Kostenlos

Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

Text
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

VII.
In marcia

A Terni ci erano stati mandati da casa i quattrini di cui abbisognavamo, e così potemmo dare un po' d'assetto anche al nostro abbigliamento.

A me era indispensabile sopra tutto mutar copricapo, giacchè quel maledetto gibus combinato collo stifelius nero m'aveva ormai reso la tavola di tutta Terni. Combinai ogni cosa provvedendomi d'un caschettino ungherese che mi venne dato come impermeabile all'acqua, perchè spalmato d'una specie di catrame. Lo era infatti anche troppo, perchè durante la marcia sotto gli acquazzoni raccoglieva entro l'ala rimboccata all'insù l'acqua come entro una vaschetta, ed ogni tanto dovevo levarmelo per vuotarlo. Mutai pure di calzatura sostituendo agli stivalini verniciati un paio di scarponi. Io credetti far meglio prendendoli comodi e ne portai poi la pena nei giorni seguenti, perchè marciando m'impiagarono le piante dei piedi.

La mattina del 20 si seppe ch'era ritornato Enrico e che probabilmente la sera si sarebbe partiti. Tutto quel giorno fu speso nell'equipaggiarci alla meglio cercando colle coperte di supplire alla mancanza di zaino ed adattandovi dentro quanto ci poteva occorrere per viaggio. Vi fu chi si provvide dell'indispensabile borraccia, altri si fabbricò il tascapane, ciascuno pensò per sè senz'aiuto nè di capi nè di comitati.

La sera alle sette tutti dovevamo trovarci nella casa del sig. Frattini, egregio patriota di Terni.

Non uno mancò. Amici ed avversari narrarono che cento erano stati i designati per la spedizione, ma che poi si ritenne conveniente limitarne il numero. Questo particolare non ricordo. Ma Giovannino Cairoli nel suo libretto La spedizione dei Monti Parioli dice invece che il numero dei componenti la banda fu fissato a sessanta, corrispondente al numero dei revolvers che si avevano a disposizione, e che in appresso la banda s'aumentò d'una quindicina.

Benchè s'andasse incontro non solo all'ignoto, ma ad un ignoto di probabilità ben terribile, pure tutti in quel giorno si era allegri e contenti.

La sera al crepuscolo la musica suonava la ritirata sulla piazza di Terni e ritornando alla caserma intonava la canzone: Andremo a Roma Santa! tutti facevan coro cantando con entusiasmo.

Poco dopo si era tutti pronti all'appuntamento: fu allora il momento in cui ci si potè riconoscere e numerare, e divenimmo tutti amici all'istante. Il nome di ognuno di noi rimase scolpito nella memoria e nei cuori di tutti gli altri: le fisonomie, il tempo o la morte le hanno in gran parte pur troppo cancellate.

Venne fatta la distribuzione delle rivoltelle e ciascuno s'adattò la propria alla cintura. Poscia Enrico, intimato silenzio, disse:

– Prima di partire debbo dirvi due parole. Noi partiamo per una impresa, più che arrischiata, disperata. Una volta entrati nel confine, tenetelo bene a mente, non si torna più indietro. Ma ricordatevi pure che sulla vostra vita non dovete contar più nulla. Perciò, se alcuno di voi fosse indisposto o ritenesse opportuno cambiar pensiero, m'avverta; ciò non sarà un disonore; egli potrà far parte d'altri corpi e lo saluteremo con un arrivederci a Roma. C'è alcuno che vuol rimanere?

– No, si gridò tutti unanimi.

– Ebbene, vi avverto che ci toccheranno stenti, privazioni d'ogni sorta, dovremo marciare continuamente, forse non avremo di che nutrirci: non fa nulla, divideremo il tozzo assieme. Se io mi lamenterò, se mostrerò d'aver paura, se mi vedrete indietreggiare, datemi una revolverata nella testa; ma se alcuno di voi lo troverò vile, farò lo stesso con lui.

Un urrà di applausi accolse questa breve arringa, della quale volli recare il testo nella sua soldatesca semplicità, quale io lo ricordo a mente preciso da trent'anni ad ora e quale mi rimase e rimarrà scolpito nella memoria finchè avrò fiato.

E la gentile anima di Giovannino mi perdoni se delle parole del valoroso suo fratello io pubblico una lezione un po' diversa da quella ch'ei ci lasciò e che figura pure scolpita sulla base del monumento al Pincio. Il senso è perfettamente lo stesso, ma egli volle forse ingentilire la forma; io voglio invece evocare un ricordo, quale mi sta in mente e nel cuore da tanti anni e che non potrei mutare di una parola.

Se io avessi a dire da qual porta di Terni si uscì, direi bugia. Era buio e si camminava con molta circospezione; fuori di Terni si trovò un omnibus destinato, non saprei se quale ambulanza o qual riposo per turno a chi si sentiva stanco13. Probabilmente siccome la nostra marcia, nel timore che il nostro obbiettivo ci mancasse in causa della rottura della ferrovia di Orte perpetrata dal Ghirelli, doveva essere di molto accelerata, forse quell'omnibus fu cautela molto prudente perchè nessuno rimanesse addietro. Ma l'uomo propone e Dio dispone. L'omnibus ci precedette e noi marciammo dietro a due o a quattro, secondo che la strada permetteva. Si procedette per alquante ore con passo cadenzato e con sufficiente buon umore: dopo, il chiacchierìo cominciò a farsi più rado ed il passo si fe' più lento ed irregolare.

Enrico camminava, anzi correva da un capo all'altro della colonna e incoraggiava con dei: Bravi! bravi! così va bene! Ogni mezz'ora circa l'omnibus si fermava per dare il cambio e sull'ultimo della marcia era preso d'assalto con furore; a tal punto che finalmente una ruota si fracassò, e così il primo a rimanere addietro fu il veicolo dell'ambulanza; le prime marcie infatti sono terribili e ben pochi resistono al dolore acuto delle piante ed al rodimento prodotto dalla calzatura, specialmente se bagnata.

La prima tappa che si fece fu a Configni: era notte buia e non si distingueva se fosse un paesetto od un semplice casolare.

La sosta fu brevissima. Rimessici in cammino all'alba, si cominciò a distinguere la strada che si batteva. Ora si camminava lungo la costa d'una collina, ora si scendeva in una vallata, sempre si aprivano nuovi prospetti, nuove gole, nuove colline, ma l'aspetto del luogo complessivamente era tetro e selvaggio. Rarissima qualche casa, la più gran parte boschi e prati. Segni di coltivazione scarsissimi: comprendevo allora il brigantaggio.

Un'acquerugiola fredda e sottile come nebbia ci penetrava fin all'ossa l'alba del 21; finalmente dopo ore ed ore di cammino senza l'incontro d'anima viva, ad una risvolta c'imbattemmo d'un tratto in un carrozza tirata da due cavalli. La vettura sostò e sostammo noi pure per circa un'ora. Enrico e Giovanni s'intrattennero a parlare col forastiero ch'era in vettura, ed intanto noi ci sparpagliammo lungo un torrente e sdraiatici sui sassi, cercammo un momento di sonno che fu molto breve, troppo breve.

Pioveva, e per non bagnarci e star caldi ci sdraiammo a terra in gruppi di cinque o sei, tutti colle teste in un punto e colle gambe all'infuori come una stella. Sulle teste si buttò una coperta.

Nulla si seppe di quel che i capi si dissero. Quando la carrozza parti io chiesi ad uno dei miei compagni:

– Chi è quel signore?

– È il principe di Piombino, mi rispose.

– Davvero?..

– Sì, mi confermò un altro, è un principe liberale, è dei nostri.

Ora soltanto dopo tanti anni apprendo dall'opuscolo di Giovannino che egli era il sig. Luigi Cucchi ora deputato e fratello all'onorevole senatore Francesco. Io non lo impugno certamente, ma per me quel signore è e sarà sempre il principe di Piombino: il mio ricordo è tale; nè io mi proposi di scrivere della storia ma solo di narrar ricordi ed impressioni.

Tanto al principe che all'on. Cucchi chieggo scusa dello scambio. Al postutto cospiratori e principi non è detto che siano sempre stati in antitesi.

Verso il mezzogiorno circa s'arrivò a Cantalupo.

Era un paese di costruzione singolare: un perfetto rettangolo con una piazza nel mezzo e due porte ai due lati minori. Sembrava il cortile interno d'un palazzo o d'un convento. In tempo antico doveva essere una sola proprietà, forse un castello14.

Quivi si sostò e più ancora che a rifocillarci, si pensò a riposare. Fu allora che un compagno mi giocò un tiro atroce. Mi ero con somma cura composto un giaciglio di paglia nell'angolo d'una stanza e gustavo già sovr'esso i primi momenti d'un sonno profondo e riparatore, allorchè costui che tornava allora dal rapporto del comandante, invidiandomi tanta felicità, mi chiamò ad alta voce scuotendomi.

– Che vuoi? gli chiesi tutto indolenzito e rabbioso.

– Il comandante ti vuole!

– Chi?

– Il comandante Enrico ti vuole.

– Me?

– Te, sì, e fai presto che t'aspetta.

Balzai in piedi e barcollando andai dal comandante che stava dalla parte opposta del paese.

Enrico non si era mai sognato di domandare di me e quando ritornai scornato per la burletta, trovai l'amico sdraiato sul mio giaciglio che russava placidamente. L'avrei preso a pedate!

A Cantalupo era passata poco prima una colonna di garibaldini. La nostra quindi al suo arrivo trovò, in fatto di cibarie, poco meno che tabula rasa. Nondimeno approfittammo largamente di un bettolino di liquori e parte al bettolino, parte nelle case, ognuno trovò di che ristorarsi.

 

L'amico Tabacchi, pochi anni or sono, mi ricordava il suo desinare di Cantalupo in casa di uno di quei terrazzani e come l'appetito eccellente gli fosse ottima salsa alle povere vivande. Parecchi anni di poi, il collegio di Mirandola mandò, e meritamente, il Tabacchi a sedere a Montecitorio. Chi primo si ricordò di lui e suppose d'avere un valido appoggio presso il Governo, non furon già gli elettori, fu l'anfitrione di Cantalupo, il quale gli diresse una lettera pregandolo perchè gli ottenesse dal Governo un sussidio per restaurare la cadente sua casa, quella casa che nel 1867 aveva avuto l'onore di ospitarlo.

Ecco un nuovo patriota che per il paese aveva sacrificato… un desinare; e in benemerenza domandava una casa! Almeno costui era ingenuo nel chiedere! Quanti anfitrioni di Cantalupo non vi furono invece astuti nell'ottenere, e forse con meriti ancor minori dell'olocausto d'un desinare!

Alle tre pomeridiane fummo chiamati a raccolta in una chiesa, ove ci venne distribuita una lira a testa. Fu quello l'unico danaro che io percepii nella piccola campagna; e quando più tardi, nell'ospedale di Santo Spirito a Roma, un prete mi compassionava dicendomi:

– Povero figliolo, che colpa ne avete voi? Vi han dato in mano un fucile, vi han mostrato i baiocchi, e voi siete venuto avanti – gli chiesi quanto percepiva egli dalla celebrazione di una messa.

– Due lire, mi rispose.

– Vede? gli replicai. Io fui ben più discreto di Lei. Per mezz'ora di tempo impiegato in preghiere Ella prende due lire, io per giocarmi la vita, non ne ebbi che una.

Schieratici alla meglio nella chiesa, Enrico diede ordine al signor De Verneda di leggere il seguente ordine del giorno che, mentre ribadiva nella stessa forma i concetti del discorso tenutoci il giorno innanzi, provvedeva all'organizzazione del nostro piccolo esercito.

Eccolo:

«Amici!

«È prossima l'ora nella quale ci bisognerà provare che noi sappiamo operare. Per riuscire dobbiamo essere ordinati, cioè dobbiamo cercare di essere in condizioni tali da permettere la maggior concentrazione e la maggiore dilatazione delle nostre forze a seconda del terreno che dovremo attraversare. Perciò ho stabilito che la nostra piccola banda si ordini nel modo seguente:

«Un comandante, Enrico Cairoli; un aiutante, Ermenegildo De Verneda; un furiere, Giusto Muratti; tre comandanti di sezione: sezione 1ª, Giovanni Tabacchi; sezione 2ª, Cesare Isacchi; sezione 3ª, Giovanni Cairoli. Ogni sezione comprenderà cinque squadre, ciascuna composta di quattro uomini e di un capo.

«Amici, ancora una volta è mio dovere ricordarvi che l'impresa è difficile, più che arrischiata, disperata. So il vostro valore. Non parlerò a voi del pericolo, della stanchezza estrema che avremo a patire. Ma se qualcuno di voi, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, non intende seguirci, lo dichiari francamente, tanto più ch'egli avrebbe il rimorso di recar danno al nostro tentativo. Chiunque è indisposto o avesse malati i piedi è obbligato a non celarsi, perchè guai a lui se persistendo la sua indisposizione si aggravasse, quando saremo sopra altro terreno. Bisogna che egli scelga un cammino diverso, e noi lo saluteremo dicendogli: Arrivederci a Roma!

«Alle quattro si marcia. Il signor Stragliati è addetto ai carri».

Quest'ordine del giorno Enrico l'aveva concertato coi capi sezione e scritto mentre noi si riposava.

Si riprese la marcia. I quattro uomini che col rispettivo caporale costituivano ogni singola squadra erano numerati: dopo il capo squadra veniva il numero uno, poi il numero due, il tre, il quattro, numeri che costituivano, per così dire, l'anzianità nel comando. I capi squadra avevano per unico distintivo un fischietto, che doveva servire ai segnali. Non so quanto realmente in atto esso abbia servito.

La marcia fu rapidissima, benchè molestata dalla pioggia; fu aiutata però da taluni veicoli ed anche da qualche cavalcatura. Il tutto assieme era molto bizzarro: marcia rapida a passo di carica, parte a piedi, parte in carretto, parte a cavallo, alcuni in giacca, altri in cappotto, altri in pastrano, chi col bonnetto, chi col cappello!

A notte inoltrata si era a Ponte Sfondato, che credo fosse un cascinale isolato. Lì trovammo dei militari nostri e poco mancò non li attaccassimo, ritenendo che vi fossero per arrestarci. Ma poi si riconobbe che si trattava di un distaccamento il quale non aveva alcun ordine in proposito. Anzi l'ufficiale che lo comandava fu con noi gentilissimo.

Il malanno più grave diventò allora per noi quello dei viveri. Trovandovisi già accampata la truppa, ben poco vi si rinvenne da ristorarci; ed al banco del misero botteghino che c'era, fu una ressa indiavolata a chi arrivava primo. Ma con gli spintoni e le gomitate sangue da un muro non si cava di certo, e il botteghino in poco più di due ore fu letteralmente depredato, senza che perciò il nostro appetito fosse sazio.

Ci minacciava davvero la sorte del Conte Ugolino a due passi dal confine, quando un lampo di genio di uno di noi venne in soccorso a tutti. In quella bettola ci restava ancora in un angolo un mezzo sacco di riso. Rimboccate le maniche e fatto grembiale d'una tovaglia, il compagno nostro si mise a far da cuoco e in men di mezz'ora l'intera colonna faceva onore ad un risotto improvvisato che per la circostanza e per l'appetito restò fra noi memorabile.

A Ponte Sfondato si potè riposare un po' meglio che a Cantalupo.

La mattina si marciò per Passo Corese.

In vicinanza del confine si fece alt, e si passò il ponte della ferrovia alla spicciolata fino ad un casolare isolato che pareva servisse ad uso di stalla. Ma prima d'attraversare il ponte Giovannino schierò la sua sezione (alla quale io pure appartenevo) davanti a sè e volle farle la sua parlatina, che riferisco pur essa nella sua originalità:

«Amici, entriamo ora nel territorio nemico e speriamo che questa giornata sia per essere a noi fortunata e gloriosa. Io desidero che noi ci trattiamo tutti come fratelli, e però permettete che fin d'ora io dia a voi del tu, e vi prego di fare anche voi lo stesso con me15.

«A qualunque evento si vada incontro e qualunque cosa possa accadere, voi sapete che delle disgrazie saranno inevitabili. Ma siccome il buon ordine vuol essere sempre mantenuto in qualsiasi frangente, ricordatevi che restando ammazzato (disse proprio così) o ferito alcuno dei capi, prende il comando quello che immediatamente per numero gli vien dopo. Quindi, se restassi ammazzato io, prenderà il comando della sezione il capo della prima squadra e capo di questa resterà il numero due; se resta ucciso il numero due, comanderà il numero tre e così via per ogni squadra».

Sono le sue precise parole e furono dette da lui colla massima calma e colla dolcezza di voce sua abituale, sicchè mi fecero forte impressione. Questo parlare della propria morte e di quella dei compagni con tanta serenità e calma, come se si trattasse di un ordine da darsi per una partita di caccia, e il parlarne come di cosa imminente e che forse poteva accadere in quel giorno stesso, mi mise in corpo un lieve tremito che potea dirsi anche paura.

È inutile dissimularlo! Un uomo è uomo, e sono ben pochi che abbiano il coraggio volgarmente detto del sangue freddo. Chi non fu mai esposto al fuoco, se ha, lontano dal pericolo, il coraggio a parole, quando s'avvicina al fatto e quando è al fatto stesso, prova nel primo momento un senso istintivo di terrore che lo invade tutto. I primi colpi di fuoco sono sempre terribili e sono quelli che provano i coraggiosi ed i vigliacchi. Dopo, nel furore della mischia, anche un vile può avere il suo pazzo coraggio; ma è nella resistenza alla prima impressione che sta la vera prova. L'istinto non si distrugge, e però chi prova terrore al fuoco e vi sta esposto inchiodatovi dal sentimento del dovere, quegli è un eroe. Chi si ubbriaca d'esaltazione, gridando e smaniando, è come colui che si alcoolizza per prender forza. Le battaglie si vincono più con la resistenza passiva che col furore dello attacco.

Giunti che fummo allo stallaggio o casolare di Passo Corese, s'andò tutti a finire nelle mangiatoie, cercando di rifarci là dentro degli arretrati del sonno.

Ma anche qui io fui sfortunato più ancora che a Cantalupo.

D'improvviso il comandante chiamò il furiere e gli ordinò che prendesse le sue disposizioni, perchè erano giunti trecento fucili, e si doveano scaricare e portare, con le relative munizioni, in una barca. Non ricordo quali disposizioni il furiere prendesse; ricordo bensì che una delle prime sue vittime fui propriamente io.

Non me ne lagnai però. Avevo preso a fare religiosamente il mio dovere, ed anzi rammento ancora con un po' d'orgoglio che di nessuno dei mezzi di trasporto che avevamo a nostra disposizione lungo la marcia, io volli mai approfittare! D'altronde ero il più giovane: era troppo giusto che cedessi i comodi ai più anziani d'età.

Confesso però che la fatica di quel trasporto mi riuscì penosissima. I fucili si portavano a fasci di quattro o cinque con la baionetta rivolta all'in giù. Pioveva nuovamente, e l'acqua mi penetrava fin nelle midolla attraverso il logorato mio stifelius d'estate. In terra c'era una mota argillosa appiccicaticcia, che rendeva fastidiosamente faticoso il camminare. La fretta, il peso dei fucili che male stavano uniti assieme e sfasciandosi e cadendo colle baionette sfregiavano le mani, il cammino malagevole oltremodo, formavano un insieme di tali difficoltà, che mi facevano sudare goccioloni caldi, mentre la pioggia mi agghiacciava e mi attaccava i panni alla pelle.

In vita mia non credo di aver sopportato mai fatica più ingrata.

Mentre si eseguiva tale operazione e la pioggia continuava a flagellarci, m'avvidi nel rimettere i fucili al battelliere che sull'opposta riva del fiume era accorsa gente la quale riparata da ombrelli stava spiando quello che noi facevamo. Incontanente al mio ritorno ne feci avvertito Enrico il quale accorse a vedere. Ma quando egli arrivò sul posto, erano tutti spariti.

Che costoro abbiano contribuito a far abortire il nostro tentativo avvisando il comandante del presidio di Roma?.. chi lo può sapere? È però certo che l'indomani il capitano Cialdi dell'esercito pontificio ordinava di spazzar via tutte le barche del fiume a monte di Roma.

La barca nella quale collocammo i nostri fucili era un ampio barcone di quelli che portano legna da fuoco in Roma. I fucili furono allogati nella stiva stessa e in parte fra le cataste della legna.

Di sommo aiuto in quest'opera d'imbarco ci furono Angelo Perozzi, già conosciuto a Terni e nostro compagno d'armi, e il ricevitore doganale Buglielli, romano, che rividi tre anni di poi a Napoli. Allora mi confessò che quando ci vide partire, egli, che conosceva i concerti e le intelligenze prese con Roma, guardò trepidante l'orologio e battendosi la fronte esclamò addolorato: «Dio faccia che arrivino in tempo, ma temo che sia oramai troppo tardi!»

E s'apponeva al vero!

VIII.
Il Tevere

Il fiume classico, il fiume della storia e della poesia ci accolse nel suo seno. Il barcone che ci conteneva era seguito da altre due barchette nelle quali furono collocate due squadre comandate dal Fabris e dallo Stragliati.

Quest'ultimo ebbe l'ordine di sorprendere un posto di doganieri che doveva esistere presso la foce dell'Aniene. I segnali dal barcone alle barchette si dovevano fare con fanali a colori.

La corrente ci trasportava maestosa. Il cielo si era rasserenato, tirava un vento rigido e secco.

 

Il comandante dispose una guardia speciale sopra coperta del barcone e la mutava ogni mezz'ora. Il mio turno venne quando era già notte alta. Il vento frigidissimo mi aveva asciugati tutti i panni inzuppati, nè io me n'accorsi. Un senso indistinto di tristezza mi portava colla mente lontano, lontano, ove di certo si palpitava sulla mia sorte. Benchè il cielo fosse stellato, la notte era buia. Le due sponde del fiume si distinguevano appena come due nere striscie serpeggianti. Di tratto in tratto la pianura appariva ancor più cupa del resto: erano forre, macchie, canneti, boscaglie. Non un lumicino che additasse un casolare, che accennasse alla veglia, all'esistenza di qualche creatura. Tutto era buio, tutto dormiva. Pensavo alla notte eterna, senza speranza di nuovo sole, senza miraggio d'aurore più splendide delle nostre, e lo spirito rifuggiva aborrente da cotesta vacuità del nulla. Per alcuni ha l'attrazione dell'abisso, per me ha l'orrore del precipizio.

Alta la notte! Fra poche ore spunterà il sole: lo vedremo noi? lo vedrò io? Un colpo di fucile aggiustato nell'ombra da una di queste sponde potrebbe rompere la mia meditazione e con essa troncare il filo di mia vita, le mie speranze, i miei sogni. Addio illusioni di gloria! addio trionfi del Campidoglio! Morto nel buio! Colpito proditoriamente, non ebbe tempo di battersi, non vide il nemico in faccia!

Un brivido mi scoteva dai tetri pensieri. Aguzzavo la pupilla innanzi a me e dalle parti. Nulla! Le due barchette non si scorgevano affatto: a stento potevansi distinguere le tortuose sponde del fiume ed i gomiti repentini della corrente, che or ci portava presso a riva ed or ci lanciava ad arenarci contro la sabbia della spiaggia opposta: gli urti ed i sobbalzi improvvisi mi toglievano bruscamente alle mie tetre meditazioni.

Quand'io smontai la guardia e fui sceso in stiva, Giovannino mi toccò i panni, poi mi disse col suo dolce sorriso:

– Vedi un po', questo venticello è stato per te una manna. T'ha asciugati i panni senza bisogno di fuoco: così non ti prenderai nessun malanno.

Ed infatti non ebbi nemmeno il più piccolo raffreddore. Il morale s'impone al fisico e ne vince e ne sublima la debolezza.

A notte inoltrata fu ordinato il trasbordo dal barcone sopra tre barchette già predisposte a Passo Corese. Una di queste che s'era smarrita ed era stata causa del ritardo nella partenza, si era più tardi rinvenuta lungo il fiume. Ci trovammo per tal modo stipati sessanta uomini (l'avanguardia Stragliati non compresa) in tre piccoli schifi. I fucili li adagiammo sul fondo, dove per mala ventura c'era dell'acqua, e noi alla meglio ci accomodammo sopra di essi. Come ci si potesse stare ognuno può pensarlo! Si era accovacciati sugli acciarini, sui calci, sulle baionette. Le barche affondavano a cagione del peso, l'acqua era a quattro dita dalla sponda e guai al più leggero movimento!

Se un picchetto di gendarmi, o anche un solo gendarme si fosse divertito dalla sponda a fare di noi bersaglio e avesse tirato al buio in quelle tre masse nere che scorreano lente lungo il fiume, avrebbe fatto un massacro terribile. Guai poi se avessimo reagito, saremmo tutti finiti capovolti nell'acqua e affogati.

Ad onta della posizione incomoda, ad onta del freddo che penetrava nelle ossa, il sonno la vinse e molta parte di noi non tardò ad addormentarsi colle teste penzolanti. Non dormiva però l'infaticabile Enrico, il quale ad un certo punto del fiume fe' sostare le barche.

– Hai veduto un fanale? chiese al fratello.

– No, e tu?

– Io sì, ma non ho distinto bene. Siamo giunti al posto, dove Stragliati deve aver fatto il colpo. Ecco, ecco! rosso, sta bene! il colpo è riuscito.

Di fatto lo Stragliati, come si seppe di poi, inavvertito alle sentinelle, si era spinto fino al Posto di Finanza, aveva disarmato agevolmente il piantone e destate le altre guardie che dormivano, le aveva con sè imbarcate, impadronendosi delle loro armi. Vidi più tardi quei poveri disgraziati, che avranno probabilmente ricordato a lungo la brutta sorpresa di quella notte; più che spaventati mi sembravano insonnoliti.

Arrivammo finalmente ad una località dove l'amico Perozzi pratico dei luoghi, giudicò prudente di sostare in attesa di segnali che dovevano venire da Roma, alla quale, ei diceva, ci trovavamo ormai vicini. Tutti allora eravamo svegli.

– Vedete nulla? domandava ad ogni momento.

E ciascuno appuntava lo sguardo lontano quanto più poteva. Nulla!

Disgraziatamente una folta nebbia venne ad involgerci tutti e ci lasciò per qualche tempo nel buio più profondo. Era un freddo umidiccio, sicchè i panni cominciavano di nuovo ad aderire alla pelle.

Un barlume lontano lontano, quasi indistinto dapprima, cominciò a mostrarsi e subito una delle nostre barche fu sciolta. Vi montò il romano Candida per penetrare in Roma e ritornare poi immediatamente per barca o per terra a darci notizie. Ma il Candida non si vide più: forse lo arrestarono i gendarmi posti a guardia del fiume, forse gli fu impedito di retrocedere per terra.

Sbarcammo. Eravamo tutti indolenziti, colle ossa peste, affrante. Qualcuno di noi nel discendere, forse per naturale abitudine, cercava di ricomporre il proprio abbigliamento (per mo' di dire!) riabbottonandosi la giacca, scuotendo il fango dai calzoni, ponendosi un fazzoletto al collo a riparo dall'umido o ravviandosi colle dita i capelli.

Quando Enrico se ne avvide, sorrise. Fu forse l'unica volta che io lo vidi sorridere: non era suo naturale.

– Che cosa dovrei fare io allora! esclamò. Io che ho tanto girato in questi giorni senza mai svestirmi, io che non muto da un mese biancheria, e da otto giorni non mi sono nemmeno levata un momento la calzatura!

Albeggiava. Il Perozzi fece osservare che in quella località sarebbe tra breve cominciato il passaggio della gente, la quale veniva a bere l'Acqua Acetosa, fontana medicinale poco discosta, e che quindi conveniva che ci nascondessimo.

Poi che fummo sbarcati tutti, fatta una ricognizione del luogo, si riparò in un canneto e vi si stette parecchio tempo accovacciati o seduti sul fango. Fu allora che vidi distintamente i doganieri pontifici fatti prigionieri. Erano uomini dai trenta ai quarant'anni e sembravano rassegnati alla strana avventura loro toccata.

Neanche il canneto però fu ritenuto luogo opportuno per potervi rimanere l'intiera giornata.

Poco discosto da esso sorgevano quasi a picco alcuni dirupi frastagliati da alberi e cespugli: su di essi mise l'occhio Enrico e pensò che da quelle alture avremmo potuto agevolmente difenderci in caso di un attacco. Ordinò a Giovannino che colla sua sezione vi salisse per osservare se convenisse occupare quella posizione.

Salimmo tenendo nascosti i fucili colle coperte, perchè il bagliore delle canne non fosse veduto da lungi, precauzione inutile perchè i fucili si erano per l'acqua e per l'umido tutti arrugginiti. Sulla sommità ci trovammo in vicinanza di una villa, la quale aveva forma di castello piuttosto che di palazzina. Ci si avanzò prudentemente collocando sentinelle in parecchi punti e Giovannino si spinse per uno stradello fino ad un'altra casa alquanto più discosta e prospettante verso l'altra parte della collina.

Da là lo vidi ritornare con un uomo che recava seco delle chiavi. Era il vignarolo. Lo accompagnava un ragazzino suo, che alla vista di noi e specialmente dei fucili, si gettò in un piangere dirotto, come se lo avessero picchiato. Il vignarolo ora lo sgridava, ora lo rincorava: poi si fece animo, e quel ragazzetto, che aveva del resto molto spirito, ci fu di grande giovamento: riuscì perfino a penetrare in città e a riportarne un messaggio. Il vignarolo sembrava abbastanza disinvolto: lo giudicai un galantuomo che non ci avrebbe di certo traditi, e se ne ebbe infatti la prova il giorno dopo, quando egli diede ricetto ai feriti nostri.

Quella vigna apparteneva al signor Glori romano, clericale della più bell'acqua. Non era ancora passato l'anno, che già il vignarolo era stato licenziato dal Glori.

Fui a trovarlo nel 1870. Aveva mutato padrone, ma non per questo era accorato. Ricordo che bevemmo insieme un bicchiere e mi parlò con passione e con vero dolore di Giovannino morto un anno prima.

Quanto al signor Glori, volesse o no, dovette sorbirsi ogni anno, d'allora in poi, un pio pellegrinaggio, che per lui rappresentava una invasione.

La prima volta nel 1870, appena entrate le nostre truppe, molti patrioti si recarono con pio pensiero a visitare il posto dove era morto il povero Enrico. Il signor Glori ci si adirò e chiuse a chiave l'ingresso, talchè quando poco dopo ci andai io, mi fu forza corrompere il vignarolo per passare.

Ma venuto il 23 ottobre dello stesso anno, anniversario del fatto d'armi, fu organizzata una commemorazione solenne, alla quale intervennero tutte le Società e tutti i patrioti liberali di Roma.

La dimostrazione essendo troppo imponente e il proprietario non potendo opporvisi, dovette, a scanso di peggio, aderire. Però all'on, Pianciani che gliene aveva fatto chiedere il permesso, il signor Glori fece rispondere che egli lo accordava non al deputato Pianciani, bensì al conte Pianciani, e non per farvi commemorazioni, ma per fare quanto la sua discretezza, a cui si affidava, gli avrebbe consigliato.

La discretezza, ahimè! per quanto buon volere ci mettesse il Pianciani, andò a rotoli.

La folla era tale e tanta e l'onda invadente così impetuosa, che i sentieri della vigna, troppo angusti, non la contennero, onde la vigna e i campi subirono una calamità non prevista di certo in nessun contratto d'assicurazioni.

13Dove che dietro a noi c'era pe' scortaN'onibussetto tutto sganghenato,Dov'uno ce montava un po' pe' vortaPascarella, Villa Gloria, sonetto II.
14Il castello e feudo di Cantalupo apparteneva al principe Vaini che morì senza successione. Poscia passò in potere dei Lante; presentemente è posseduto dal barone Commini.
15Di questo tratto di Giovannino, che a prima giunta potrebbe a taluno sembrare strano, s'incarica egli stesso di darci la spiegazione nel suo libretto: «Debbo ora osservare che l'argomento ora toccato (dei legami tra superiori e inferiori) costituisce a mio avviso uno dei punti caratteristici di differenza tra corpo di milizia regolare e corpo di volontari; che cioè, se in quello non è conveniente dare ai soldati dei capi che a loro sieno legati da vincoli d'amicizia, in questo deve all'incontro riuscire vantaggioso. Può forse a tutta prima sembrare strana tale differenza, ma riesce chiara ricercandone le ragioni col mezzo d'acuto esame delle condizioni e qualità diverse del soldato regolare e del volontario».