegnavamo le nostre corrispondenze, perchè le impostasse al coperto dagli occhi della polizia ed egli, per maggior sicurezza ancora, a tutte imprimeva il bollo della segreteria del Capitolo di Santa Maria in Trastevere. Le lettere per noi venivano dai parenti nostri a lui dirette ed egli fedelmente ce le portava premuroso.

Nel 1870, quando ritornai a Roma, non sapendo ove dimorasse, impostai un bigliettino diretto a monsignor Biffani canonico in Santa Maria in Trastevere. Gli chiedevo se si ricordava ancora di me e gli domandavo il suo indirizzo perchè l'avrei veduto molto volentieri..

– S'io mi ricordo di lei! risposemi; ella favorirà domani a pranzo in casa mia, via della Lungara, alle ore 6.

Ci andai, mi fece mille feste, mi fe' trovare a tavola con alcuni patrioti di Roma e tutti insieme, si ricordarono con commozione i giorni passati.

Il canonico Biffani ebbe dalla corte papale vessazioni d'ogni sorta, a cominciare dalla revoca del titolo di monsignore fino all'ultimo e più feroce affronto al suo cuore di figlio, la grazia cioè accordata, dopo soli tre anni, al prete omicida.

Costui continuò a vivere in Vaticano, mentre al Biffani, dopo sì feroce insulto, non si lasciò nemmeno la soddisfazione d'andarsene da sè, ma fu bandito.

Monsignor Biffani morì consunto parecchi anni or sono, come dissi, ed io pago un debito di gratitudine ricordandolo in questo scritto.

Il prete malfattore credo invece che viva tuttora. Venne però cacciato di Vaticano da papa Leone perchè all'epoca d'un pellegrinaggio spagnolo fu scoperto a trafficare in reliquie false21.

XIV.
Partenza

Due o tre giorni prima della nostra partenza un frate francescano volle tentare per un'ultima volta di convertirmi, di farmi fare la confessione generale e la comunione. Chi ve lo spingeva, era un conte, guardia nobile del papa, al quale io era stato raccomandato da un suo parente per lettera, non tanto, diceva questa, per i bisogni materiali, quanto per le occorrenze spirituali.

Questo conte venne a trovarmi, ma non ebbe il coraggio di fare in persona prima l'apostolo e perciò ne aveva incaricato il padre francescano.

Avevo allora diciannove anni ed uscivo di recente da un convitto diretto da religiosi ove ero stato otto anni. L'impresa del padre cappuccino non sarebbe stata quindi per sè malagevole. In circostanze normali e richiamando i ricordi del collegio, il confessarmi e comunicarmi avrebbero rappresentato nulla più che l'adempimento d'una pratica di religione. Nelle condizioni d'allora invece sarebbero state una confessione di resipiscenza, una vera ritrattazione del mal fatto. Per questo io non volli saperne. Si voleva operare su di me una conversione per poi forse menarne vanto e gridare al miracolo; ed io non intendevo prestarmi a simile chiasso menzognero.

Il padre francescano ricorse a tutti gli argomenti d'una sconclusionata dialettica per indurmi a fare quanto non volevo, e fra l'altre cose tentò di incutermi almeno un'oncia di rossore per trovarmi in quello stato ed in mezzo a quella compagnia di vassalli, com'ei li chiamava.

Per far comprendere quest'uscita del frate, m'è forza accennare ad un fatto spiacevolissimo e per noi doloroso accaduto il giorno prima nella corsia.

Alcuni nostri prigionieri che erano degenti allo spedale, perchè affetti da febbre o da altra malattia, guariti che furono, ad evitare il ritorno nelle carceri, cercavano di rendersi utili aiutando gli infermieri, assistendo i compagni feriti, prestandosi alla distribuzione del vitto, al riassetto delle corsie. La Direzione e la Polizia chiudevano un occhio e lasciavano fare.

Uno di questi però, che era forse il più sollecito ed il più mattiniero e non isdegnava rendere anche i più bassi servigi con una abnegazione veramente mirabile, fu notato che bazzicava frequentemente al letto di un ferito il quale, per la immobilità cui era condannato, da noi si giudicava gravissimo. L'osservazione a lungo andare sì mutò in sospetto, che comunicato di bocca in bocca assieme a qualche tacito lagno, pervenne all'orecchio di uno dei gendarmi di guardia. Questi, in un momento in cui il compagno sano adempiva i soliti uffici, ordinò agli infermieri di mutar posto al ferito, poi fece rovesciare il materasso e nel saccone si trovarono pur troppo parecchi oggetti stati involati di sotto ai guanciali dei compagni mentre dormivano.

Inutile dire l'indignazione generale. Tutti protestammo di non voler più per compagni quei due, ed infatti poche ore dopo una vettura della polizia li trasportava altrove.

Il padre Francesco alludeva a questo fatto quando deplorava la mia condizione. Gli risposi che ogni regola ha la sua eccezione. Anche tra gli apostoli vi fu un Giuda e Cristo morì pur esso fra due ladroni senza che ne fosse per ciò disonorato!

Il frate inorridì della risposta e del paragone, mi trattò da bestemmiatore e disperando di riuscire a nulla, desistette dalle inutili sollecitazioni.

Se i connotati avuti non sbagliano, questo frate stesso pochi anni di poi fece più che insistenza, quasi violenza per poter assistere al suo letto di morte Urbano Rattazzi, di cui era conoscente ed amico. Non ricordo se riuscisse nell'impresa, nè se con l'illustre uomo di Stato i suoi tentativi abbiano avuto miglior fortuna che con me.

L'ordine per la partenza nostra venne alla sera e si estendeva a tutti quelli la cui condizione di salute permetteva il viaggio.

Dei vicini nostri partivamo io e il Bassini. Questi era allora in buone condizioni. Più tardi invece le ferite gli si riaprirono e sofferse una lunga e penosa malattia. Le bajonette gli avevano forato un intestino.

La nostra partenza fu motivo di grande accoramento e di dolore per gli amici costretti a rimanere. Il capitano Ronco, la ferita del quale in quei giorni avea assunto aspetto cancrenoso, quando ilare e contento lo salutai facendogli coraggio:

– Addio, addio, mi disse; non ci rivedremo più, sai.

– Perchè?

– Perchè io non uscirò di qui che per andare a Campo Verano!

Baciai tutti gli amici, ci scambiammo vicendevolmente promesse ed auguri, salutammo con vera effusione d'affetto il buon capitano Galliani, ringraziammo i medici, e allegri come andassimo a nozze lasciammo l'ospedale per andare in patria.

Invece andavamo a… Castel Sant'Angelo!

Attraverso corridoi, scale ed androni, a suon di chiavacci e di cancelli arrugginiti, fummo introdotti in uno stanzone lungo e buio, difeso dal freddo e dall'umido della notte con impannate di tela e lungo il quale in terra era disposta della paglia con dei sacconi.

Al lume delle fiaccole rividi il Campari, il Colombi e il Fiorini, i tre compagni che vollero rimanere nella vigna per curare i feriti, restando così prigionieri volontari, i fratelli Rosa di Bergamo ed altri che non ricordo.

Nella stessa prigione stavano pure molti fra gli arrestati della città. Ce n'era d'ogni condizione. C'era pure un clown di compagnia equestre che ogni tanto per tenersi in esercizio dava spettacolo di salti e capriole. Costui stette in prigione fino al 1870 e appena liberato ritornò al primitivo mestiere. Il poveretto finì più tardi la vita in un ospedale di Bologna, cieco d'ambedue gli occhi.

 

Rivedere i miei buoni amici fu per me somma consolazione; e in quella sera, per quanto ci fu permesso dalla presenza dei secondini e dei custodi, ragionammo a lungo dei casi nostri e delle passate traversie.

Essi però erano più al corrente che noi di notizie, perchè le avevano giornalmente dall'Osservatore Romano, che un secondino recava loro piegato nelle fodere del suo berretto. Per questo incarico (del resto abbastanza arrischiato) veniva retribuito con una lira per ogni copia.

Un pensiero ci angustiava, che con noi non ci fosse Giovannino, ancora detenuto alle Carceri Nuove, e pensavamo che forse il Governo papale volesse fare di lui un martire, lasciandolo soffrire chi sa per quanti anni in segreta.

Quella notte non dormii, e nemmeno i miei compagni. Si sapeva di dover partire, si vegliò tutti al buio.

A notte inoltrata, i chiavistelli delle porte girarono e comparvero finalmente alcuni secondini con torcie e con lumi. Fra questi se ne notava uno vestito da zuavo, aitante della persona e giovane ancora, ma inerme. Costui trasportò in braccio fino al basso il Bassini e qualche altro che non reggevasi in gambe, come avesse portato sacchi di piuma. Mi fu detto che era notissima spia, famigerato sicario e arnese segreto della polizia e che era riuscito colle sue arti a darle in potere parecchi compromessi politici. Vociferavasi ch'egli, unico in tutto il presidio, avesse l'accesso da Castel S. Angelo al Vaticano per il noto passaggio segreto riserbato ai pontefici in caso di cataclismi, e ciò perchè non s'arrischiava ad uscire in città, non essendo sicura la sua pelle se poneva piede fuor delle inferriate del Castello. Di là dirigeva con acutezza di vero cagnotto le sue operazioni di gran mastro caccialepre.

Da Castel S. Angelo alla stazione marciammo a piedi al chiaror delle fiaccole. Era notte inoltrata e si traversò tutta Roma senza incontrare anima viva.

Qual triste senso avrà dovuto fare un corteo simile, di notte, per quelle strade ove, anzichè prigionieri, due mesi prima speravamo di passeggiar trionfatori!

Ma scommetto che quest'antitesi abbastanza dolorosa non ad uno dei nostri in quella notte passò per la mente. Il miraggio dell'imminente libertà e la certezza di rivedere fra brevi ore la famiglia era in quell'istante l'unico nostro pensiero.

Il treno che doveva portarci al confine fu scortato da soldati francesi.

A Civitavecchia ci arrestammo a lungo per attendere altri prigionieri provenienti da quel bagno: una torma di infelici, scarni, pallidi, smunti, abbattuti, veri pezzenti. Furono caricati in vetture di terza classe e stipati come le bestie. Anche fra loro ritrovai degli amici, Alberto Ceresa, Silvio Andreuzzi, Carlo Marzuttini ed altri.

Un ufficiale francese della nostra scorta, avendo riconosciuto a quella stazione un altro ufficiale suo amico della legione d'Antibo, che gli chiese dove andasse, rispose che veniva fino alla frontiera a scortare cette canaille. Un capitano dei nostri l'udì, lo apostrofò come si meritava e credo ne seguisse una sfida. L'aspetto nostro esteriore però non dava tutto il torto al vocabolo.

Al confine trovammo un altro inciampo. Il treno pontificio dovea retrocedere, ma il treno di ricambio da Grosseto non era ancora arrivato.

Bisognò attenderlo più ore in rasa campagna con un freddo ed un vento micidiali. E ciò naturalmente fu causa che noi mandassimo le ultime nostre benedizioni al governo italiano, il quale appena arrivati al confine ci dava tosto un saggio del suo buon ordine!

Ora, a pensarci bene, si direbbe: che c'entra il governo colle ferrovie? ma allora si ragionava così.

A Grosseto si sostò per pernottare.

Era prefetto il commendator Homodei, un pavese, gentilissima persona. Il Campari e il Bassini, suoi compatrioti, lo conoscevano e perciò fummo ospitati da lui. Alla sera ci trovammo tutti assieme ad una trattoria e si fece onore a parecchi fiaschi di ottimo Chianti.

Chi mi crederebbe se volessi asserire d'aver serenamente e da me solo trovato in quella sera la strada per giungere al soffice ed elastico letto della Prefettura?..

Finora dissi intera la verità, e però una bugia all'ultimo guasterebbe ogni cosa.

L'indomani io abbracciava i miei cari!

21Dell'autenticità di questo episodio posso farmi garante, essendomi stato narrato, oltrechè da parenti strettissimi del Biffani (credo tuttora viventi), anche da persone certamente non sospette di partigianeria liberale.