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Il bacio della contessa Savina

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XI

Finiti i funerali, il signor Nicola ci annunziò che le donne ci aspettavano tutti a pranzo in casa sua, per suggellare la pace fra i bicchieri. Don Vincenzo Liserio venne invitato a seguirci, e avendogli comunicato il motivo del nostro ritrovo ne rimase tanto sbalordito, che continuò per tutta la strada a trattenerci colle sue interrogazioni, colle sue sorprese, co' suoi fremiti e co' suoi applausi.

La comitiva raccoglieva i personaggi principali della mia tragedia, e mi pareva d'essere un capocomico che conduce al teatro la sua compagnia. E infatti dovevamo assistere ad una commedia o ad una farsa in casa Bruni.

La commedia incominciò al nostro ingresso. Isabella Fieschi, che attendeva ansiosamente il marito, per dimostrargli la gioia che sentiva rivedendolo incolume, si gettò fra le braccia del suo Lucchino Visconti riconquistato, con attitudini degne d'un quadro storico.

Ugolino Gonzaga, trovando quell'entusiasmo esagerato, si mordeva le labbra, e pareva quasi pentito d'aver cooperato a salvare il tiranno. Uguccione della Fagiuola, al quale nulla sfuggiva, mi accennava con due occhiacci stralunati, e con un sogghigno sardonico quel marito soddisfatto, quella moglie affettuosa e quell'amico malcontento; indicandomi in pari tempo la beata fisonomia dell'arcivescovo Giovanni, che ammirava in quegli amplessi la santità del matrimonio.

Francesco Pusterla congiurava come al solito, apparecchiando una serie di bottiglie, destinate, come la macchina infernale di Fieschi, a far saltare in aria o cadere in terra la comitiva, Uguccione della Fagiuola, all'aspetto di quegli apparecchi, rasserenava il volto, mostrava uno sguardo benigno, dal quale traspariva un'intima soddisfazione, piena di promesse per darsi un contegno conveniente: egli andava lustrando coll'avambraccio il suo lungo e speluccato cappello a cilindro, il quale, partecipando dell'indole testereccia del cervello che proteggeva dalle intemperie, si mostrava ribelle ad ogni pulitura e si conservava a strapelo.

Il tiranno aveva assunto l'aspetto dignitoso dell'uomo importante; la moglie, rassicurata sulla vita del marito, temeva di avere oltrepassato i limiti dell'entusiasmo, e procurava di riprendere il terreno perduto sbirciando i più teneri sguardi verso Ugolino Gonzaga, che trovandoli irresistibili, deponeva il sussiego della illegittima gelosia, per corrispondere degnamente al nuovo invito.

Infatti pareva che tutto si disponesse a rientrare nell'ordine… o nel disordine normale, quando un improvviso fracasso proveniente dalla cucina venne ad annunziarci un nuovo avvenimento. Finita la commedia, incominciava la farsa.

Attirati dal rumore siamo corsi tutti in cucina, e vedemmo una finestra caduta in frantumi, una damigiana rovesciata, un lago di vino sul pavimento, la Menica colle mani nei capelli, Martino che fuggiva per evitare il primo impeto del padrone. Che cosa era avvenuto per causare tanti disordini?.. Una piccolissima causa aveva prodotto quei terribili effetti, proprio come molte questioni di duelli. Ogni momento che passava ci portava il suo insegnamento. Ecco il fatto. Un sorcio era entrato in cucina, la Menica aveva chiamato Martino in aiuto, ed esso, armato d'un bastone, pieno d'ardore contro il nemico, s'era slanciato nella lotta con un colpo decisivo… che gettò in terra la damigiana, facendola in pezzi, poi cadde sulla finestra e ruppe quattro vetri, aprendo una larga breccia, per la quale il sorcio spaventato, ma incolume, aveva battuto la ritirata. Cosicchè tutti correvano: noi per assistere allo spettacolo correvamo sul teatro dell'avvenimento, il vino correva per la cucina, il sorcio correva pei campi, Martino correva per la corte, il signor Nicola correva dietro a Martino, la Menica correva dietro al signor Nicola, e lo raggiunse abbastanza in tempo per salvare il domestico da un colpo di bastone, che avrebbe dovuto piuttosto uccidere il sorcio.

– Calmatevi… – gridò Ugolino Gonzaga, – è meglio spargere il vino che il sangue…

– Non sono di questa opinione! – rispose Uguccione della Fagiuola, – e questa volta vado d'accordo col medico…

– Che cosa volete dire?.. – gli chiese il dottore, offeso di trovarsi d'accordo in qualche cosa con un individuo che gli era antipatico.

– Intendo dire che voi coi vostri salassi spillate più sangue che vino, e questo va bene, perchè un eccesso di sangue può togliere la vita, quando un eccesso di vino non fa che esilararla, o tutto al più addormenta tranquillamente per alcune ore. È meglio dunque spargere il sangue… e riservare il vino, per beverlo in buona compagnia. Per me avrei preferito che Martino avesse rotta la testa al sorcio e salvata la damigiana. Se il dottore pensa diversamente, le opinioni sono libere… ed anche le bestie hanno diritto di difendersi… e avvicinandosi a me, mi ripetè sottovoce guardando il dottore… anche le bestie hanno il diritto di difendersi scambievolmente.

Il dottore non gli rispose, ma gli diede un'occhiata incendiaria che voleva dire:

– Linguaccia malefica, se ti potessi cavar sangue, te lo caverei fino all'ultima stilla!

Il signor Nicola, passato il primo impeto, ritornò tranquillamente in cucina, rimproverando la Menica d'aver chiamato Martino per uccidere un sorcio.

– È un imbecille, – egli continuava, – capace di demolire una casa per prendere una mosca…

Allora il dottore aggiunse sentenziosamente:

– Per liberarci dai nemici interni, non dobbiamo mai contare sull'intervento degli stranieri!..

– Che ne dite, Tobia?.. – chiese il signor Nicola all'organista. Ed egli rispose:

– Io penso sempre il contrario di quello che pensano i medici e sto benissimo.

– Cattiva lingua… – soggiunse il signor Nicola ridendo. Il medico finse di ridere esso pure, per mostrarsi disinvolto, ma la sua fisonomia tradiva i suoi pensieri. Esso aveva l'aspetto d'un uomo che mastica fiele e vuol far credere che gli trova il gusto dello zucchero.

Per attendere l'ora del pranzo si misero a giuocare alle carte su due tavolini: il dottore ed il parroco dirimpetto al farmacista e all'organista; la signora Pasquetta col signor Nicola a fronte della signora Giovanna e del giovane allievo del farmacista, che aveva servito di secondo padrino al dottore.

Io accompagnai l'Agata che andava in cerca di Martino fuggiasco, per annunziargli l'amnistia ottenutagli dal padre.

Desideroso di sapere come fossero passate le cose ch'io ignoravo intorno alle predisposizioni del famoso duello, gliene chiesi qualche notizia ed ella mi disse ingenuamente:

– Dopo la partenza dei testimoni dalla casa del dottore, la signora Pasquetta, spiritata, era corsa in casa Bruni.

– Presto… presto per carità… chiamatemi il signor Nicola… che ci salvi tutti… Vogliono uccidere mio marito… mio marito vuol uccidere Daniele e Tobia; domani sarà un macello, che farà inorridire il paese.

Mentre essa raccontava gli orrori e le lotte di quella sera e la sfida per l'indomani, comparvero i testimoni che erano stati da me, e che si recavano dal signor Nicola per tenere consiglio intorno alla condotta da adottarsi. La signora Pasquetta venne congedata con promessa formale di accomodamento, prima però che si fosse nulla deciso intorno al partito da prendersi, raccomandandole caldamente di evitare nuovi scandali, di lasciare che suo marito si recasse all'indomani al suo posto, ed ella confidasse in loro.

Ma la conferenza dei testimoni che si protrasse a tarda notte non sapeva trovare uno scioglimento che appagasse ogni esigenza, quando l'Agata manifestò modestamente il suo parere.

– Impedire il duello, – disse, – mi pare impossibile; lasciare che si ammazzino è ancor peggio; o dunque perchè non dareste ai duellanti due pistole cariche a sola polvere, ond'essi ignorandolo possano provare tutte le peripezie del duello, senza subirne le terribili conseguenze? Dopo lunghe discussioni venne accettata la proposta, con giuramento solenne di conservare il segreto fino al termine dell'affare. E così fu fatto.

– In tal modo, – io dissi all'Agata, – voi avete inventato un nuovo genere di duello, che tuttavia non può aver luogo più di una volta sola.

– A me bastava salvare la vita e l'onore di due persone; al resto non ci pensavo.

– E come avete fatto a scoprire questo stratagemma?

– È stata una ispirazione, – ella soggiunse, – un'ispirazione d'un'anima santa che veglia in cielo sopra di voi. Mentre mio padre parlava concitato con Gaspare e Tobia, cercando di persuaderli ad evitare una disgrazia, io sentiva sul mio seno la medaglia di vostra madre, che pareva mi pulsasse per chiamare la mia attenzione. Allora mi parve ch'ella mi dicesse dall'alto « salvate l'onore e la vita a mio figlio » e certo i miei pensieri mi vennero infusi dalla potenza sovrumana d'una madre. – Qui, ritirando dal seno la medaglia, me la porse dicendomi:

– Datele un bacio, e un'altra volta siate più savio.

Io baciai affettuosamente la medaglia, ella se la ripose in seno, e camminammo lungamente in silenzio. Sentivo qualche cosa che mi strozzava la gola e mi toglieva la facoltà di parlare.

A mezzogiorno preciso Bitto comparve, come al solito, ad annunziare l'ora del pranzo.

La riunione intorno alla mensa ospitale fu lieta e conciliante. Il vino ingurgitato ci fece dimenticare quello perduto. E succede sempre così a questo mondo: i piaceri che consolano i nostri sensi ci fanno dimenticare i mali sofferti… dagli altri.

Alla fine del pranzo abbiamo chiamato Martino e ci siamo fatti raccontare la sua lotta col sorcio, ma nel punto più interessante, la vivacità del racconto esponendoci al rischio di veder rinnovata la catastrofe, abbiamo dovuto rimandarne la continuazione ad un altro giorno… come le appendici dei giornali.

– Tregua ai pericoli, – diss'io, – non bisogna provocare troppo la sorte. Oggi ci dovevano essere dei feriti e degli uccisi, e tutti furono salvi… uomini e bestie.

 

– Meno la damigiana!.. – soggiunse Uguccione con rammarico, chè, quantunque saturo di vino, non ne era ancor sazio.

Quando la conversazione si fece generale, e tutti parlavano in una volta, l'Agata, che mi sedeva vicina, mi disse all'orecchio:

– Gli uomini furono salvi senza loro merito… invece la bestia dovette la salute alla propria intelligenza, evitando il pericolo con destrezza, cogliendo il momento opportuno per cavarsela dalla sola uscita possibile, schivando i colpi malaccorti d'un uomo stupido.

– L'uomo, – io le risposi, – non si fa merito di evitare i pericoli colla fuga, ma preferisce di salvar l'onore a rischio della vita.

– Ma se le bestie, – ella soggiunse, – non sentono il bisogno della riparazione delle offese, gli è perchè fra loro non corre l'uso dell'oltraggio. Vivono più concordi degli uomini, hanno il coraggio di difendersi contro i propri nemici, quando ne vedono la possibilità, ma non si espongono leggermente a tanti pericoli.

– Perchè non possono contare sull'intervento della donna, – io aggiunsi, – la quale, rappresentando la Provvidenza, trova sovente il modo di accomodare col cuore ciò che l'uomo guasta colla testa!..

Abbassò gli occhi e tacque. – Alla sera, separandoci, eravamo tutti ritornati amici… almeno in apparenza.

XII

Un buon sonno mi riposò di tutte le scosse morali del giorno. Il sonno è lo spazio vuoto che divide le strofe del poema della vita. In quei giorni nei quali hanno termine i più gravi avvenimenti finisce anche il canto.

All'indomani del mio duello io cominciai dunque un altro canto colla sua nuova serie di strofe, cioè ripresi la vita, colle sue note liete e dolorose, colle sue rime obbligate e monotone, colla sua misura prescritta dalla prosodia, positiva come il materialismo del verso.

Le note liete mi venivano dalla natura in fiore, che consolava la vista coi sorrisi della primavera; le note dolorose erano l'eco del primo amore perduto, delle speranze deluse, dei dolci sogni svaniti. La monotonia la trovavo nella scuola, ove un gregge d'idioti imparava a leggere per conoscere anche i mali passati, a scrivere per offendere la grammatica, a far conti per ingannare il prossimo. Il lato positivo della vita mi veniva rappresentato da quattro sacchi di farina che mi pesavano sulle spalle, come all'asino del mugnaio!.. Bitto, che non aveva di questi pensieri, russava tranquillamente a' miei piedi, aspettando l'ora del pranzo, che non gli sapeva di sale quantunque andasse a chiederlo in casa altrui.

All'amore deluso avevo tempo da pensarci, la scuola andava avanti da sè, ma la farina bisognava pagarla.

Mi decisi al taglio d'un boschetto che avrebbe aspettato con vantaggio per qualche anno; ma quando si ha assoluta necessità di denaro, e si può trovarlo in un bosco senza assassinare un cristiano, si assassina il bosco, e si lasciano cantare i giornali, che deplorano il diboscamento delle pendici, perchè non hanno boschi da tagliare… ma tagliano i panni addosso ai galantuomini, come se fossero meno sensibili delle montagne!

Venduta la legna e intascato il danaro, partii per pagare il mio debito al mugnaio.

Il mulino è collocato in posizione pittoresca, alle falde d'una montagna vestita d'abeti, sulle rive scoscese d'un torrente, alimentato da una cascata.

Al cupo fragore della cascata, al gorgogliare delle acque spumanti che s'infrangono sui macigni caduti dall'alto, e serpeggiano fra i sassi e le ghiaie del torrente, si confonde il tonfo regolare delle ruote nella gora, e i battiti dei palmenti. Tutti questi suoni formano un accompagnamento grave e solenne al gorgheggio melodioso di qualche uccello sugli alberi, e al cigolare degli assi di ferro che girano sui perni asciutti. Questo è per l'udito. Per gli occhi, essi nuotano in un tal lusso di colori da restarne inebbriati. Dal tenero arbusto che si agita alla brezza sulla sponda del torrente, all'albero gigantesco colla cima infranta dal fulmine che protende le antiche fronde sui crepacci delle roccie ingombri delle sue tortuose radici, dal musco che copre di velluto i legnami fradici del mulino alla vitalba vagabonda che s'arrampica sulle piante vicine e ricade in festoni, dall'edera che tappezza i vecchi muri crollanti alle cupe ramificazioni degli abeti che ascondono i precipizi, si possono annoverare tutte le gradazioni del verde, e le sue decomposizioni dal giallo bruno al dorato, dal più cupo azzurro al turchino. Il candore delle spume del torrente illuminate dal sole, la lucida trasparenza delle acque bianche e cilestri nel letto di ciottoli, le nude roccie del fondo di colore cenerino contrastano colle tinte forti dei vicini clivi boscosi, e colle dense ombre che confondono l'acqua col terreno e le pietre, e il folto degli alberi coll'angolo della casa.

La scena era stupenda, ma il personaggio ch'io andava a visitare mi era antipatico come un creditore impaziente, come un orco che mi aveva divorato un bosco. Ma quale non fu la mia sorpresa quando, avvicinandomi al mulino, vidi comparire sul pianerottolo delle chiaviche la più bella testa di donna che possa aspettarsi un pittore in cerca del suo modello nella campagna di Roma. Era proprio uno di quei bei tipi della Sabinia che si vedono sovente alle esposizioni sotto al vago costume romano. Bruni i capelli e la pelle, l'occhio grande e vivace sotto due lunghi sopraccigli; un busto rigoglioso, due braccia ben tornite che finivano con una mano pienotta, un complesso di donna vigorosa e fresca, ecco l'aspetto della mugnaia. Un fiore di geranio rosso collocato leggiadramente sui capelli armonizzava cogli orecchini che le pendevano dalle orecchie, e con un filo di corallo che le cingeva il collo. Una leggierissima velatura di farina copriva quella deliziosa apparizione, e dava al suo viso il vellutato delle pesche non ancora spiccate dall'albero. È certo che l'aspetto d'una bella mugnaia deve aver ispirato la moda della cipria sui capelli e sulla pelle. Pareva che un nume propizio volesse ricompensarmi a misura di carbone dell'esile brunetta perduta a Milano, mettendomi davanti una bruna raddoppiata, e incipriata per giunta. Sorrisi della bizzaria del caso, e se mi fossi contentato di ammirarla da lontano come la prima, non ci sarebbe stato nulla di reprensibile… ma un pensiero infernale attraversò la mia mente, come una tentazione del diavolo!.. Se mi vendicassi?.. io pensai… ah! l'uomo che ha ricevuto le lezioni dell'amore impara a vivere, dissi fra me… e passati i vent'anni l'amor platonico non è più di stagione… Io non intendo, – ripetevo a me stesso, – io non intendo passare la vita adorando le donne a venti metri di distanza… perchè si burlino poi di me, e mi voltino le spalle… E meditando l'abbandono della contessa Savina… e pensando alla offesa ricevuta dal mugnaio… mi passò per la mente questa idea infernale: se mi vendicassi con una vendetta complessiva degli oltraggi dell'amore… e della farina?.. della contessa… e del mugnaio?..

Come se la contessa Savina fosse obbligata ad amarmi per forza… ed il mugnaio a fornirmi la farina per amore!.. Ma la natura perversa dell'uomo gli fa confondere sovente il desiderio col diritto, ed esso scompiglia la società per tradurre i suoi desiderii intemperanti in fatti compiuti. Fatto sta che l'aspetto della mugnaia fomentava le mie cattive inclinazioni, provocando in me un vile desiderio di rappresaglie. Non era un nuovo amore incipiente che mi spingesse verso di lei; era l'amore deluso, che m'indicava una vittima sulla quale potevo esercitare la mia vendetta. Pareva che la sorte offrisse un'occasione di sfogo ai miei rancori. Una brunetta m'era sfuggita di mano, un marito mi tormentava per cavarmi del denaro… eccomi una bruna forte… e forse una moglie debole… che poteva saziare la mia avidità di vendetta… Bisogna conquistare quella mugnaia, come la più bella delle vendette possibili!.. Con tali atroci sentimenti entrai nel mulino.

Io sperava che il mugnaio fosse assente, ma avevo fatto i conti senza l'oste.

Egli se ne stava in cucina, e tenendosi un marmocchio sui ginocchi, gli dava la pappa.

– Cospetto!.. – dissi, – sor Zaccheo, siete nel pieno esercizio delle vostre funzioni di balio…

Mi guardò sorridendo, e continuando tranquillamente il suo ufficio, mi rispose:

– Che vuole! dopo le fatiche ho diritto anch'io di godere qualche consolazione, l'affetto del mio bimbo; e la sua gioia quando gli dò la pappa è il massimo dei miei piaceri… veda come mangia con appetito!

– È un vero Gargantua, un lupo cerviere…

– Ha la buona salute di sua madre… poveretto… – poi rivolto al marmocchio gli diceva: – Mangia, mangia, il mio bimbo, che la fatica di guadagnarti il pane mi è più cara dell'ozio del milionario che non ha figli.

Io interruppi le considerazioni patetiche del mugnaio per dirgli:

– Sor Zaccheo… sono venuto a pagare il mio debito.

– Ha voluto proprio disturbarsi a fare questa gita… poteva farmi avvertire…

– Ho fatto la passeggiata con vero piacere… ora eccovi il denaro.

– Prenda una sedia e s'accomodi, – mi rispose; – poi si mise a chiamare: Giustina… Giustina… Giustinaaa.

La bella moglie comparve sulla soglia colla testa alta, le mani sulle anche, i gomiti sporgenti.

– Ohè… che c'è di nuovo?.. – e quando mi vide seduto in un angolo, mi fece una riverenza.

– È il signor Daniele Carletti…

– Ah… benvenuto, signor maestro, sta bene? – mi chiese come se fosse una vecchia conoscenza.

– Grazie, sto benissimo…

– Tanto meglio… la salute è la prima cosa di questo mondo… chi ha salute ha denaro… perchè quando si sta bene si lavora… e si mangia… – soggiunse, guardando con compiacenza il suo marmocchio che spalancava la bocca, dimenando allegramente le braccia, e le gambe, mentre Zaccheo prendeva la zuppa col cucchiaio di legno, vi soffiava sopra, l'avvicinava alle labbra per sentire se scottava, poi coll'indice l'accompagnava lentamente nella voragine di suo figlio.

– Giustina, – disse il mugnaio, – puoi fare il conto al maestro, che si è disturbato venendo in persona a pagarlo.

– Come? – essa domandò con sorpresa, – ella è venuto in questi greppi deserti per tale bazzecola?.. è una stradaccia rotta e faticosa.

– Non me ne sono accorto, – risposi. – Sono siti che mi piacciono assai, ho percorso un cammino delizioso, per giungere in un eden… ove si vedono le più belle cose del mondo! – e così dicendo la guardavo con un sorriso significante… ma essa non intendeva nulla, e rimase indifferente, anzi sorpresa del mio entusiasmo, talchè mi rispose ridendo:

– Tutti i gusti son gusti… ma questi orridi siti piacciono a poca gente… nessun viandante s'arresta fra i nostri burroni… anche i pastori vi passano in fretta per condurre le pecore sulle cime. Sono boschi e montagne senza paesi… buoni solo pei mugnai, che hanno bisogno d'acqua per far girare il mulino.

– A me sembrano siti deliziosi… incantevoli… vi passerei volentieri la vita… – e le lanciai una occhiata assassina… Ma che! fu come se avessi scagliato un uovo in una roccia!.. quella donna era un macigno!.. Essa alzò le spalle ridendo, e concluse:

– Se venisse qui al tempo della neve e del ghiaccio, scapperebbe via spaventato.

Non c'era verso di persuaderla; intanto il marmocchio avea vuotata la scodella della zuppa e piangeva. Zaccheo se lo prese in braccio, e cullandolo leggermente gli disse alcune parole senza significato, ma carezzevoli tanto che lo calmarono.

Allora la donna prese da uno scaffale un libraccio infarinato, un vero dizionario della crusca, perchè conteneva tutti i conti del mulino, ove si registravano i tesori della lingua: il pane e la polenta che alimentano la popolazione. Deposto il volume sul tavolo, si sedette gravemente, e sfogliandone le sacre pagine andò a cercare il mio nome fra i debitori morosi. Il marito si teneva in piedi dietro di lei col bimbo fra le braccia; io, sedutole vicino mentre essa calcolava il mio debito, contemplavo la fina lanugine che ombrava leggermente il suo labbro superiore, e pensavo che le avrei dato volentieri molto più di quanto mi domandava…

Contatole il denaro, se lo pose in tasca, intinse una penna di tacchino in un calamaio di legno, e con solenne gravità prese nota del pagamento.

Allora si parlò e si rise sopra varii argomenti. Io canzonavo Zaccheo sulle funzioni muliebri, egli accarezzava il bimbo, mi rispondeva che i giovinotti si burlano di ciò che non conoscono, che il cuore non ride mai… che nelle affezioni si confondono i sessi e le età, che il padre è come la madre, il nonno è come il nipote.

Mi disse che sua moglie era occupata negli affari, che fra l'uno e l'altro bisognava aiutare la barca. In tal modo presi conoscenza del loro sistema di famiglia, nel quale la donna primeggiava col pensiero e l'uomo con l'opera manuale; la prima ordinava, dirigeva, registrava le entrate e le spese, il secondo la serviva come un famiglio, andava a prendere il grano per le case dei villaggi vicini, lo gettava nella tramoggia, e ne riportava la farina. Infatti la moglie aveva la suprema direzione degli affari, il marito e l'asino facevano il resto.

 

Lo squallore del volto del mugnaio, aumentato dalla velatura di farina che avvolgeva tutta la sua persona, contrastava grandemente colla freschezza della moglie, la cui rara avvenenza era rilevata da una salute così vegeta che sforzava le cuciture.

Osservandola attentamente io andava sempre più confermandomi nel sinistro progetto di farne la conquista, e per facilitarmi le operazioni dell'assedio trovai necessario di prendere alcune precauzioni, predisponendo le cose in modo che gli approcci alla fortezza non riuscissero sospetti. Dissi che mi dilettavo di pittura, occupando le ore che mi restavano libere dopo la scuola a riprodurre le più belle vedute del paese. Mostrai il desiderio di copiare quella stupenda cascata; e questo primo stratagemma mi riuscì a meraviglia. Mi rispose ch'io non ero il primo che mandasse ad effetto tale divisamento, avendo già veduto varii artisti seduti per intiere giornate sotto un albero disegnando il paesaggio. Mi offersero anzi l'ospitalità, se avessi bisogno di riposo, e la loro ingenua cordialità avrebbe dovuto farmi subito desistere dalla mia scellerata macchinazione.

Non intendo giustificare un attentato che ora risveglia i miei rimorsi e mi fa arrossire di vergogna, ma credo d'aver diritto di reclamare le circostanze attenuanti. Se la bellezza della greca Frine la fece uscire dall'Areopago assolta da ogni accusa, io sono convinto che all'aspetto della mugnaia i miei giudici non potrebbero essere più severi dei vecchi senatori d'Atene e dovrebbero giudicare con indulgenza un giovane di vent'anni che aspirava alla conquista della Frine del mulino.

Fatto sta che alcuni giorni dopo la prima visita volli eseguire alcune ricognizioni nei dintorni della fortezza, per conoscere i movimenti del nemico, e riuscii a scoprire le ore precise delle uscite giornaliere del presidio.

Il presidio nemico si concentrava naturalmente nel mugnaio, ed io, nascosto dietro una roccia, lo vidi varie volte alla solita ora comparire sopra il suo asino, sul vertice d'una collina dietro la quale s'ascondeva il mulino. E dopo tanti anni mi pare ancora di vederlo. L'asino, il sacco ed il mugnaio formavano un gruppo d'una mezza tinta uniforme come il marmo piramidale secondo le leggi scultorie, e spiccava pittorescamente sul verde scuro del bosco che formava il fondo del quadro. Mi riuscì dunque agevole impadronirmi del mulino in un momento opportuno, e gettare qualche razzo incendiario, in via d'esperimento. Tentativo fallito!.. La minaccia d'una vigorosa risposta mi consigliò subito a battere la ritirata, aspettando una migliore occasione per ritornare all'assalto.

L'assedio procedeva regolarmente, con tutte le regole indicate dall'arte. Al mattino andavo a disegnare la cascata: era una finta necessaria per ingannare il nemico sui miei movimenti; più tardi rientravo al bivacco, cioè facevo colazione al mulino coi commestibili che portava meco per alimentare la truppa all'assedio. Talvolta mi procacciai qualche ghiotto boccone, e dell'ottimo vino… sperando di prenderla per la gola, ma i miei tentativi riuscirono vani. La mugnaia accettava cordialmente le mie offerte, se le divorava senza cerimonie, e colla stessa semplicità mi obbligava di prendere i suoi frutti secchi, il pesce fritto e la polenta del mulino. Era uno scambio di cortesie leali e nulla più. Io approfittava di quei momenti per avanzarmi di qualche passo, colle parallele del sentimento, ma essa mi rispondeva con un'artiglieria che distruggeva le mie operazioni preparatorie, e rendeva vane anche le piccole scaramuccie.

Stanco e annoiato di perdere tanto tempo senza frutto, un giorno, con un rapido movimento, girando la posizione di fronte per l'ala sinistra, volli tentare di prendere la piazza con un ardito colpo di mano. Ma anche questa sorpresa ebbe un esito infelice… e pericoloso. Sono sfuggito per miracolo ad un rovescio, che mi avrebbe causato delle gravi perdite, se avessi mancato di quel genio che guidava il principe Carlo d'Austria nelle sue ritirate davanti l'impeto degli eserciti del primo Napoleone.

Con destrezza insuperabile ho salvata la testa! le difficoltà si facevano sempre più gravi, la fortezza presentava una resistenza insormontabile, ed io rientrava sovente nei miei quartieri ferito nell'orgoglio, e talvolta anche altrove, ma spinto da ogni nuova ripulsa a tentativi più arditi.

Una sera me ne tornavo dall'attacco rimuginando col pensiero qualche astuzia guerresca, quando sentii Bitto da lontano che abbaiava allegramente, come soleva fare incontrando gli amici. Infatti alla svolta del monte vidi una brigata di persone che avanzava dalla mia parte. Era la famiglia Bruni, e il dottore con sua moglie che facevano una passeggiata vespertina.

Quando mi furono dappresso, m'avvidi che si scambiavano delle occhiate d'intelligenza, e che ciascheduno aveva un sorriso o un sogghigno sulle labbra.

– Oh… quale sorpresa! – esclamò il signor Nicola, – il maestro Daniele da queste parti… a quest'ora…

– Nessuna sorpresa… – io risposi… – perchè vedo che mi siete venuti incontro.

– Sì… no… è vero… non è vero, – tutti volevano dissimulare la verità, ma colla franchezza della mia risposta io avevo gettato il disordine nel campo nemico.

– Infatti, – soggiunse il signor Nicola, – è lecito sapere che cosa vi attira da queste parti?..

– Perbacco, – io risposi, – vogliono che io faccia dei misteri?.. vado a studiare una cascata…

– Ah!.. ah!.. ah!.. benissimo… è ben trovata, – osservò il signor Nicola.

– Va a prendere delle doccie… – proseguì il medico.

– Ha ragione, signor maestro, fin che è giovane si diverta, – continuò la signora Pasquetta, che si mostrava sempre indulgente pei peccatuzzi dell'umana fragilità.

– Eppure, – riprendeva il signor Nicola, – quella cattiva lingua di Tobia pretende che abbiate degli interessi al mulino… e siate infarinato a dovere!..

– Ahimè, povero Zaccheo!.. – replicava il dottore levandosi il cappello, e simulando colle dita sulla testa certi ornamenti animaleschi, che facevano arrossire la signora Pasquetta fino al bianco degli occhi.

Vedendo il dottore a fare quegli scherzi, non ho potuto trattenere le risa, e diedi in uno scroscio sgangherato accompagnato dai singulti del signor Nicola, che scoppiava nella pelle. La signora Giovanna rideva essa pure, ma il dottore rideva più di tutti… Agata era andata avanti con Bitto, e gettava dei sassi, che egli correva a prendere, riportava e depositava a' suoi piedi, abbaiando con insistenza per ottenere che la ragazza li gettasse nuovamente.

Intanto noi si rideva allegramente vedendo il dottore contento come una pasqua dell'effetto irresistibile prodotto da' suoi scherzi; egli, incoraggiato dal buon successo, continuava a burlarsi di Zaccheo, malgrado le preghiere di desistere che gl'indirizzava la moglie, divenuta pavonazza dalla tortura.

Essendoci accorti che la signora soffriva davvero, abbiamo abbandonato il soggetto scabroso, cambiando discorso.

Era l'ora del tramonto, e volendo rientrare al villaggio prima di notte abbiamo abbandonata la strada maestra, prendendo una scorciatoia per un sentiero tortuoso fra due siepi.

La viuzza angusta non permetteva il passaggio che a due sole persone di fronte. Io precedeva la comitiva insieme con l'Agata, poco dopo seguiva il signor Nicola colla signora Pasquetta, ed ultimi il dottore colla signora Giovanna. Bitto andava avanti e indietro, su e giù per l'erta, come sogliono fare i cani… e gl'innamorati.

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