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Una Ragione per Uccidere

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Aus der Reihe: Un Mistero di Avery Black #1
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“Guarda un po’ chi è,” salutò. “La mia salvatrice.”

“Non proprio,” rispose Avery. “Che cosa ho fatto?”

“Hai mantenuto la calma,” sottolineò Ramirez, “e ti sei comportata da vero poliziotto con il sospettato, e non come uno stupido pivello come me. Va tutto bene, comunque,” si accigliò, “sarò fuori di qui in men che non si dica. Il dottore ha detto che domani posso andarmene. Sarò di ritorno alla scrivania per venerdì.”

“Non è quello che ho sentito,” disse Avery. “Il dottore a me ha detto che hai bisogno di due settimane per guarire. Ti serve del riposo.”

“Cosa?” si lamentò Ramirez. “Sarà meglio che tu non lo dica al capitano. Non farmi stare a casa a girarmi i pollici. Non sai com’è la mia vita familiare.”

“Come è la tua vita familiare?” chiese lei.

Per lei Ramirez era un enigma: attraente, in ottima forma, abbigliato perfettamente e in apparenza non poteva essere turbato da niente. L’attacco di George aveva messo in luce un altro suo lato: un po’ imprudente, arrabbiato e senza alcun addestramento per gestire la velocità e l’attacco a sorpresa di George. All’inizio le aveva fatto ritornare in mente tutti gli uomini con cui aveva avuto incontri occasionali qualche anno prima. Anche loro erano stati brillanti all’esterno, ma una volta tolti uno strato o due, erano un disastro. Sperava che con il suo partner non sarebbe stato lo stesso.

“Aw, andiamo, vuoi davvero che sfati il mistero?” chiese lui. “Okay, perché no. In effetti sono in un letto di ospedale. So che do l’impressione di essere Superman, ma seriamente, dentro sono un uomo normale, Black. Amo il mio lavoro, ma non mi piace sudare, quindi vado di rado in palestra e sicuramente non sono l’uomo più pericoloso della polizia. Vedi questo fisico eccezionale? Ci sono nato.”

“Hai qualcuno a casa?” chiese Avery.

“Avevo una ragazza. Per sei anni. Mi ha lasciato un po’ di tempo fa. Ha detto che facevo troppa fatica a impegnarmi. Andiamo, Black! Siamo onesti. Perché un uomo affascinante come me si dovrebbe impegnare con una donna sola, quando là fuori ce ne solo milioni?”

Molti motivi, pensò Avery.

Ripensò a Jack, il suo ex marito. Anche se non parlavano da molto tempo, da giovane il desiderio di sposarlo era stato potente. Lui le aveva offerto stabilità, gentilezza, amore e supporto. Per quanto intensa o distaccata Avery diventasse, lui era sempre lì, in attesa e ansioso di abbracciarla.

“Immagino che la gente si impegni per sentirsi sicura,” disse.

“Non è il motivo giusto per farlo,” disse lui. “Deve essere per amore.”

Avery non aveva mai capito davvero il concetto di amore fino a quando non era nata sua figlia Rose. Da giovane studentessa del college, era stata convinta di amare Jack. Il sentimento c’era e quando non era insieme a lei le mancava, ma se fosse veramente stata innamorata, non lo avrebbe dato così per scontato, né se ne sarebbe andata.

Aveva avuto Rose quando aveva a malapena vent’anni. Jack aveva voluto metter su presto famiglia, ma quando Rose era nata, Avery si era sentita intrappolata. Non aveva più avuto tempo per stare da sola con Jack, con se stessa, niente più vita né carriera. Era stato un disastro. Lei era stata un disastro, e i risultati si erano visti: la fine del suo matrimonio, la fine del suo essere madre. Ma anche se lei e Rose attualmente erano estraniate, lei lo capiva, ora lo capiva.

“Che cosa sai dell’amore?” chiese lei.

“So che significa che devo far sentire bene la mia donna.” Sorrise con un’espressione imbarazzata e seducente.

“Quello non è amore,” disse Avery. “L’amore è quando sei disposto a cedere qualcosa a cui tieni per qualcun altro. È quando tieni più all’altra persona dei tuoi stessi desideri, e ti comporti di conseguenza… quello è amore. Non ha niente a che vedere con il sesso.”

Ramirez sollevò le sopracciglia in segno di rispetto.

“Accidenti,” commentò. “Che parole profonde, Black!”

Per Avery i ricordi erano dolorosi da rievocare. Cercò invece di rimanere concentrata sul suo compito: un assassino a piede libero e un sospettato in custodia.

“Devo andare,” disse. “Volevo solo accertarmi che stessi bene. Non mi serve proprio un altro partner morto tra le mani.”

“Vai, vai,” disse Ramirez. “Dove è il nostro Navy Seal?”

“In custodia. E non ci sei andato lontano. È una riserva dell’esercito. Molto abile con le mani. Ho già strigliato il rettore per aver nascosto delle informazioni su una possibile arma letale. Adesso Thompson è al dormitorio.”

“Pensi che sia il nostro assassino?”

“Non sono sicura.”

“Come mai quest’incertezza?”

Pezzi, pensò lei. Pezzi di un puzzle che non combaciano.

“Potrebbe essere il nostro uomo,” disse. “Vediamo cosa succede.”

CAPITOLO UNDICI

Un’ora più tardi, Avery era in una piccola saletta buia insieme a O’Malley e Connelly. Davanti a loro, dall’altra parte di un vetro a specchio, era seduto George Fine. Le sue mani erano ammanettate a un tavolo metallico e aveva delle bende sulle spalle e sulle gambe, per via delle ferite dei proiettili. Avery si rese conto che aveva avuto fortuna a essere colpito solo di striscio. Aveva avuto una buona mira.

Di tanto in tanto George borbottava qualcosa a bassa voce, o sussultava. Il suo sguardo vacuo non si posava su nulla, ma sembrava immerso nei pensieri.

In mano Avery teneva un disegno che mostrava sei diverse interpretazioni in bianco e nero del volto di un uomo, basato sui video di sorveglianza dell’assassino. Ogni immagine mostrava un colpevole caucasico con il mento sottile, gli zigomi alti, gli occhi piccoli e la fronte alta. In tre delle foto, la parrucca, gli occhiali e i baffi erano stati tolti, e l’artista aveva dato al killer diversi stili di pettinature e peli sul viso. Le ultime tre mantenevano almeno un aspetto del travestimento, in caso non lo fosse stato.

Avery si prese il tempo di assorbire ogni foto.

Il volto che aveva visto nelle telecamere era radicato nella sua mente, e ora, con diversi chiari/ identikit, riusciva/poteva desumere altri tratti: un mento più largo, gli zigomi più bassi, una testa rasata, gli occhi più larghi, gli occhiali e diversi colori per gli occhi.

Di tanto in tanto alzava lo sguardo su Fine. C’erano delle somiglianze: caucasico, gli zigomi alti… Sembrava avere un fisico più snello, ma erano entrambi agili. I movimenti aggraziati che Avery aveva visto alla telecamera erano molto simili a quelli che aveva notato quando George aveva sopraffatto Dan. Eppure Avery non era sicura. C’erano le piante e gli animali. Inoltre, c’era stato un che di diabolico nel killer alla telecamera, un umorismo vivace che a George mancava. George Fine avrebbe fatto un inchino alla telecamera?

Come se Connelly potesse captare mentalmente i suoi dubbi, indicò il vetro e disse: “È il nostro uomo. Ne sono certo. Guardalo. Da quando è arrivato ha detto a malapena due parole. Riuscite a credere che vuole un avvocato? Assolutamente no. Non avrà niente. Ci serve una confessione.”

O’Malley indossava un abito scuro e una cravatta rossa. Piegò le labbra, si accigliò e disse: “Potrei essere d’accordo con Connelly in questo caso. Hai detto che hai trovato le foto della Jenkins in camera sua. Ha attaccato e quasi ucciso un poliziotto. E corrisponde al profilo. Quei disegni sono quasi identici. Come mai esiti?”

“Alcuni pezzi non coincidono,” disse lei. “Dove ha portato Cindy dopo il rapimento? Come ha imparato a imbalsamare? Randy Johnson ha detto che quei peli sul vestito della Jenkins erano di un gatto. Fine non ha un gatto. Quello che ha sono un sacco di ricerche online su porno e consigli relazionali. Vi sembra un assassino?”

“Ascolta, Black, questa è una cortesia,” disse Connelly con tono definitivo. “Per quel che mi riguarda, il caso è chiuso. Lo abbiamo preso. Deve avere un nascondiglio da qualche parte. È lì che troveremo il gatto, il minivan e l’arma dell’omicidio. Il tuo lavoro è trovare questo posto. Accidenti, perché devi sempre comportarti come se fossi migliore degli altri?”

“Voglio solo fare le cose per bene.”

“Sì? Beh, non è sempre stato così, vero?”

Un’energia ferale si alzava pulsante da Connelly. Aveva le guance rosse e gli occhi iniettati di sangue come se avesse bevuto o passato una nottata agitata. Come al solito era sul punto di esplodere dalla camicia, e sembrava pronto a prendere qualcuno a pugni in faccia.

Lei si rivolse a O’Malley.

“Mi faccia parlare con lui.”

“È il tuo sospettato.” O’Malley scrollò le spalle. “Puoi fare quello che vuoi. Ma riteniamo che sia il nostro uomo. Abbiamo un sacco di gente che ci alita sul collo per questo caso. A meno che tu non possa dimostrare il contrario, e in fretta, chiudiamolo qui, okay?”

Lei sollevò un pollice.

“Certo, capo.”

La porta della sala interrogatori ronzò e Avery entrò. Era tutto grigio, incluso il tavolo d’acciaio a cui era seduto il sospettato, lo specchio e le pareti.

George emise un sospiro esasperato e abbassò la testa. Indossava gli stessi pantaloni e canottiera.

“Ti ricordi di me?” chiese Avery.

“Sì,” rispose lui. “sei la puttana che mi ha puntato una pistola in faccia.”

“Hai cercato di uccidere il mio partner.”

“Auto-difesa.” Si scrollò. “Avete fatto irruzione nella mia stanza. Tutti sanno che la polizia di Boston ha il grilletto facile. Stavo solo cercando di proteggere me stesso.”

“Lo hai pugnalato.”

“Parla con il mio avvocato.”

Avery si accomodò.

“Vediamo se riesco a capirci qualcosa,” disse lei. “Sei un laureando in economia. Uno studente discreto. Riserva dell’esercito. Nessun precedente penale, almeno non prima di oggi. A detta di tutti, uno studente tranquillo e inoffensivo. Solo qualche amico.” Scrollò le spalle. “Ma immagino capiti quando non sei un festaiolo al college. Genitori di successo. Un avvocato e un dottore. Niente fratelli, ma,” notò con enfasi, “una storia di innamoramenti violenti. Già,” quasi si scusò, “ho parlato con il rettore e ho saputo della tua cotta per Tammy Smith, la ragazza che hai seguito da Scarsdale? È lei la ragione per cui sei andato ad Harvard, o è stata solo una coincidenza?”

 

“Non ho ucciso nessuno,” disse lui, e la guardò dritta negli occhi con uno sguardo determinato e inesorabile, come se la stesse sfidando a dire altrimenti.

Niente in quell’interrogatorio sembrava giusto ad Avery.

L’istinto le disse che aveva dato una corretta valutazione: era instabile e solo, un adolescente già sull’orlo di un crollo prima che la ragazza dei suoi sogni fosse uccisa all’improvviso, e che dopo aveva ceduto. Ma un assassino meticoloso che svuotava i corpi e li metteva in posizioni angeliche e realistiche? Faceva fatica a crederci. Non c’era alcuna prova convincente.

“Ti piacciono i film?” chiese lei.

Lui si accigliò, incerto su quel tipo di domanda.

“Sai che cosa danno al momento all’Omni Theatre?” aggiunse. “Il cinema davanti al Lederman Park?”

Una sguardo vacuo fu la risposta.

“Adesso stanno dando tre film,” rispose. “Due sono dei film d’azione in 3D. Non mi interessano molto quelli,” disse agitando una mano. “Il terzo si chiama L’Amour Mes Amis, un piccolo film francese su tre donne che si innamorano l’una dell’altra. Lo hai mai visto?”

“Mai sentito.”

“Ti piacciono i film stranieri?”

“Parla con il mio avvocato.”

“Va bene, va bene,” disse. “Che ne dici se facciamo così? Un’ultima domanda. Tu mi rispondi onestamente e io me ne vado a cercarti un avvocato. Okay?”

Lui non disse nulla.

“Nessun impegno,” aggiunse. “Sono seria.”

Avery si prese un momento per formulare i suoi pensieri.

“Potresti essere il mio assassino,” disse. “Potresti veramente. Abbiamo ancora molte tracce da seguire, ma alcuni dei pezzi combaciano. Per quale altro motivo avresti attaccato un poliziotto? Perché la tua stanza è così pulita? Mi fa pensare che tu abbia un altro posto, da qualche parte. È così?”

Uno sguardo incomprensibile fu la sua unica risposta.

“Ecco il mio problema,” continuò. “Potresti anche essere solo uno stupido ragazzino, disperato per la morte della ragazza che ti piaceva. Ma,” sottolineò e indicò il doppio vetro, “sia il mio ufficiale supervisore che il mio capitano pensano che tu sia colpevole di omicidio di primo grado. Vogliono vederti andare a picco. Ho intenzione di darti una scelta. Rispondi a una domanda per me e io rivaluterò la mia posizione e ti darò quello che vuoi. Okay?”

Avery si chinò in avanti e lo guardò dritto negli occhi.

“Perché hai attaccato il mio partner?”

George Fine fu attraversato da una serie complicata di emozioni. Si accigliò e rimuginò sulle proprie parole, poi distolse lo sguardo e lo riportò su Avery.

Una parte di lui sembrò elaborare una risposta, cercando di capire che significato gli avrebbero dato in tribunale. Alla fine prese una decisione. Si avvicinò e nonostante cercasse di comportarsi da duro, aveva gli occhi lucidi.

“Pensate di essere tutti così grandi, così importanti. Beh, anche io sono importante,” disse. “I miei sentimenti sono importanti. Non puoi dire che siamo amici per poi ignorarmi. Mi confondi. Anche io sono importante. E quando mi baci, significa che sei mia. Lo capisci?”

Inclinò il volto, le lacrime gli scesero lungo le guance e gridò:

“Significa che sei mia!”

CAPITOLO DODICI

Lui controllò l’orologio. Erano quasi le sei.

Il sole era ancora alto e nel grande prato c’era gente ovunque.

Sedeva appoggiato a un albero lungo Killian Court, nel campus del MIT. Facilmente visibile tra le ombre dell’alto fogliame, indossava un capello e occhiali.

Aveva raggiunto la sua destinazione solo da qualche minuto. Dei problemi in ufficio avevano fatto ottenere una tabella dell’ultimo minuto al suo capo. Spesso aveva chiesto allo Spirito Universale perché il suo capo non potesse essere ucciso, come chiunque altro considerasse una seccatura. Senza una parola, solo tramite strani suoni e immagini inquietanti, lo Spirito Universale gli aveva fatto sapere che i suoi pensieri e sentimenti non avevano importanza: tutto ciò che importava erano le ragazze.

Giovani. Vibranti. Piene di vita.

Ragazze che avrebbero liberato lo Spirito Universale dalla sua prigione.

Un tempio di ragazze, studentesse del college pronte ad affrontare il mondo, una fresca fonte di florida energia potenziale trasmessa con facilità allo Spirito Universale, un potere sufficiente per aprire un varco fino al suo reame inter-dimensionale perché raggiungesse la Terra come presenza fisica. Non ci sarebbe più stato bisogno di apostoli o seguaci. Libertà. Finalmente. E tutti coloro che l’avevano aiutato? Coloro che erano stati pazienti e forti, che avevano costruito un tempio con quei giovani bocconcini del college, con amore e cura? Che sarebbe stato di loro? Beh, a loro sarebbe stato assicurato un posto in Cielo, ovviamente, come autentiche divinità.

Era martedì, e martedì sera Tabitha Mitchell andava sempre alla grande biblioteca con la cupola per studiare insieme ai suoi amici dopo le lezioni.

Alle sei e un quarto la vide. Tabitha era per metà cinese e per metà caucasica. Carina e popolare, stava ridendo insieme ai suoi amici. Gettò i capelli all’indietro e scosse la testa per qualcosa che era stato detto. Il gruppo attraversò il prato.

Non c’era bisogno di seguirla. La sua destinazione era già nota, il dormitorio per cambiarsi e poi il Muddy Charles Pub per la Serata Speciale del Martedì: la Serata delle Donne. Tutte le ragazze bevevano gratis. Il martedì era la sua sera preferita per andare a divertirsi.

***

L’anticipazione era la sua parte preferita, l’attesa, la brama e la prossima esplosione del suo desiderio. L’amore era un’emozione facile da provare con quelle ragazze. Tutte loro aveva una vivacità di spirito, un’energia e uno scopo incredibile che condividevano, più grande di qualsiasi cosa avrebbero mai potuto raggiungere da sole. Nella sua mente erano principesse, regine, degne della sua adorazione ed eterna venerazione.

La rinascita era dura per lui.

Dopo essere state cambiate, non erano più sue. Erano andate oltre per diventare sacrifici per lo Spirito Universale, mattoni del tempio del suo prossimo ritorno, quindi tutto ciò che gli rimaneva per ricordarle erano le foto, e le memorie che aveva di un amore nascente interrotto troppo presto, come sempre interrotto troppo presto.

Era fermo lungo il Charles River e fissava le onde in continuo movimento. Era arrivata la sera e era sempre più introspettivo di sera, prima dell’induzione. Alle sue spalle, dall’altra parte della Memorial Drive, Tabitha Mitchell stava andando al Muddy Charles Pub con le sue amiche. Sarebbero rimaste lì per almeno due ore, lui lo sapeva, prima di separarsi e del ritorno di Tabitha al suo dormitorio, da sola.

Le stelle erano poco visibili nel cielo scuro. Ne vide una, poi due, e si chiese se lo Spirito Universale vivesse in quegli astri, o se fosse il cielo stesso, l’universo. Come in risposta, vide l’immagine dello Spirito: un’ombra più scura nel cielo che sembrava comprenderlo tutto. Sul Suo volto c’era un’espressione paziente e piena di aspettative. Non pronunciò una parola. In quel momento tutto era chiaro.

Alle nove circa, l’assassino ritornò al pub e attese in uno stretto passaggio tra il bar, che era nel largo palazzo dalle colonne bianche di Morss Hall, e il Fairchild Building. La zona era poco illuminata. Un certo numero di persone passeggiava lì intorno.

Alle nove e mezza lei apparve.

Tabitha fece i suo saluti davanti all’edificio. Scesi i gradini, andarono ognuna per conto suo. Le sue due amiche si diressero verso il loro appartamento ad Amherst Street, e lei girò a destra. Come d’abitudine, entrò nel vicolo.

Incurante delle molte persone vicine e in strada, lo spirito di un attore abitava il corpo dell’assassino. Si calò nella parte di un ubriaco e barcollò verso Tabitha. Nel palmo della mano, attaccato alle dita tramite anelli d’argento, stringeva una siringa a stantuffo fatta in casa.

Passandole rapidamente alle spalle, allo stesso tempo la punse dietro al collo, le strinse la gola perché non potesse muoversi e la attirò a sé.

“Ehi, Tabitha!” la salutò con un finto e percettibile accento inglese dal tono familiare, poi, per farle abbassare la guardia, aggiunse: “Shelly e Bob mi hanno detto che saresti stata qui. Facciamo la face, okay? Non voglio più litigare. Noi siamo fatti per stare insieme. Sediamoci e parliamone.”

Inizialmente Tabitha si mosse di scatto e cercò di liberarsi del suo assalitore, ma le droghe ad azione rapida le paralizzarono la gola. Nei secondi che seguirono, i nomi dei suoi amici la confusero. Uniti al rilassamento della sua mente e corpo, le fecero pensare speranzosa che le sue consorelle le stessero facendo un qualche scherzo.

Lui fu meticoloso nel modo in cui la strinse. Una mano sulla schiena per afferrarla al volo. L’altra mano con cui teneva gli anestetici, infilò l’ago nella tasca destra dei pantaloni cargo e poi le toccò una guancia. In quel modo la tenne sollevata tra le forti braccia e continuò a parlarle come se fossero realmente una coppia che stava discutendo, ma sul punto di fare la pace.

“Sei di nuovo ubriaca?” dichiarò. “Perché bevi sempre quando non ci sono? Vieni qui. Andiamo a parlare.”

All’inizio molte persone in strada o che stavano attraversando il vicolo erboso, superando l’assassino e Tabitha, pensarono che ci fosse qualcosa che non andava: era ciò che dicevano i movimenti innaturali di lei. Qualcuno si fermò a guardare, ma l’assassino era un tale esperto nel muovere il corpo di Tabitha che dopo il rifiuto iniziale e la loro rapida colluttazione, sembrava una studentessa ubriaca come tante altre che veniva aiutata da un amico o un innamorato. I suoi piedi cercavano di camminare. Le sue braccia lo stringevano, non in maniera aggressiva, ma come se stesse sognando e volesse allontanare le nuvole.

Gentilmente, con amore, il killer la guidò fino al muro, si sedette insieme a lei e le accarezzò i capelli. Anche il più attento e vigilante dei passanti presto pensò che fosse tutto normale e continuò con la sua serata.

“Saremo felici insieme,” sussurrò l’assassino.

La baciò dolcemente sulla guancia. L’eccitazione che sentiva era persino più forte che con Cindy. Stranamente eccitato, alzò lo sguardo verso il cielo scuro per vedere lo Spirito Universale, che lo stava guardando con un’espressione arcigna di disapprovazione.

“Va bene.” Il killer sbiancò.

Uno stretto abbraccio portò Tabitha più vicino al suo corpo. Sentì il suo profumo, le strinse le braccia e le gambe. Lievi gemiti si alzarono dalle sue labbra, ma lui sapeva che sarebbero finiti presto; le droghe avrebbero cancellato la sua mente in poco più di venti minuti.

Due ragazzi giocavano a Frisbee Golf proprio accanto a loro. Un gruppo di chiassose matricole del college cantava canzoni. Le auto sfrecciavano lungo il Charles River.

In mezzo all’area popolosa, l’assassino sollevò Tabitha e se la gettò sulle spalle per portarla a cavalcioni. Anche se i suoi piedi ciondolavano, lui le tenne le mani contro il petto e corse fino all’auto, che era parcheggiata sulla Memorial Drive.

“Andiamo!” gridò con il suo accento. “Metti le gambe attorno a me! Mi stai facendo fare tutto il lavoro. Almeno aiutami un pochino? Per favore?”

Continuò il dialogo vicino al minivan blu, dove l’appoggiò sull’auto, aprì la porta del passeggero e la mise gentilmente all’interno.

Per qualche secondo rimase accovacciato vicino alla portiera, non solo per mantenere la farsa del ragazzo preoccupato, ma per osservare i suoi lineamenti, per guardare il suo petto alzarsi e abbassarsi, e per chiedersi, come faceva spesso, come sarebbe stato baciarla, per davvero, e fare l’amore. Lo Spirito Universale brontolò dalla sua posizione celeste, e l’assassino, con un sospiro, chiuse la portiera del passeggero, prese posto dietro il volante e si allontanò in auto.