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Il bacio della contessa Savina

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XVIII

Una sera, appoggiato al balcone della mia stanza, contemplavo la campagna, fantasticando sul nuovo amore e sulle nuove speranze, e pensavo all'oro dei suoi capelli, e, senza pregiudizio della passione, anche all'oro della borsa del babbo, che accompagnato ai pregi materiali e morali della figliuola poteva comporre una famigliuola felice. Mi compiacevo nell'idea d'essere finalmente riuscito a mettere d'accordo il cuore e la ragione, quando vidi passare da lontano i coniugi Bruni senza la figlia. – L'Agata sarà sola in casa, pensai subito; prendiamo l'occasione pei capelli! E corsi difilato in casa Bruni. Infatti l'Agata era sola, ma non mi ricevette più nel salotto come soleva fare in passato, e invece mi trattenne in cucina con Martino e la Menica. O perchè dunque non mi riceveva più come le altre volte, coll'intimità di un fratello?.. A tale domanda, che io facevo a me stesso, rispose subito la mia coscienza: Ecco, essa mi diceva, i tuoi sguardi amorosi le hanno rivelata la tua passione. Hai perduto i diritti acquisiti, per acquistarne altri, con altro titolo ed altre condizioni.

Il concittadino che diventa pretendente esce dalla legge, deve apparecchiarsi alla corona o all'esiglio e rinunziare alla vita comune.

Mi rassegnai al mio destino, e soddisfatto del suo onesto contegno, procurai d'apparecchiarmi… alla corona.

Per fortuna, la Menica andava e veniva senza darsi pensiero dei nostri discorsi, Martino intendeva il senso delle parole assai meno di Bitto, chè il suo dizionario non aveva che poche pagine, e per lui tutto ciò che non era volgare era arabo. Poco dopo la Menica scomparve, Martino la seguì e restammo soli. Io mi sedetti al focolare, scaldandomi le mani, parlando di cose indifferenti, e guardando l'Agata con affettuosa attenzione, mentre essa in piedi raccoglieva i tizzoni colla molle, e disegnava dei geroglifici sulla cenere.

Come era bella!.. le morbide treccie le cingevano la fronte serena, come un diadema; l'occhio limpido e profondo brillava d'una luce tranquilla fra i molli contorni del volto, che colla dolcezza del sorriso rivelava la soavità del sentire. Le movenze delle sue membra snelle e flessibili non accusavano artifizi, ma una naturale mollezza le rendeva eleganti.

Confrontando i pregi di lei colla mia tempra e colla riputazione di cervello balzano confermata dai miei stravizi, mi mancava affatto il coraggio di esprimerle colle parole quello che le avevo già detto cogli occhi.

Dopo qualche esitanza, pensai che prima d'espormi con una dichiarazione imprudente era meglio mi assicurassi della sua opinione sul mio conto, e tremando per la risposta, rivoltomi a lei con uno sguardo supplichevole, la interrogai in questi termini:

– Agata… ditemi francamente che cosa pensate di me…

– Che siete un galantuomo… quantunque un poco fantastico; un uomo intelligente, quantunque poco studioso… ecco tutto.

– Riconosco la vostra indulgenza… siete buona come siete bella, vorrei aprirvi il mio cuore… dirvi che mi foste sempre simpatica… ma che da qualche tempo questa simpatia minaccia di far progressi… e di trascinarmi… Infatti temo di perdere la vostra stima… non oso sperare… nè dirvi di più.

Essa alzando gli occhi, e guardandomi in faccia apertamente, mi incoraggiò con uno sguardo che voleva dire: – Vi amo!

Io le risposi con una di quelle occhiate che non lasciano dubbio, che si leggono a prima vista anche dagli analfabeti, e che significano chiaramente: – Vi adoro!

I nostri occhi scambiarono lungamente i loro raggi, fino a tanto che io mi sentii affascinato da quella luce; essa abbassò le pupille facendosi rossa come una bella rosa di maggio. Allora, esaltato dall'entusiasmo, esclamai:

– Agata… vi ringrazio… ora sono felice!

– Felice di che cosa?.. – mi chiese con un'aria che mi fece rabbrividire, – e di quale favore mi ringraziate?

Mi sentii vacillare… mi pareva di guardare nel fondo d'un precipizio… mi sentivo attratto dal vuoto… i capelli mi si drizzavano sulla fronte… Credo che essa abbia avuto paura, perchè mi posò una mano sul ginocchio, chiedendomi con inquietudine:

– Che cosa avete?

– Mi sento morire!.. – risposi.

– Mio Dio!.. come passate rapidamente dalla felicità… alla morte! Su via… fatevi animo… qual è il motivo di tali eccessi?

– Voi… voi sola.

– Io?.. Ma che cosa vi ho fatto io?

– M'avete detto: vi amo! e poi avete finto d'ignorarlo.

– Ma io non ho mai pronunciate quelle parole!

– È vero… non me lo avete detto colle parole, ma cogli occhi… quelle possono mentire, questi non mentono mai… io so leggere negli occhi meglio che nei libri… e con essi mi avete detto: vi amo!.. Potete negarlo?..

Sorrise graziosamente, rinnovò la dolce espressione degli occhi, e mi disse:

– Come siete esperto nella conoscenza del linguaggio arcano dell'anima!.. lo avete dunque studiato lungamente?..

– Domanda insidiosa!.. – io soggiunsi. – Risponderò sinceramente a suo tempo, ma ora m'interessa di più conchiudere la quistione che mi tiene sospeso tra la vita e la morte. Ditemi, ve ne prego: quando io ho tradotto nel linguaggio volgare l'espressione dei vostri occhi, mi sono ingannato?..

– Siete un traduttore traditore, – mi rispose ridendo.

– Ma vivaddio!.. vi costa dunque tanto una spiegazione sincera? temete forse di qualche cosa?..

– Avete indovinato anche questa volta. Sì, temo mille cose. Vi sono parole che dette una volta segnano il destino della vita, e non si possono pronunziare senza esitanza. Bisogna pensarci seriamente; da una sillaba dipende talvolta la nostra sorte: sì o no, possono significare talvolta una lunga serie d'anni felici o dolorosi, è il dado gettato che decide delle gioie o delle sventure non d'una persona, ma d'una famiglia e forse d'una lunga generazione! Bisogna pensarci seriamente.

– Ma il cuore?..

– Ah il cuore!.. ebbene è appunto il cuore leggiero che più pesa gravemente su tutto e su tutti!.. È il cuore leggiero che si lascia trascinare troppo facilmente dalle sue inclinazioni subitanee, senza dar tempo alla mente di ponderarle, che poi trascina alle gemonie i suoi seguaci, e li precipita con sè stesso negli abissi di sventure che fanno della vita domestica un inferno… macchiano d'infamia i nomi più onorati… e talvolta spingono alla disperazione e al delitto!.. Vi par facile a voi dire sì o no sulla strada da seguire nel pellegrinaggio terreno; eppure è la decisione più grave della vita!..

– Ma l'amore è cieco, – io osservai.

– Bisogna guarirlo, – mi rispose.

– Oh sta a vedere, – io soggiunsi, – che voi proponete di mandar l'amore in un istituto oftalmico, oppure all'istituto dei ciechi per fargli insegnare a leggere sulla scrittura in rilievo, e imparare un mestiere.

– Sicuro, l'amore moderno deve essere ragionevole, ponderato, prudente.

– Agata, – io esclamai, – per una ragazza siete troppo positiva.

– Vi piacerebbe meglio che fossi più fantastica?.. più accessibile alle illusioni, più facile alle lusinghe… che cercassi l'uomo ideale?!..

– No, per carità, Agata… gli uomini e le donne ideali non si trovano che nei romanzi.

– Ebbene siamo dunque d'accordo: l'amore degli antichi non è più dei nostri tempi. Noi gli abbiamo tagliato le ali, è vero, ma lo abbiamo anche guarito dalla cecità. Ora egli va per la sua strada in costume moderno, e non è più pericoloso. Per questo ogni ragazza onesta può viaggiare sola e sicura attraverso l'Europa, frequentare le Università e le Accademie, rispettata da tutti. Anticamente non era così. Cupido si cacciava dovunque. Quel fanciullo colle ali e la benda agli occhi, munito d'arco, freccie e faretra, tirava a caso sui passanti, e metteva tutti in pericolo. Se lo vedete ancora ai nostri tempi raggirarsi nella società, penetrare di soppiatto nelle case coll'astuzia raffinata del contrabbandiere, dite pure francamente che è un malfattore… o un imbecille. E guai alle sue vittime!..

– Avete ragione… anche nelle affezioni bisogna dar luogo alla ragione, e mettere d'accordo il cuore e il buon senso. Io ho fatto anche questo, e offrendovi un amor cordiale e profondo, credo in pari tempo di potervi assicurare che ho consultato anche la ragione e le convenienze. A meno che voi e i vostri parenti non mi troviate troppo povero per aspirare alla vostra mano. Questo dubbio mi ritenne di manifestarvi prima d'ora la mia affezione.

– I miei genitori vi stimano e vi vogliono bene, e non intendono certo di vendermi al maggior offerente, ed io credo che veramente poveri non sieno che gli oziosi… e gl'ignoranti. Chi studia e lavora ed ha un buon capitale nel cervello, non è mai povero.

– Dunque voi non sarete contraria ai miei voti e non mi stimate indegno d'aspirare alla vostra mano?

– Solo una vaga apprensione mi arresta… un timore indeterminato di pericoli ignoti… di non bastare alla vostra felicità… di non avere virtù sufficiente per fissare la vostra vita… Ve lo confesso francamente: io non avrei la forza di sopravvivere al minimo disinganno… Intendo offrire tutta me stessa a chi mi possa promettere altrettanto… per la vita… per l'eternità… senza restrizione di sorta… fino l'ultimo pensiero… O tutto o niente!..

Dicendomi queste cose il suo occhio aveva assunto un'animazione straordinaria, che dava alla sua attitudine una posa decisa ed energica. Era un nuovo aspetto della sua bellezza. Fiera come una regina che impone le sue condizioni all'alleato, essa attendeva una risposta breve ed esplicita come la sua sentenza. Non la feci attendere lungamente:

– Avrete tutto!.. – le risposi. – Ve lo giuro sull'anima di mia madre!..

Essa mi stese francamente la mano, dicendomi:

– Sarò vostra per la vita!

– Dunque mi amate veramente?

– Sì, vi amo…

I nostri sguardi dissero molto di più, perchè non vi sono parole in nessuna lingua per esprimere certi sentimenti dell'anima. L'eloquenza dell'amore sta nel silenzio.

 

Stemmo fino a notte inoltrata soli ed al buio, senza scambiare una parola. Io aveva presa una sua mano nelle mie, e un fluido arcano aveva messo in comunicazione i nostri cuori che corrispondevano fra loro.

La Menica rientrando accese il lume, Martino mise della legna sul fuoco che era quasi spento, e i signori Bruni, ritornati dalla loro escursione, ci trovarono seduti uno vicino all'altro come due colombi in un nido.

All'indomani scrissi una lunga lettera a mio zio nella quale gli svelavo il mio amore per l'Agata e il progetto di matrimonio chiedendo il suo assenso.

Non appena partita la lettera, rammentandomi il passato, incominciò a frullarmi per la testa che il lirismo delle mie frasi potesse produrre un funesto effetto sull'animo positivo di mio zio. Egli che giudicava l'amore coll'aritmetica, che alla poesia d'un primo affetto opponeva l'ostacolo dei milioni, che sfoggiava tutta la sua rettorica per dimostrarmi che un misero non ha il diritto d'ammirare la bellezza risplendente fra i fulgori della fortuna, egli avrebbe riso certamente anche questa volta della mia nuova pretesa.

Ma ov'era la mia colpa, s'io non sapevo trovare le perle negli stracci, se, attirato dalla bellezza d'un volto e dal prestigio d'un sorriso, m'imbattevo sempre nella trappola dello scrigno, senza vederlo?..

È dunque facile immaginare quale fosse la mia sorpresa quando ricevetti una lettera dello zio, che aderiva pienamente al mio piano, lodava l'ottima scelta, mi muniva d'una commendatizia pel signor Nicola, nella quale appoggiava la mia domanda con argomenti decisivi, e prometteva d'intervenire alle nozze. Però, secondo i miei presentimenti, l'aritmetica non mancava, ma questa volta i calcoli del buon zio non erano fatti per dimostrare la mia inferiorità, ma per rialzare il mio valore. Non si trattava più d'una sottrazione, ma d'una moltiplica. Vedendo la necessità d'accogliere degnamente una sposa, avvezza agli agi della vita, esso destinava immediatamente una somma per l'allestimento della casa e le spese occorrenti, e mi faceva un annuo assegno, per mettere la mia condizione economica in armonia con quella della sposa.

Questi atti generosi mi commossero fino alle lagrime e mi posero in condizioni tali da poter chiedere la mano d'Agata senza arrossire. Un padre affettuoso non avrebbe potuto fare di più, e la mia risposta fu quale doveva essere quella d'un figlio che riconosce il beneficio, e che esprime la sua gratitudine con tutta l'espansione del cuore.

L'esito della domanda formale della sposa fu quale potevo desiderarlo.

Il signor Nicola mi gettò le braccia al collo dicendomi che da quel momento mi considerava quale suo figlio, la signora Giovanna mi baciò con pari affezione, e l'Agata, che ci guardava commossa, mi parve più bella che mai; la Menica piangeva della nostra allegrezza, e Martino, incerto se dovesse ridere o piangere, restava fra le due, cogli occhi lagrimosi e la bocca ridente, come le selci delle sue montagne all'aurora d'un giorno sereno, bagnate dalla rugiada e rischiarate dal sole.

L'epoca del matrimonio venne fissata per le vacanze autunnali; allora gli sposi sarebbero liberi, lo zio avrebbe risparmiato di fare il viaggio apposta fermandosi al villaggio dopo i bagni, e intanto ci restavano alcuni mesi di tempo per mettere in assetto la casa e apparecchiare il corredo. Quell'inverno scorse rapidamente, e fu uno dei più fausti della mia vita. La felicità dell'aspettativa d'un bene assicurato è superiore alla felicità del bene conseguito, perchè alla più dolce realtà si accoppia sempre qualche piccola dose d'amarezza. L'assoluto non esiste che nel cervello.

Facevamo ogni sera lunghe letture confacenti allo stato dell'animo. Leggevamo dei romanzi nei quali la vita era una burrasca, e l'amore trovava ogni sorta d'ostacoli per giungere al suo scopo; il confronto colla tranquilla esistenza, che sorrideva ai nostri voti, accresceva il valore di quella pacifica condizione, che ci rendeva tanto facile ciò che a personaggi eroici costava sforzi inauditi.

I nostri occhi s'incontravano sovente, e mettevano i cuori in comunicazione; talvolta l'Agata poggiava leggermente il suo piede sopra il mio, e quella dolce pressione rendeva più soave l'armonia delle nostre anime, producendo l'effetto dei pedali sul pianoforte.

Al di fuori, il nostro matrimonio era divenuto il soggetto principale di tutti i discorsi. Si parlava della mia fortuna, e si diceva che il signor Nicola sacrificava l'unica figlia, concedendola in isposa ad un povero maestro. Altri rispondevano che un maestro foderato d'un canonico diventava morbido come un cuscino imbottito. Le donne citavano le mie prodezze al mulino e mettevano fuori dei cattivi pronostici; chi ricordava la notte all'osteria, il vizio del giuoco e del vino, chi mi dipingeva come uno scioperato, senz'ordine e senza giudizio, e tutti facevano le meraviglie della incredibile condiscendenza dei Bruni.

Basta avere una fortuna a questo mondo perchè gli oziosi e i malevoli si scaraventino contro di voi, vi facciano l'esame di coscienza come i giudici inquisitori, vi contino in tasca i quattrini, e vi taglino i panni indosso. Tutta invidia!.. Nella pentola sociale bolle sempre l'antico intingolo delle streghe, composto di mille sozzure, ove si confondono i rospi coi serpenti, e tutte le carogne che appestano l'aria. Non c'è rimedio, bisogna lasciare che la pentola bolla senza coperchio, affinchè il vapore non si condensi e scoppii con grave pericolo.

Uguccione della Fagiuola, che era stato il primo a trascinarmi all'osteria e a mettermi in mano le carte, era il primo anche a denigrarmi ed a pungermi colla sua lingua di vipera. Egli sosteneva che tutti i canonici hanno dei nipoti che vengono rappresentati sulla cappa magna da quelle code nere che spiccano sulla pelle dell'ermellino, come tante macchie!.. Colui ch'era stato il fomite principale de' miei stravizi diventava il propagatore più maligno delle contumelie. I malvagi sono sempre funesti; bisogna fuggire il loro contatto. Essi vivono nei siti uggiosi e nel fango come i funghi velenosi; e sono veramente i funghi sociali.

Uguccione coll'organo della chiesa scorticava le orecchie ai divoti, e coll'organo della sua voce cavava la pelle ai galantuomini. Esso rappresentava a perfezione la maldicenza con tutte le sue voci discordi ed abbominevoli. Invece il campanaro, venuto a cognizione del mio matrimonio, raddoppiò le sue riverenze, coll'intenzione di raddoppiare il suono dei sacri bronzi, il giorno delle nozze, a gloria ed onore degli sposi… e della mancia che si aspettava in ricompensa del frastuono col quale assordava il paese. Esso era l'avidità in persona.

Ugolino Gonzaga si struggeva di rancore, vedendo un maestruncolo del villaggio salire più in alto di lui, che credeva di rappresentare la scienza medica colla scatola delle pillole, e non poteva rassegnarsi che il sillabario avesse soperchiato la terapeutica. Esso faceva la parte dell'invidia. Il medico censurava il possidente più ricco del paese che scendeva a stringersi in parentela con un orfano sprovveduto di censo, quando avrebbe potuto maritare la figlia a un signore.

Insomma la maldicenza, l'avidità, l'invidia, la superbia serpeggiavano nel piccolo villaggio, unitamente all'ignoranza e ai pregiudizii che ne formavano il fondo.

Nauseato di tante ciarle volgari, irritato da tante calunnie, inasprito da così malevoli insinuazioni accolte da una ciurmaglia d'idioti, io esclamava:

– La natura è bella al villaggio, ma sarebbe più gioconda se si potesse distruggere la razza malvagia degli abitanti!..

Poi ritornato in calma, e moderato dalla ragione e dal cuore, riprendevo:

– Distruggerla moralmente, come si distrugge l'ignoranza, col mezzo dell'educazione, trasformando quegli animali selvaggi in uomini ragionevoli, onesti e civili.

XIX

Amore e sdegno risvegliarono la mia musa; il miraggio della gloria ritornò a inebbriarmi, i sogni teatrali di Milano vennero nuovamente a cullare le mie speranze, ripresi la tragedia, ispirato dalle diverse passioni che mi agitavano l'anima innamorata e sdegnosa.

Scrivevo lunghe tirate di versi da perdere il fiato, volavo all'empireo sull'ali dell'iperbole, vedevo gli uomini al basso piccini piccini che si raggiravano come formiche intorno al formicaio, e la mia elevazione mi lusingava di giungere agli astri.

Finalmente finito, corretto, messo in netto, declamato nella solitudine della mia stanza, il mio Lucchino Visconti mi parve un capolavoro. Desideroso di farne una prima prova, senza esporre il mio nome, dissi di aver ricevuto da un amico di Milano il manoscritto di una tragedia, e pregai l'Agata di fare degli inviti per darne lettura.

Per tale trattenimento letterario venne fissata una domenica, si apparecchiarono dei rinfreschi e si mandarono ad invitare i notabili del villaggio e dintorni. Tutti coloro che senza saperlo mi avevano servito di modello facevano parte del pubblico: il parroco, il medico e sua moglie, il farmacista, l'organista, il signor Nicola, e per giunta i miei colleghi del circondario, i curati delle vicine parrocchie, i cappellani, i fabbricieri, i sagrestani, i segretari comunali e i cursori.

Alla sera del giorno fissato io giunsi col mio manoscritto sotto il braccio, e trovai la società raccolta che mi attendeva con grande aspettativa. Il salotto era stato apparecchiato opportunamente, le sedie formavano un semicerchio intorno d'un tavolo coperto d'un tappeto verde, e munito d'un bicchier d'acqua e d'una lucerna. Il paralume, concentrando la luce sul manoscritto, lasciava nella penombra gli uditori, ch'io non vedevo. La lettura incominciata alle otto finì alle dieci. Tutto concentrato in me stesso io declamava con passione, con impeto, con ardore o con tenerezza secondo i casi. Alla fine d'ogni atto mi riposava pochi istanti, ed allora scoppiavano degli applausi clamorosi che raddoppiavano la mia forza.

Finita la lettura, il battere delle mani e dei piedi, le acclamazioni iterate, le esclamazioni di sorpresa, gli elogi enfatici ed entusiastici annunziarono un vero trionfo.

– È un capolavoro!.. stupendo… inarrivabile!.. – dicevano in coro, – è un'opera destinata ad uno strepitoso successo… l'autore è un genio… altro che Alfieri!..

Incominciò il rinfresco; vini fini, pasticcerie, salumi, liquori, caffè, una gozzoviglia improvvisata, ma abbondante e saporita; tutto si consumava, tutto scompariva nelle bocche spalancate come voragini, i tavoli forniti di squisiti manicaretti restavano spogli come le campagne dopo il passaggio delle cavallette. Uguccione della Fagiuola, l'uomo più mordace del paese, non aveva il tempo da biasimare la tragedia: la maldicenza tace quando ha la bocca piena.

Calmato il primo furore dell'entusiasmo e dell'appetito, s'erano formati dei gruppi secondo le condizioni e le tendenze delle persone, chi per digerire in pace e tranquillità quanto aveva divorato, chi per sputare sentenze, chi per udire modestamente le opinioni dei giudici più competenti.

Il dottore, colla solita prosopopea, lisciandosi i capelli, alzando la testa, accomodandosi i solini, circolava pettoruto e tronfio come un diplomatico ad un ballo di corte, ascoltando le conversazioni con un sorrisetto beffardo, alzando le spalle di tempo in tempo in aria di canzonatura, con evidente desiderio d'essere invitato a dire il suo reputato parere.

Molti se ne avvidero, e finita la refezione, divorate perfino le bricciole, e tracannata fino all'ultima goccia, egli venne pregato da varie parti di presentare una critica assennata e sapiente di quel lavoro letterario, lasciando da parte le opinioni volgari ed incompetenti, pronunziando un giudizio definitivo e inappellabile. Dopo essersi fatto pregare alquanto, colle solite giustificazioni della falsa modestia, finse di cedere per cortesia al voto generale, e andò a sedersi nel centro dell'uditorio, come un professore che deve dare la sua lezione. Incominciò a soffiarsi il naso e a tabaccare con gravità, poi chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, come per raccogliere i reconditi pensieri che vagavano nelle cellule del suo cervello, e finalmente, accennando di far silenzio, diede un'occhiata all'intorno e incominciò in questi termini:

– Signore… e signori, è cosa ardua ed ardita ad un tempo il voler giudicare un lavoro importante dopo una sola audizione. Tuttavia, senza veruna pretesa, eccovi per sommi capi il mio giudizio: prima di tutto questa produzione drammatica non può dirsi tragedia, a stretto rigore di termine, e secondo le classiche tradizioni. Se gli antichi devono essere maestri, essi ci fecero vedere che ogni catastrofe che non finisca col ferro non ha diritto di vestire il coturno…

 

Siccome la maggior parte dell'uditorio non intendeva niente alle elucubrazioni dottrinarie del dottore, così le trovava sublimi. Per gl'idioti il sublime sta nell'ignoto. Egli continuava con sussiego magistrale:

– Il brando e il pugnale sono i soli arnesi degni degli eroi da tragedia, il veleno è cosa volgare, buono pei drammi prosaici dei teatri diurni. La tragedia vuol sangue!.. sangue, non droghe!.. Lucchino avvelenato fa la figura d'un marito babbeo vittima di un farmacista!..

Qui scoppiarono delle risa da varii punti della sala, il farmacista fremeva, la signora Pasquetta si dimenava sulla sedia come se fosse seduta sulle spine. Soddisfatto dell'effetto prodotto, il dottore sorrise alla sua volta, e poi riprese il discorso:

– L'intervento della farmacia mi guasta la tragedia, il decotto fa nausea, il tiranno colla colica diventa ridicolo.

Allora le risa ripresero con maggior forza di prima, e l'oratore dovette subire una lunga interruzione. Egli stesso cercava invano di frenare la ilarità che lo invadeva, e non riusciva che a singhiozzi interrotti.

Finalmente si giunse a ristabilire il silenzio ed egli riprese:

– Se il tiranno è un babbeo, suo fratello, l'arcivescovo Giovanni, lasciato in disparte negli affari di Stato, fa la figura d'un idiota!..

– È giusto… – disse il parroco don Vincenzo Liserio.

– Ed Uguccione della Fagiuola, – soggiunse il dottore, – è un imbecille!..

– Verissimo! – esclamò Tobia.

– Ma ciò che toglie all'azione ogni dignità, ciò che fa cadere il fatto principale a livello degli intrecci comici di Pulcinella, si è la balordaggine del protagonista che non s'avvede d'essere tradito dalla moglie…

La signora Pasquetta diventò pallida, il farmacista si fece rosso, il pubblico non osava fiatare, e il dottore imperturbabile proseguì:

– Per me dichiaro apertamente che Lucchino Visconti non merita gli onori della tragedia, la quale non deve occuparsi che degli eroi… o degli scellerati, e lasciar da banda i minchioni. L'eroe, tradito nell'onore, immerge la spada fino all'elsa nel cuore dei traditori!..

La signora Pasquetta diede un guizzo dal raccapriccio, ma uno sguardo rassicurante del farmacista parve calmarla… Il pubblico rideva sempre di più.

– Avete ragione di ridere, – continuava il dottore, – i mariti ignoranti non sono fatti per la tragedia, ma per la commedia. Lucchino è una vittima come se ne vedono tante! La moglie infedele lo rende ridicolo facendolo morire nel suo letto per mezzo di un farmacista, dopo d'avergli gettato nel fango la corona ducale, e d'avergli messo sulla testa la corona… del martire!..

A questo punto le risa sbardellate divennero convulse, non si sentivano che gemiti e guaiti, pareva che subissasse la camera, anzi la casa; la mimica che accompagnò le ultime parole del dottore era riuscita irresistibile. Bisognava ridere o morire.

Il critico ebbe un successo molto superiore a quello ottenuto dal tragico; così alla tragedia promessa era succeduta una farsa impreveduta, e lo spettacolo fu completo.

Il dottore assaporava il successo con ebbrezza, vedeva in lui l'uomo felice, e a chi gli faceva degli elogi, egli rispondeva:

– Ecco, io son fatto così!.. non ho riguardi per nessuno… a chi tocca tocca… io intendo la critica in questo modo… tanto peggio per le vittime… non c'è merito… la franchezza del mio carattere è un dono di natura.

Così finì allegramente quella serata, con grandissima soddisfazione degli intervenuti, e specialmente del dottore, che ritornandosene a casa a braccetto della moglie, gongolava del suo trionfo e ripeteva al farmacista che li accompagnava:

– Dite la verità, Gaspare, vi pare che io abbia sfoderato dello spirito?.. Non voglio adulazioni, ma dovete confessare che ero in vena. È inutile, ci vogliono delle occasioni favorevoli per farsi conoscere. Io era nato per il fôro e la tribuna!.. sarebbe la mia passione demolire gli avversari. Povero Lucchino Visconti, l'ho polverizzato!.. Ma è un fatto positivo: il tempo delle tragedie è finito!..

All'indomani, entrando in casa Bruni, il signor Nicola mi venne incontro dicendomi:

– Ti prego per carità di non venirmi più a leggere delle tragedie, se non vuoi farmi morire dal ridere… mio Dio! Dopo iersera mi duole ancora la milza!..

Io corsi dall'Agata per sentire il suo parere, essendomi stato impossibile di chiederglielo la sera antecedente.

– Avrei due cose da dirti in proposito, – mi rispose, – ma non posso dirtene che una sola.

– Bene, intanto sentiamo questa.

– Tu sei l'autore della tragedia.

– È vero. Chi te l'ha detto?

– L'ho sentito dentro di me. Oramai ti conosco, e quando si conosce l'albero, si conoscono le frutta.

– Questa è un'idea… orticola. Ma nelle lettere non è così: l'arte copia la natura, o crea degli esseri immaginari che non hanno verun rapporto coll'indole dell'autore.

– Scusami, ma io scopro sempre l'autore nel libro, qualunque sia il suo prodotto.

– Dunque tu credi che un autore che racconta una storia di briganti omicidi abbia nell'anima qualche cosa dei delitti de' suoi personaggi?

– È tutto il contrario. Io credo invece che i briganti assassini d'un racconto abbiano sempre qualche cosa dell'autore… che li ha messi al mondo. Per esempio: un'anima mite e serena non è capace, non solo d'inventare, ma nemmeno di copiare esattamente dal vero personaggi turbolenti e feroci; nè una mente fiera, esaltata, rabbiosa sarebbe capace di creare tipi delicati ed angelici.

– Potrei citarti mille esempi contrari a quanto asserisci…

– Contrari in apparenza, ma in realtà no… sarebbe assurdo; dovresti provarmi che in un libro manca l'autore… L'uomo non vede che la superficie, e quando tiene in mano un bel pomo non si immagina che dentro vi sia un verme che lo divora. Il crogiuolo per fondere le anime non è ancora trovato, quindi non è possibile scoprire ciò che si mescola a questa parte ignota dell'uomo; però sappiamo che la natura ha le sue armonie, e possiamo dedurre dal noto all'ignoto che, come ogni rosa ha le sue spine, ogni limpido ruscello il suo fango, così può anche darsi che nell'anima dell'uomo più mite ed onesto si nasconda qualche punto nero che sfugge ai nostri sguardi, come nell'anima dell'uomo tenebroso si rifletta qualche raggio di luce.

– Potrebbe essere così, ma nel caso concreto della mia tragedia io non vedo che un marito tiranno, un rivale ribaldo, una moglie infedele, un amante insidioso… o vuoi forse farmi figurare sotto le spoglie dell'amante insidioso?

– Non dico questo… lo vedremo in seguito; finora veramente non ti posso ravvisare sotto quel triste soggetto.

– Dunque ove mi vedi?..

– Ti vedo e non ti vedo… ti sento piuttosto, mi pare di scorgerti fra le linee, dietro i punti e le virgole. Tu cerchi di nasconderti nei vani… dietro una parentesi… ti metti in maschera… ma io ti conosco, e sento il tuo alito.

– Il tuo occhio inquisitore mi fa paura!

– Non fare il male… e non abbi paura.

– In ogni modo, questa è una teoria affatto nuova…

– Ebbene, domanderò il brevetto d'invenzione, col privilegio di tenerlo a mio vantaggio per un decennio.

– Siamo intesi… Ora ritorniamo alla tragedia, e dimmi francamente la tua opinione.

– Questa è la seconda parte… che non posso dire.

– Cattivo segno!.. vedo che non ti piace.

– Ti prego di dispensarmi da un giudizio… io non so mentire… e temo che l'esser sincera mi faccia torto.

– Nulla può farti torto nel mio cuore; anzi la tua sincerità mi sarà grata, come una nuova prova della rettitudine del tuo carattere.

– Ebbene, poichè vuoi assolutamente che ti dica la verità, devo confessarti che la tragedia in generale non piacque…

– Ma e gli applausi?

– Meno poche eccezioni, dormivano tutti. Quando alla fine dell'atto non intendevano più il suono della tua voce, si svegliavano ed applaudivano con frenesia, per far credere che ascoltassero. Gli applausi più clamorosi li udisti alla fine, e volevano dire: finalmente è finita la noia, e incomincerà la refezione. È vero che i più intelligenti ascoltavano, ma non potevano dissimulare interamente la fatica; a certi punti tragici ridevano per alcune analogie trasparenti…

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