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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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V.
Sempre in casa Giovanelli

Il vicolo dei Quattro Cantoni era però un posto tutt'altro che sicuro per noi, perchè guardato dalla polizia. Infatti allo stesso pianerottolo dove noi abitavamo, anzi di fronte alla nostra porta, dimorava un precettato o, come oggi direbbesi, un ammonito. La notte, all'avemaria, doveva trovarsi in casa ed i gendarmi venivano ogni tanto a verificare.

Bisogna credere che il Comitato ignorasse affatto questa circostanza, perchè altrimenti non avrebbe in alcun modo scusa per averci posti così in bocca al lupo. Noi stessi l'ignorammo per più giorni. Il Giovanelli non ce ne disse nulla ed anzi era fiero di poterci presentare quell'accanito. Ci fece scoprire la cosa un altro fatto che ora narrerò.

Al piano terra della nostra casa abitava un tale di cui non ricordo nome e condizione, ma che dal vestito che indossava, pantaloni larghi alla francese ed una grande papalina rossa in testa, era dai vicini denominato il Turco.

Come precisamente la pensasse costui non si sapeva; però dovea di certo essere uomo gioviale, perchè una bella sera gli venne il ticchio di voler dare una festa da ballo. Non saprei ricordare quali fossero gli invitati; bensì ricordo che l'orchestra era costituita da un'armonica e dalla chitarra di Pietruccio come accompagnamento.

Quando il Turco venne a fare li patti con Pietruccio, ci si mise di mezzo il Giovanelli e sembrandogli che una tal festa potesse tornar pericolosa per noi, tentò di dissuaderlo. Fu come buttar olio sul fuoco. Il Turco fu irremovibile non solo, ma anzi dichiarò che il motivo per cui dava la festa era nè più nè meno perchè… eravamo alla vigilia di grandi avvenimenti.

La festa ebbe luogo e per tutta quella notte non potemmo dormire. A parte lo strepito ed il baccano indiavolato che facean ballando con salti interpolati ad urli sì da sembrare una vera ridda infernale, noi si stava in grandi angustie per timore che quello strepito attirasse la polizia e che essa venisse, come difatti venne, a dare una capatina al secondo piano dall'amico precettato che ci abitava di fronte. Infatti, poco oltre la mezzanotte, si udirono dei passi sulle scale e si sentì pure lo strisciar d'una sciabola contro la nostra porta. Noi balzammo tutti di letto e ci buttammo nella camera delle donne, che erano scese alla festa. Afferrate le lenzuola, cominciammo febbrilmente ad annodarle fra loro per calare da una finestra e in pari tempo al Giovanelli si diede consegna, se bussassero, d'aprire il più tardi possibile, fingendo d'essere addormentato e di doversi vestire. Intanto chi radunava i vestiti, chi ricomponeva i letti, altri nascondeva biancheria, altri caricava una rivoltella.

Fortunatamente non ne fu nulla. Cinque minuti dopo il Giovanelli ci avvisò che i gendarmi ridiscendevano le scale, com'eran venuti e noi respirammo.

Di cotali scene ne accadevano spessissime fra i reclusi di quei giorni. In casa di certa madama Petrarca, ove la polizia andò a fare una perquisizione, alcuni amici che vi si trovavano, riuscirono a fuggire da una finestra, dimenticando nella stanza tutti i cappelli.

L'on. Cucchi, capo della cospirazione d'allora, credo che di simili episodi potrebbe narrarne un volume e riuscirebbe certo interessantissimo.

I giorni scorrevano così fra una emozione ed una risata. I compagni e gli amici che ci venivano a visitare, aumentavano di giorno in giorno. I futuri rivoluzionari e i capisquadra facean capo a noi per sapere notizie, e noi ne sapevamo assai meno di loro. Si inquietavano tutti per questa incertezza, per questi ritardi, e noi si cercava di tenerli buoni con bicchierate e con sigari. Questo sistema però, oltre ch'essere pericoloso con simil gente, la quale facilmente trasmoda e trasmodando chiacchiera6, aveva finito anche col diventare rovinoso per le nostre finanze. Ogni giorno si facevano i conti di cassa; ma se il mangiare fra noi in comune poteva essere economia, non lo erano di certo il raddoppio di spesa portato dalla famiglia dell'ospite nostro e la gazzarra in permanenza a beneficio degli amici e dei patriotti nostri visitatori.

S'aggiunga che la speranza di prossimi movimenti si dileguava ogni giorno più e che le discussioni sulla popolazione più o meno preparata, sulle armi pronte facevansi ognor più vive.

Un giorno Augusto, quasi a riprova che di armi ce n'era in abbondanza, ci raccontava come egli spessissimo passava il Tevere a Ripetta su d'una barca, nella quale a prua stavano nascosti quattro fucili due sciabole e tre pistole. E ci narrava la cosa con tale serietà che sembrava ne volesse inferire che in ogni barca del Tevere vi fossero armi e che se l'armi c'erano perfin nelle barche, immaginarsi nelle case!

Ma invece pur troppo la bisogna camminava ben altrimenti; e fu appunto in quei giorni che il povero Enrico, trovandosi in seno al Comitato, presenti il Cucchi e gli altri capi e discutendosi delle armi disponibili, si sentì dire che c'era in pronto qualche centinaio di picche!

– Che diamine! esclamò egli esasperato, volete prendere Roma a suon di picche? perchè non la prenderemo allora colle vanghe o colle zappe? E fu da quell'istante che nel Cairoli surse l'idea d'importare le armi dal di fuori mediante apposita spedizione, che fu appunto la nostra.

A questa dolorosa realtà, che cioè in Roma non c'era nulla e che le armi furono poi portate più tardi, ma pur troppo non arrivarono in tempo, non posso trattenermi dal contrapporre le notizie che in proposito fornisce la Civiltà Cattolica nel suo lepido scritto intitolato I crociati di S. Pietro (anno 1867, Vol. 6, 7, 8, 9, serie VII): «D'armi, traendone ragguaglio anche solo da quelle che vennero a mani del Governo Pontificio, si aveva il sufficiente: pistole, rivoltelle, specialmente della fabbrica di Brescia e ad uso della cavalleria (!), boccacci da masnadieri, rompicapi da cannibali, lame, coltelli a serramanico, stiletti, accette in gran numero e copia altresì di ordegni da scassinar porte. Di bombe orsiniane si possedevano veri monti: solo quelle destinate all'assalto del casino militare a detta d'un sicario erano trecentosessantaquattro.

«L'arma prescelta per la pugna notturna era una scure in asta a due fendenti con in capo un pernio e un dente a molla onde infiggervi una lunga lama di pugnale. Ne furono rinvenute presso a un migliaio (forse eran queste le famose picche)».

Più sotto soggiunge che tali armi si fabbricavano in Orvieto e ricordarsi anche il nome dell'infame artefice. E più sotto ancora: «il principal deposito di 600 scuri e 750 pugnali si rinvenne in via San Giovanni de' fiorentini, ove credesi approdassero opportunamente pel Tevere. Oltre a ciò sull'ultimo il Cucchi ottenne dal governo italiano un bell'ottocento fucili militari con baionetta, che dalla Spezia partirono sopra una tartana, ecc. ecc.»

Questo scritto mi fa sovvenire d'un progetto ventilatosi in quei dì tra i capi dell'insurrezione e poscia scartato.

Nel palazzo Wedekind in Piazza Colonna, ove ora ha sede l'Associazione della Stampa e un tempo c'erano gli uffici della Posta, avea allora stanza il Casino militare frequentato, specialmente la sera, dall'alta ufficialità dell'esercito pontificio. S'era progettato di tentare un colpo di mano su quel posto, impadronirsi d'un tratto dei capi del presidio, rizzare simultaneamente le barricate gettando lo scompiglio nella truppa che, priva o decimata de' suoi capi, male avrebbe potuto reprimere la rivolta.

Non ricordo il motivo per cui fu abbandonato un tal progetto. Probabilmente sarà stata la mancanza di mezzi e più specialmente delle armi e delle trecentosessantaquattro bombe sognate dalla Civiltà Cattolica e dal suo sicario. Certo che se lo si fosse tentato, non poteva riuscire che ad una inutile carneficina.

Il numero dei cospiratori in città andava intanto ogni giorno aumentando, ma pur troppo continuavano a difettare pur anco i mezzi.

Un giorno l'amico Cella, il valoroso e gentile eroe del Caffaro, venne a trovarci e ci portò un altro suo amico e prode compagno d'armi della gloriosa schiera dei Mille. Era certo Erter di Venezia, che aveva avuto il suo battesimo di fuoco a Palermo lanciandosi all'assalto d'un pezzo d'artiglieria che molestava i nostri.

Si trovava in Roma da parecchi giorni ed era rimasto senza quattrini. Ricorse all'amico Cella e questi, trovandosi in condizioni poco dissimili, lo condusse a noi perchè lo invitassimo a desinare. Fu ricevuto a braccia aperte e così i nostri luculliani desinari furono onorati della presenza d'un duodecimo commensale.

Questo nuovo amico suonava pur esso la chitarra e cantava; non era però all'altezza di Pietruccio.

Ci si intratteneva pure assai volentieri colle due figlie del Giovanelli, due buone ragazze (ora saranno matrone!) e tanto simpatiche. Si chiamavano Ghitina e Ginevra.

La Ghitina, la sposa, ricordo che aveva un suo topolino bianco, cui prodigava molte cure ed affetto. Quella bestiolina alla sera specialmente formava il nostro spasso. Era domestica oltremodo, correva a prendere il cibo in mano e saliva dalle braccia sul collo e sulla testa della sua padroncina.

Un giorno essa lo mise in camera sotto un cuscinetto ch'era su d'una sedia. Il topolino s'addormentò per davvero e la Chitina dimenticò d'avercelo collocato. Un'ora dopo, distratta e senza avvedersene, si mise a sedere su quel cuscino. Povera Ghitina! chi può ridire il suo dolore quando lo rinvenne soffocato? i suoi occhioni ridenti si sciolsero in grosse lagrime. L'aveva proprio ucciso lei, e con quale arma!

 

Le distrette finanziarie crescendo ad ogni istante, fu stabilito di comune accordo che qualcuno di noi si recasse dal Cucchi a rappresentargli i nostri bisogni. Fu mandato infatti uno dei nostri assieme ad alcuno degli amici dell'Hôtel di Roma, che trovavansi in condizioni ancor peggiori delle nostre, avendo all'albergo un conto arretrato di parecchi giorni da saldare.

Stava in quel momento il Cucchi discutendo con parecchi amici. Udito il motivo della visita dei nostri, domandò qual somma occorrerebbe loro per il tempo ancor probabile di permanenza in Roma e per saldare il debito di tutti cotesti (come chiamarli altrimenti?) spiantati. Gli fu risposto che occorrevano per lo meno mille e cinquecento lire.

Il Cucchi arretrò sbigottito, ed uno dei presenti uscì in questa esclamazione:

– Mille e cinquecento lire! ma non sapete che se avessimo una tal somma compreremmo tante armi?

Questa risposta fu per noi una rivelazione.

Io che nella nostra compagnia avrei dovuto essere il più ardente, giusta l'opinione dell'Andreuzzi, se prima ero sfiduciato, a quest'uscita rimasi addirittura avvilito. Come, esclamai fra me, non si hanno nemmeno mille e cinquecento lire disponibili e si pretende di fare una rivoluzione? una rivoluzione per la quale occorrono dei milioni e non delle migliaia di lire?..

Invano l'Andreuzzi tentava persuadermi. Non ne volevo sapere. D'altro canto si parlava giorno per giorno di Menotti Garibaldi che si avanzava ed era già entrato nel confine pontificio; le sue bande ingrossavano ed era imminente un fatto d'arme. Essendo discordi i pareri, fu deciso che ognuno riprendesse la sua libertà d'azione. Vincoli non ne avevamo. Eravamo partiti ad un unico scopo: la rivendicazione di Roma.

A me ed al compagno mio parve che questa, coi mezzi che s'avevano alla mano, fosse addirittura un'ubbia. D'altro canto in campagna già i nostri fratelli marciavano; era imminente il momento di menare un po' le mani, e senz'altro decidemmo la nostra partenza.

Infatti la sera di quello stesso giorno prendemmo il diretto per Terni.

Gli altri amici rimasero in Roma; non ricordo di quali mezzi siano stati soccorsi o se sieno riusciti ad averne da casa. Essi furono il nucleo degli assalitori di Porta San Paolo e si trovarono poscia con gli altri al loro posto a Mentana. Alcuni di loro vi rimasero anzi prigionieri.

All'atto del partire da Roma la polizia ritirava i passaporti dei forestieri per restituirli poi a Passo Corese. Già accennai che il mio compagno Muratti aveva il passaporto di un suo amico, il conte Giovanni Colloredo di Udine. Quando fummo a Corese, un commissario fece la chiama per la consegna dei passaporti; arrivato al nome di Colloredo, non gli venne risposto da alcuno, perchè Muratti in quell'istante stava occupato a rassettare il suo bagaglio e nella distrazione del momento aveva dimenticato il suo nuovo casato.

– Colloredo! – chiamò di nuovo più ad alta voce il commissario, mentre io schiacciavo il piede e davo del gomito all'amico per richiamarlo:

– Conte Giovanni Colloredo! – chiamò per la terza volta ed a chiara voce il commissario.

– Eccolo! – rispose tosto rinfrancato il Muratti scrollando la testa con lieve sorriso sardonico che pareva dicesse: Chiami le persone coi loro dovuti titoli ed allora risponderanno.

Il commissario capì il latino, si fe' rosso un pochino, levò il berretto ossequioso e consegnandogli il recapito mormorò:

– Scusi tanto!

Così partiamo trionfanti.

VI.
Terni

Arrivammo a Terni a notte inoltrata.

Qui sapevamo che doveva trovarsi un nostro amico, Pietro Mosettig di Trieste, già proprietario, fino a pochi mesi or sono, del giornale Il Secolo XIX di Genova.

Prendemmo stanza all'Hôtel della Regina d'Inghilterra. In questi ultimi anni fui a Terni parecchie volte; vidi la casa, ma l'albergo non esiste più. Proprietario ne era un giovane cortese, che per quei giorni e nel suo mestiere fu veramente benemerito. Si chiamava Cesare Melchiorri. Chi sa se vive ancora!

La mattina dopo, il primo che incontrammo, fu appunto il Mosettig, cui narrammo le vicende della nostra dimora in Roma. Egli ci condusse tosto dal maggiore Caldesi che abitava all'albergo delle Colonne. Lo informammo per filo e per segno del poco che sapevamo, ma più specialmente della carestia d'armi e di quattrini del Comitato.

Il buon Caldesi, da bravo romagnolo, non sapeva capacitarsi del perchè non si agisse subito e sopratutto non sapea darsi pace dell'avere noi abbandonato quel progetto d'assalire il Casino militare. Sembravagli che quello sarebbe stato un colpo da maestri. Riflettendoci ora, dopo trent'anni, si ha ragione di credere che sarebbe stato un colpo da pazzi. Caduti nella trappola, saremmo rimasti tutti scannati!

Appena ora, che Terni è fatta centro di importantissime fabbriche industriali, come l'acciaieria, le ferriere e la fabbrica d'armi, potrebbesi in un giorno di festa immaginare l'animazione insolita e la vita che brillava nella piccola e gentile città dell'Umbria nel mese di ottobre del 1867. Ma ora le vie brulicano delle casacche e delle blouse di lavoratori e d'operai, allora invece brillavano di camicie e di berretti rossi e medaglie. Quanta varietà di tipi, d'età e di condizione! Ma tutti uniti, tutti concordi verso una sola meta! Ogni giorno ne arrivavano a frotte colla ferrovia, colle vetture, a piedi, a cavallo7. Dal governo erano emanati ordini, contrordini, arresti, rilasci, la confusione babelica!8

Il Ministero Rattazzi, che voleva imitare la politica d'altro grand'uomo in consimile occasione, fingeva di reprimere e d'impedire, ma viceversa lasciava fare, quindi ire, battibecchi, dispetti.

All'albergo d'Inghilterra, ove di solito pranzavasi a tavola rotonda, era un parlare chiaro ad alta voce dei propositi nostri, della doppiezza e della simulazione del governo, delle bande garibaldine, dei fatti di Menotti.

Si strinsero amicizie e si fecero conoscenze carissime, in parte conservate, in parte dimenticate; fra tanti, ricordo i fratelli romani Nino e Carlo Castellani (quest'ultimo poscia bibliotecario alla Vittorio Emanuele e recentemente morto), Nino d'Andreis, romano pagano e Angelo Perozzi, romano spartano, il venerando Fabrizi, il gentile Delvecchio (quanti morti!) allora giovanissimo attaché del generale Garibaldi e poscia deputato intelligente, i garibaldini Pietrasanta, Nuvolari, Tabacchi, già deputato pur esso e buon amico sempre. Poi vennero il Valzania, il Sabatini, il Montefiore e da ultimo anche il Crispi. Quanta parte di costoro pur troppo ora è scomparsa!

La somma delle cose e la direzione del movimento in Terni l'aveva il Fabrizi, ma l'anima di tutto, i lavoratori indefessi furono sempre gli indimenticabili amici Enrico e Giovanni Cairoli. Trovavansi in Roma da parecchio tempo e n'uscirono due o tre giorni dopo la nostra partenza. Noi li vedemmo arrivare una sera che ci trovavamo per caso alla stazione. Ravvisatili, chiedemmo loro il motivo del ritorno. Ci accennarono di tacere e quando fummo all'albergo, preso con loro il Mosettig, gli raccontarono come fosse stato arrestato Giovanni, come si fosse Enrico recato di persona alla polizia per reclamare la libertà del fratello e come dopo un fiero battibecco fra lui e monsignor Randi (allora direttore generale della polizia) fossero finalmente lasciati liberi entrambi colla condizione di sfrattare immediatamente da Roma. Questo fatto sconcertava alquanto i loro piani, però si misero all'opera volonterosi anche in Terni.

I volontari andavano moltiplicandosi a vista d'occhio e si cominciava a dividerli per battaglioni e per compagnie, assegnando a ciascun corpo dei graduati fra quelli che già lo erano nelle passate campagne.

Non si può negare che nella campagna romana del 1867 non vi sia stato un abuso enorme di autopromozioni, le quali non contribuirono che a creare maggior confusione. Chi era tenente diventò ipso facto capitano, chi capitano si fece maggiore, i maggiori divennero colonnelli; e siccome di camicie e distintivi chi n'aveva n'aveva e chi non ne aveva ne facea senza, così la cosa finiva quasi in burletta e veniva a mancare quel rispetto che tiene e dee tenere anche il volontario in soggezione al suo superiore, riconosciuto appunto dall'esteriorità dei distintivi. Però vi furono anche in ciò delle brave eccezioni.

Una mattina, scendendo dall'albergo vedemmo tutto il portico stipato di gente. Erano in gran parte pezzenti.

– Che fate qui? chiesi ad uno di loro.

– Veniamo ad arruolarci con Garibaldi, mi rispose.

– E chi è che arruola?

– Quel signore là, e m'accennò infatti uno che scriveva dei nomi e dispensava quattrini.

Immediatamente ne avvisammo Enrico. Scese e verificato il fatto, n'avvertì il Caldesi ed insieme penetrati nell'ufficio riconobbero gli arruolatori. Erano ex-ufficiali dell'esercito, il maggiore Ghirelli ed i capitani Gigli e Gulmanelli.

Non comprendevasi però allora quale necessità vi fosse d'arruolamenti speciali, mentre tutti ci calcolavamo arruolati, nè sapevasi spiegare la dispensa di quei quattrini, mentre da parte nostra tanto se ne difettava. Più tardi il mistero non fu più tale: il Ghirelli arruolava coi danari del governo, ma voleva agire indipendentemente dai comandi dei Fabrizi e di Menotti Garibaldi. Più d'uno fu preso alla pania, credendo sempre d'arruolarsi con Garibaldi, ed io ricorderò fin che vivo la contentezza del povero dottor Adamo Ferraris (morto a Digione) quando, da noi avvertito del fatto, potè in qualche modo levarsi dall'impegno che aveva preso colla legione romana.

Mentre in Terni c'era tanta libertà d'opinione, nelle altre città d'Italia continuavano gli arresti e le vessazioni. Anche in Terni però ci doveano essere degli spioni, ed il curioso si è che questi erano sorvegliati da quelle stesse guardie e da quei carabinieri che pedinavano i garibaldini.

Un giorno a pranzo, presente il solito circolo d'amici, avemmo una fiera disputa con un signore sconosciuto, il quale osò apertamente biasimarci perchè, penetrati in Roma, n'eravamo poi usciti. Noi gli chiedemmo come avrebbe fatto a vivere senza mezzi e se per vivere colà intendeva che ci dessimo a rubare. Ei ribattè che c'erano dentro ancora il Cucchi ed altri molti, e quelli di certo non rubavano. Noi replicammo inviperiti; la cosa minacciava di farsi seria. I signori Castellani, Perozzi, D'Andreis ed altri si misero di mezzo e fecero tacere ed anche vergognare quell'uggioso.

Levata la mensa, per quanto chiedessi all'albergatore e ad altri chi egli fosse, non mi venne fatto di saperlo.

Ma quel medesimo giorno noi ci eravamo recati alla stazione ad incontrare un amico che doveva arrivare: non trovando nessuno, eravamo sul punto di ritornare, quando una guardia di pubblica sicurezza mi chiese d'improvviso:

– D'onde viene il signore?

– Da Terni.

– Ma ella non è di Terni.

– E che fa questo?

– M'occorre vedere le sue carte.

– Che carte? gridai io.

– Ma sì certamente, replicò il questurino.

– Ella è un ignorante che non sa quello che dice, apostrofò uno de' miei compagni.

– Un imbecille, aggiunsi io.

– Che non sa con chi tratta e come dee condursi con certe persone, ribadì un altro.

Fosse l'effetto di quest'ultima frase che potea lasciare sospetto alla guardia d'aver preso un grosso granchio chiedendo le carte Dio sa a chi, o fosse l'effetto della violenza con cui l'investimmo e del trovarsi solo contro tre o quattro, il fatto è certo e lo ricordo bene, che la guardia si morse le labbra e tacque come se le avessero gettato un secchio d'acqua in capo, mentre io m'aspettavo di vedermi legato!

 

Rientrati in Terni verso sera venimmo a sapere che quel signore col quale a pranzo avevamo litigato, si diceva fosse una spia del governo pontificio. Non ci volle altro. Ci mettemmo sulle sue traccie. Era ora tarda. Però ci venne fatto di scoprire il suo luogo d'abitazione e speravamo coglierlo nel covo. Ma il merlo aveva già preso il volo e la padrona di casa ci disse che v'era stato pochi momenti prima un brigadiere di pubblica sicurezza con una guardia a ricercarlo. Dai connotati fornitici ravvisammo nella guardia quella stessa che alla stazione aveva chiesto le carte a me.

Sarebbe stata graziosa davvero! Dopo essere sfuggiti alla polizia pontificia in Roma, venire nel regno a farsi ingabbiare quale spia papalina!

Le bande partivano una dopo l'altra da Terni e fra esse partì pure la famigerata legione romana comandata dal Ghirelli, la quale, dopo la eroica impresa del taglio della ferrovia ad Orte, si squagliò come la neve, e parte dei militi raggiunsero Menotti, parte anche ritornarono alle loro case.

Pochi più rimanevano a Terni. I capi in gran parte erano partiti e fra loro anche Enrico. Dove fosse andato nol sapevamo. La sua assenza però ci inquietava. Si era promesso di partire con lui, gli altri già tutti erano in movimento, e noi soli si attendeva irrequieti.

In quei giorni avemmo notizia dell'arresto di Luigi Castellazzo da parte della polizia pontificia, e la nuova ce la portò quel Serafino falegname, frequentatore di casa Giovanelli, il quale pure, impaziente di fare le fucilate, era uscito da Roma e, se ben ricordo, partì tosto con la colonna Frigyesi9.

Mentre si stava così penosamente attendendo, Giovannino ci fece un giorno vedere le rivoltelle provvedute espressamente per noi e che fra breve ci sarebbero state distribuite. Fu come mostrare a dei bimbi gli zuccherini con la promessa di regalarli loro se fossero savi.

Infatti per quei due o tre giorni stemmo alquanto tranquilli. Intanto ci furono distribuite delle coperte. Credo provenissero dal magazzino militare. A proposito del Governo che non c'entrava!

Comprendevamo però che la nostra colonna era destinata ad una impresa speciale di cui ancora non si conoscevano i dettagli, ma che si lasciava travedere come un colpo di mano sulla capitale, addirittura un'entrata in Roma.

Qui trovan posto opportuno due lettere scambiatesi in quegli ultimi giorni febrili fra i due fratelli. La prima è d'Enrico, scritta da Orte, ove era andato per concertare la spedizione; la seconda è di Giovannino in risposta all'altra. Ambedue riassumono e dipingono la situazione10.

Ne ebbi in mano gli originali, favoritimi da un amico, e baciai e ribaciai più volte quei cari e preziosi documenti. Non era feticismo: in quelle due carte sgualcite riviveva per me serena la memoria dei due cari amici, delle vicende passate, delle trepidazioni incancellabili di quei giorni.

Ecco le lettere:

Stazione d'Orte, ore 12 meridiane.

Caro Giovannino,

«Ti scrivo poche righe a precipizio.

«Alla stazione d'Orte, come sai, vi è Ghirelli, ebbene, il treno fu fermato ed i viaggiatori saranno rimandati a Terni… Io credo prematura l'operazione. Volevano rompere le rotaie, ma io l'impedii e Ghirelli mi promise di riattivare le corse in quel giorno o durante quel tempo che ne avremo bisogno.

«Vedrai il proclama che mandiamo a Fabrizi! Quel buffone d'un Mistrali, ch'è qui vicino e che mi fa le scuse perchè mi era dietro mentre scrivevo, dicendomi che fu storditaggine, mi colma di gentilezze, ma se lo vedessi ti farebbe schifo (sic); sembra più di un dittatore! più dello stesso Ghirelli che s'intitola Commissario Straordinario del Governo Provvisorio.

«Mi fu messa a disposizione una macchina per proseguire fino a Passo Corese; spero il governo italiano mi lascerà ritornare, se no verrò con una vettura. Spero pure che a Borghetto non ci saranno più i papalini, perchè diversamente mi accalappierebbero come un merlo.

«Comunica il fatto a Fabrizi. Sarei ritornato a Terni se, come sai, la missione che ho non fosse urgente sbrigarla; temo però che il precipitare non ci abbia guastate le uova nel paniere. Ghirelli del resto mi fece le più ampie assicurazioni che starà in relazione con Menotti a cui già mandò rapporto dell'operato. Occhi aperti però e pronti a frenarlo!

«Ti scriverei ancora, ma la macchina è già lesta; procurerò di tornar subito, ciò poi dipende interamente dalle circostanze.

«Saluta gli amici. Pei prossimi preparativi, se avremo chiusa questa via, ne troveremo un'altra.

«Abbiti un bacionone

dal tuo Enrico».

Questa lettera porta la soprascritta: «Egregio Signore – Il Sig. Capitano Giovanni Cairoli – Albergo d'Inghilterra, alloggiato al N. 4 e 5 – S. P. M. – Terni.»

Ecco ora la risposta di Giovannino:

«Mio Enrico,

«Terni, 19 ottobre 1867.

«Scrivo in lapis per far presto. L'impazienza è febbrile; non dico la mia, che ti lascio immaginare; parlo della generale, di quella comune a tutti i bravi giovinotti destinati ad esserci compagni. È impazienza però tenuta a bada dalla disciplina che l'abitudine d'altre campagne ha loro infuso nelle vene e dalla molta confidenza in te. Devi ammettere che certamente questa deve essere in buona dose perchè sì brava e generosa gioventù subisca con rassegnazione, con quiete, la lanterna magica delle colonne partenti di qui ogni giorno.

«Come poi devi imaginare, le notizie delle strette in cui si trova la colonna di Menotti, aumentano l'agitazione. Ti ripeto, però, dovrò attendere le notizie con mediocre rassegnazione. Tu ritieni che Checco [Cucchi] debba aspettare qualche giorno specialmente per questo incaglio avvenuto alla spedizione della roba dal bel colpo11 di Orte e, come puoi comprendere, sono perfettamente del tuo parere. Peccato non lo sieno gli amici di Firenze, i quali solo per tre quarti si lasciarono persuadere dalle nostre ragioni; tre quarti già molto vacillanti per le incalzanti notizie diplomatiche. Ma ciò saprai perfettamente dal deputato Crispi. Ti avviso solo che si ritiene sicura la spedizione francese. Questa mi parrebbe ragione di più per non precipitare le cose, chè un aborto di rivoluzione, una battuta dai papalini sarebbe ben infelice principio d'una campagna Gallica. Di ciò, ti ripeto, parmi non sien perfettamente persuasi gli amici di Firenze.

«Dessi incalzano Checco continuamente; onde temo che questi si decida ad un colpo disperato. Ciò tu avrai subito mezzo di conoscere dalle risposte romane che attendi. Sul dubbio fortissimo di ciò, io credo intanto di farti una proposta che serva ad agevolare o meglio ad affrettare l'entrata in azione dei nostri sessantaquattro12. Giudica e rispondi in tutta fretta; se puoi, col telegrafo. Sono tanto più spinto ad esporti questa mia proposta, chè temo non possa arrivare stasera e neppure di buon mattino domani, e, per Dio, si è sulle spine!

«Ma ecco la proposta. Partire noi tutti alla tua volta sotto gli ordini di Tabacchi; arrivati a te, tu combinerai la spedizione ed organizzerai una [banda?] a seconda della convenienza dipendente dalle risposte di Roma.

«Io ritengo che accettando questa idea, vi sarebbe in ogni caso da guadagnar tempo; con la formazione della banda è cosa evidente; per quello della spedizione, son pure del parere, pensando si sia più prossimi ad aver mezzi ed alla strada convenuta (con Checco) costì dove tu sei, anzichè qui in questa fornace. Tu pondera e risolvi. La risoluzione raccomando caldamente siami comunicata a vapore. Certamente sarai già in comunicazione col signor Carlo Ferri romano, proprietario (credo) di campagne presso Roma e perciò pratico delle strade; tale, cioè, da poter dare informazioni per noi preziose. Così mi disse il signor De Andreis, solo romano che forse conosca.

«Addio. Ti ripeto: mi trovo, ci troviamo sui carboni accesi. Mille cose a Menotti ed agli altri amici. Ti abbraccio caldamente.

«Giovannino».

«P.S. Arrivò in questo istante dispaccio di Ghirelli in cui annuncia d'obbedire all'ordine del generale Fabrizi di portarsi verso Menotti, d'obbedire protestando».

Questi due documenti rivelano chiaramente come fino all'ultimo istante l'impresa nostra non fosse nè ben decisa nè ben definita e che non vi era una piena armonia di idee tra il comitato di Firenze, quello di Roma ed i capi spedizione di Terni.

Individualmente delinea in modo stupendo il carattere dei due giovani eroi, l'uno ardito, fremente, che va dritto alla mèta colla sicurezza dell'animo invitto, che chiama le cose col loro nome senza ambagi, che qualifica persone e fatti con quello stesso colpo d'occhio sicuro con cui la sua mano investiva il nemico; l'altro giovine, impaziente ed ansioso di gloria, che però ama riflettere sulle circostanze per volgerle al conseguimento migliore dell'alto ideale che lo sorregge: l'uno già provato ai duri cimenti, l'altro ansiosissimo di tentarli; ardito ed imperterrito l'uno, serio e gentile l'altro; eroi entrambi indimenticabili al cuore di chi li conobbe e li amò nella troppo breve loro vita.

6Una sera venne fatta dal Comitato certa distribuzione di denaro. Era giorno di festa, e i quattrini ben si può arguire come furono adoperati. Tanto bastò perchè a tarda ora la città fosse percorsa da numerose pattuglie a cavallo!
7Qui in Terni funziona liberamente un comitato, direi meglio una specie di ministero sotto la presidenza del generale Fabrizi, che organizza le bande, le provvede d'armi e le manda oltre il confine. Ogni giorno giungono qui mille circa volontari, e questa sera ve ne sono in paese non meno di duemila. Rapporto del generale Ricotti, 21 ottobre, al Ministero della guerra.
8«Impedisca partenza volontari. Imbarazzano non giovano. Ce ne sono moltissimi. Non si sa che farne». Così telegrafava da Terni un deputato autorevole di sinistra al presidente del Consiglio Rattazzi.
9Il colonnello Gustavo Frigyesi, ungherese, fu uno dei più valorosi seguaci del generale Garibaldi. Combattè tutte le campagne dell'indipendenza italiana ed ebbe in ricompensa di morire poverissimo in un ospedale.
10Furono pubblicate dal Capitan Fracassa (non però per intiero) il 27 maggio 1883. L'autografo della prima, piegato in quattro, vidi conservato in una busta sulla quale Giovanni Cairoli aveva scritto: Lettera autografa di mio fratello Enrico (17 ottobre p. p.) da Orte. La lettera di Giovanni è scritta a lapis su di un foglietto piccolo di carta e non ha busta. Questa lettera probabilmente si trovava fra le carte del portafoglio di Enrico tolto a lui, dopo morto, da me e dal Campari e consegnato con la cintura, l'orologio ed altri oggetti a Giovannino il giorno 24 a Villa Glori poco prima della nostra cattura.
11Allude al taglio della ferrovia operato ad Orte dal Ghirelli.
12La prima idea dei Cairoli era che la banda non superasse i sessanta uomini. Vedi in proposito più avanti al cap. VIII, nonchè l'opuscolo di E. Cairoli: La spedizione ai Monti Parioli.