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Una Ragione per Uccidere

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Aus der Reihe: Un Mistero di Avery Black #1
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Fece il suo numero.

Ramirez rispose al primo squillo.

“Dove sei stata, Black?” chiese. “Ho sentito che O’Malley ti ha tolto il caso. Che diavolo è successo?”

“Dove sei?” rispose lei.

“Sono a casa. L’ospedale mi ha dimesso. Per un po’ non posso fare grossi sforzi ma mi sto annoiando a morte. Ti prego, dimmi che sei dalle mie parti.”

“Ho trovato l’assassino,” disse Avery. “Si chiama Edwin Pesh. Vive a Watertown. Sono proprio fuori casa sua.”

“Accidenti.”

“Quanto ti ci vuole per arrivare qui?”

“Hai chiamato la centrale?”

“Ho chiamato te,” rispose lei.

“Va bene,” borbottò e ci pensò su. “Va bene.”

“Segnati l’indirizzo,” disse e gli diede le informazioni.

“Sarò lì tra venti minuti,” rispose lui. “Forse anche prima se evito i semafori. Non andare là dentro senza di me, intesi?”

Lei riappese.

Come se fosse stata una passante come tanti, in una mite domenica pomeriggio, Avery chiuse la portiera dell’auto e si incamminò per la strada.

Le batteva forte il cuore.

Arrivata alla casa, si abbassò e corse su per il vialetto.

Appoggiò una mano sul retro del minivan e fissò il lato della casa. Non c’erano luci accese. L’interno era vagamente visibile attraverso le finestre del primo e del secondo piano. Le finestre dello scantinato erano state verniciate di nero.

Passò le dita sulla targa e attorno al bordo sentì una sostanza estremamente appiccicosa. Il minivan, pensò. Una targa finta, incollata. Famiglia. Villasco ne aveva parlato. La casa buia incombeva su di lei. A una delle finestre notò un gatto grigio.

Ragionevole dubbio.

Avery estrasse la pistola.

CAPITOLO TRENTACINQUE

Edwin Pesh stava passando un fine settimana tormentato. Lo Spirito Universale si rifiutava di lasciarlo in pace. Sabato notte il sonno non era arrivato, la voce nella sua testa aveva chiesto ripetutamente ancora, ancora, e le molte responsabilità di cui si doveva ugualmente fare carico avevano iniziato a farsi sentire.

Abbattuto e stanco, sedeva in una delle stanze del secondo piano circondato da gatti. Gatti di tutte le forme e razze facevano le fusa e cercavano di sederglisi in braccio. Solo in quella stanza ce n’erano almeno dieci. Alcuni fissavano fuori dalle finestre. Altri dormivano negli angoli o sul letto a una piazza, o mangiavano da uno dei molti piattini disposti sul pavimento di legno.

Wanda Voles… il nome di Wanda Voles era stato ripetutamente menzionato dallo Spirito Universale, al punto che Edwin aveva capito che cosa doveva fare. Riprenditi, pensò. Prenditi cura dei gatti, fai fare la passeggiata ai cani, e poi torna a Bentley e cattura Wanda Voles.

No! urlò la sua mente.

Sì! urlò lui a sua volta.

Dal piano di sotto si alzò un latrato, e poi molti altri.

Subito all’erta, Edwin si alzò e guardò fuori dalle finestre.

Il cortile era vuoto.

A lato della casa, qualcuno era accovacciato dietro al suo minivan.

La polizia, pensò.

L’iniziale momento di paura si allontanò dai suoi pensieri ed Edwin si preparò a diventare un recipiente dello Spirito Universale, un corpo vivente abitato da un dio.

Tenendo gli occhi chiusi, fece un rapido respiro, spalancò le braccia e premette le mani insieme sopra la testa. Un semplice piegamento sulle ginocchia, eseguito tre volte, e aprì di nuovo gli occhi, illuminati da un fuoco interiore.

Nella sua mente, immaginò che lo Spirito Universale avesse preso il controllo su di lui; l’essere celestiale era dentro il suo corpo, dando forma ai suoi pugni e guidando i suoi pensieri e azioni.

Ti accetto con tutto il cuore, giurò.

Nessun esercizio tradizionale aveva mai interessato Edwin. Invece, di norma eseguiva una serie di salti, capriole, e movimenti a muscoli tesi che gli erano stati forniti mentalmente dallo Spirito Universale per prepararlo alle caccie e nell’evento di un attacco dall’esterno.

Dopo anni di pratica all’interno di casa sua, e ormai con lo Spirito dentro di sé, Edwin era certo di poter avere il sopravvento su qualsiasi nemico.

Minacciano la nostra causa, gemette lo Spirito Universale nella mente di Edwin. Non possiamo permettergli di ostacolare i nostri piani. Vai, mio pulcino… Vai… e caccia.

***

I cani abbaiavano dentro la casa. Dovevano essercene due o tre. Uno era un grosso pitbull che continuava ad apparire alla finestra del primo piano.

Merda, pensò lei. Muoviti.

Accovacciata, Avery corse nel cortile.

I cani la seguirono e abbaiarono.

La porta dello scantinato era dipinta di blu. Cercò di aprirla, ma era chiusa a chiave. C’era una veranda e una porta sul retro. Si avvicinò lentamente e diede un’occhiata all’interno. Immediatamente apparve di nuovo il muso del pitbull. I latrati si fecero feroci. C’erano altri due cani, entrambi piccoli: un carlino e quello che sembrava un barboncino nano. Vide anche molti gatti.

La porta sul retro era chiusa a chiave.

Colpì con la pistola una delle lastre di vetro accanto alla serratura.

Il vetro andò in frantumi.

Il pitbull mostrò i denti nell’apertura. Avery si raddrizzò e seguì i movimenti di tutti e tre i cani. Quando ci fu campo libero, infilò una mano e aprì la porta.

Si abbassò piegando le ginocchia. Con la schiena protetta dalla porta di legno, Avery mise una mano sulla maniglia. Nell’altra stringeva la pistola. Tese le orecchie per calcolare il momento giusto: il pitbull abbaiò e saltò, rimase per un po’ a terra e poi ripeté il procedimento.

Quando il pitbull fu sul punto di saltare, Avery aprì la porta.

Il cane corse fuori. Un lieve colpetto con il piede e il pitbull inciampò giù per i gradini. Apparvero gli altri due cani, che slittarono per riuscire a voltarsi e raggiungere Avery. Lei afferrò semplicemente la maniglia, entrò in casa con una piroetta e chiuse la porta.

I latrati continuarono, ma non la disturbavano più.

Avery era dentro.

Un gatto fece le fusa contro una sua gamba.

Accanto a lei c’era la cucina. Alla sua sinistra c’era una piccola zona da pranzo, e davanti un soggiorno con altri due gatti. I davanzali della cucina erano punteggiati di piante. Sembravano le varietà più semplici da mantenere, cactus e potos.

Con la pistola puntata verso il basso, Avery si mosse per la casa.

Rimani all’erta, pensò. Lui sa di certo che sono qui.

“Edwin Pesh!” gridò. “Questa è la polizia. Mostra le mani a fatti vedere. Fuori ci sono altri due agenti,” mentì. “I rinforzi sono in arrivo. In pochi minuti, l’intero quartiere brulicherà di poliziotti. Edwin Pesh!”

Dietro un angolo c’era la scala per il secondo livello. Sui gradini c’erano ancora altri gatti.

Avery salì lentamente le scale coperte di moquette, con la pistola puntata davanti a sé e verso l’alto, dove vedeva un corrimano che girava su se stesso. I gatti continuavano a intralciarla. Lei li sospinse gentilmente di lato.

Il piano era vuoto, ma trovò persino altri gatti. Alle pareti non era appeso nessun quadro. Nessuna foto di alcun tipo. Solo due spartane camere da letto che erano completamente invase da gatti. Ogni armadio venne aperto. Guardò sotto i letti e in tutti gli anfratti. Edwin Pesh non era da nessuna parte.

La porta dello scantinato era in cucina.

Accanto alla porta c’era un telefono.

Avery lo prese e fece il 911.

“Questo è il servizio di pronto intervento,” disse una donna. “Come posso aiutarla?”

“Mi chiamo Avery Black. Lavoro per il dipartimento A1 di Boston,” rispose e diede il suo numero di matricola. “Sono nell’abitazione di un possibile serial killer e ho bisogno di rinforzi.”

“Grazie per la chiamata, detective Black. Potrebbe per favore…”

Avery abbandonò la cornetta.

Lo scantinato era buio. Un interruttore alla sua destra illuminò un’altra porta in fondo alle scale. Lei scese i gradini. Le pareti erano ricoperte di legno grezzo.

In fondo alle scale aprì la seconda porta.

Perpendicolare alla scalinata, c’era un altro corridoio. Altre lampadine fioche pendevano dal soffitto di legno e illuminavano lo spazio. Girò a sinistra e fu costretta a voltare di nuovo bruscamente a sinistra in un passaggio molto più lungo.

Ogni singolo centimetro delle pareti del passaggio più grande era coperto da foto, centinaia di foto. Sembravano essere organizzate orizzontalmente. A seguirne una fino in fondo a destra, raccontava una storia. In un fotogramma c’era un gatto nero, seduto su un davanzale. In quello seguente il gatto sembrava morto, a terra. In quello dopo il gatto era parzialmente aperto a rivelare i suoi organi interni. Ogni immagine consecutiva mostrava il gatto in una fase della tassidermia.

Delle porte interrompevano le pareti su entrambi i lati.

È come un labirinto, pensò lei.

“Edwin Pesh!” gridò. “È la polizia. Fatti vedere! Metti le mani dove possa vederle e esci nel corridoio.”

Rimase in attesa di una risposta.

Niente, solo i cani che abbaiavano in lontananza, e il movimento di un gatto arancione che l’aveva seguita nello scantinato.

La prima porta sulla sua sinistra era aperta. L’oscurità riempiva la stanza. Avery accese la torcia, puntandola sulla linea di tiro della pistola. Entrò di colpo. Lungo la parete più distante erano visibili dei barattoli, una fila dopo l’altra, pieni di sostanze multicolori. Un tavolo medico argentato era alla sua sinistra, insieme a equipaggiamento medico, del liquido per l’imbalsamazione e degli strumenti.

 

Porca puttana.

Un gatto le si strofinò contro una gamba.

Sorpresa dal contatto, Avery puntò l’arma verso il basso e quasi sparò.

“Gesù,” sussurrò.

Per un momento, i suoi occhi si chiusero.

Le assi del pavimento scricchiolarono alle sue spalle. Nel secondo che servì ad Avery per riprendersi e voltarsi, sentì una puntura dietro il collo e udì qualcuno che correva in lontananza nel corridoio.

Merda!!

La confusione la assalì.

Non così, pensò furiosamente. Non posso andarmene così.

Stimolata dal pensiero di avere solo qualche istante prima che lo strano intruglio avesse effetto, Avery emise un grido silenzioso, quasi impercettibile e incespicò per il corridoio. Lungo il suo cammino andò a sbattere contro le pareti. Le foto volarono per aria e caddero a terra. Ogni porta che trovò era aperta. La torcia scattava da una parte e dall’altra.

Alla cieca, sparò.

Immagini apparvero in una sognante confusione: una stanza che era più che altro una cella, con sbarre e un pavimento coperto di paglia, un’altra camera piena di cani e gatti impagliati.

Quando raggiunse l’ultima porta, Avery cadde in ginocchio.

La torcia le cadde di mano.

Girò la maniglia e la aprì con una spinta.

Edwin Pesh era visibile ai margini della luce della torcia.

Avery cadde sul petto. Tenne la pistola davanti a sé e si preparò a sparare. All’improvviso, leggero come una piuma, Edwin saltò da un lato della stanza all’altro, ancora e ancora, in rapidi scatti felini che lo rendevano difficile da mirare.

Stordita. La mente di Avery era stordita e si stava spegnendo velocemente. La pistola era pesante, troppo pesante per tenerla sollevata. Abbassò l’arma a terra. La sua guancia toccò il freddo pavimento ma lei continuò a guardare Edwin Pesh.

Edwin si chinò verso il basso, gli occhi gialli illuminati dalla luce della torcia.

Avery si sentì perdere conoscenza.

Edwin si alzò dispiegando tutta la sua altezza e si avvicinò a lei.

“Shhhhh.” sussurrò.

Non così, pensò Avery.

Con un enorme sforzo, e il polso bilanciato per terra, Avery sollevò la canna della pistola verso l’inguine di Edwin e fece fuoco tre volte. Blam! Blam! Blam!

La pistola le cade di mano.

I piedi di Edwin erano davanti a lei. Riuscì a vedere le sue gambe che cedevano. All’improvviso lui scese a terra e ricadde su un fianco.

Edwin giacque lì, collassato, acconto a lei. Il suo volto era a pochi centimetri da quello di Avery. I due rimasero sdraiati fianco a fianco, ognuno paralizzato, ognuno morente, con lo sguardo fisso negli occhi dell’altro.

Lo sguardo di Edwin si fissò nel suo. Nella foschia sognante creata da qualsiasi droga avesse usato per avvelenare il suo organismo, gli occhi dell’uomo sembravano incredibilmente grandi, pozze spalancate di oscurità. Un sorriso gli piegò le labbra.

“Ancora,” sussurrò. “Ancora.”

Nient’altro uscì da lui, nient’altro si mosse. Le labbra rimasero in quella mezza piega e i suoi occhi spalancati le si impressero nell’anima.

Dentro la testa, Avery udì: Ancora! ANCORA!

La voce di un uomo risuonò per i corridoi.

“Avery?!”

Una mano le toccò il collo e controllò le sue pulsazioni. Qualcuno imprecò e parlò con voce distorta, a malapena riconoscibile: “Parlami, Black. Riesci a sentirmi? Cerca di rimanere viva. Stanno arrivando gli aiuti.”

Ma lei si sentiva sempre più debole.

La voce risuonò di nuovo, quella volta piena di panico.

“Merda, Black, non morirmi adesso!”

CAPITOLO TRENTASEI

Avery si svegliò in un letto d’ospedale, stordita e con la gola estremamente secca e dolorante. Tutto del suo corpo doleva, come se il suo sangue fosse stato risucchiato e sostituito con un qualche liquido pesante e tossico. Al braccio aveva attaccata un flebo. Un monitor cardiaco emetteva dei bip da qualche parte, fuori dalla sua vista.

La stanza era piena di palloncini e fiori.

Su una sedia accanto a lei, reclinato nel sonno, c’era Ramirez. Era rilassato e perfettamente abbigliato proprio come la prima volta che si erano incontrati. Un lucido abito blu copriva il suo fisico, la camicia bianca era luminosa ed evidenziava la sua abbronzatura e i capelli scuri pettinati all’indietro.

Un’infermiera entrò.

“Sei sveglia,” notò sorpresa.

Avery aprì la bocca.

“Non cercare di parlare ancora,” la avvisò l’infermiera. “Chiamo il dottore. Devi avere fame, vediamo cosa riesco a trovare.”

Ramirez si svegliò dal suo torpore e sbadigliò.

“Black.” Sorrise. “Bentornata nel regno dei vivi.”

Avery sussurrò una dolorosa e roca domanda.

“Come?”

“Tre giorno,” disse lui. “Sei rimasta svenuta per tre giorni. Accidenti, è stata una roba da pazzi, te lo posso garantire. Sei al Watertown General Hospital. Stai bene? Vuoi riposare ancora? O vuoi che ti racconti?”

Avery non si era mai sentita tanto vulnerabile in tutta la sua vita. Non solo era sdraiata in un letto d’ospedale praticamente incapace di muoversi, ma riusciva a malapena a parlare.

Annuì e chiuse gli occhi.

“Parla.”

“Beh, tu sei una donna loca, Avery Black. Almeno qualcuno ti ha dato il buon senso di chiamarmi e di fare il 911 quando sei entrata in casa. Ora, se avessi aspettato, probabilmente non saresti qui oggi. Ma ne parleremo un’altra volta.

Lo hai preso.”

Il sorriso riapparve.

“Tre colpi, tutti arrivati a destinazione. Uno all’inguine, uno attraverso il cuore e l’ultimo in faccia. È morto. Basta ragazze per lui.

“Sei fortunata ad essere viva.” Emise un fischio. “Lo sai, vero? Ti ha imbottita di roba davvero pericolosa. Paralizza il corpo per circa sei ore e ti corrode lentamente le interiora fino a quando non muori. I dottori non hanno mai visto niente del genere, ma sono riusciti a preparare un antidoto in base alla siringa che ha usato. Comunque per un po’ è stata una situazione delicata.”

Lei lanciò un’occhiata ai fiori e ai palloncini.

“Hai avuto molti visitatori,” spiegò lui. “È passato il capitano, Connelly. Finley. Non hanno fatto fatica, sai. Erano tutti con me nella casa.”

Lei gli gettò un’occhiata.

Lui sogghignò.

“Tu sarai anche pazza,” disse, “Ma io non lo sono. Ho chiamato il capitano nel momento in cui hai riappeso la telefonata con me. A me i rinforzi servivano!”

Avery gli lanciò uno sguardo profondo e curioso. I suoi occhi marrone scuro, solitamente allegri o indagatori, ricambiarono lo sguardo con calore e attenzione, come per offrirle qualcosa in più.

“Tu?” chiese.

L’imbarazzo gli tinse di rosso le guance.

“Beh,” borbottò lui e a fatica tirò fuori il resto. “Io sono stato qui un po’, è vero. Volevo solo essere certo che la mia partner stesse bene. Oltretutto,” scrollò le spalle, “devo ancora far guarire la ferita, giusto? Ho solo pensato, perché non farlo qui? A volte me sento un po’ solo nel mio appartamento, sai? Comunque sono felice che tu stia bene,” disse, facendo fatica a incontrare il suo sguardo. “Ora ti lascio in pace. Il dottore dice che hai bisogno di riposo.”

“No,” sussurrò lei.

Timidamente, gli tese una mano.

Ramirez le prese le dita e gliele strinse con forza.

CAPITOLO TRENTASETTE

Quando si sparse la voce che Avery era viva e vegeta, la lista dei visitatori crebbe. Finley passò nel pomeriggio, insieme al Capitano O’Malley e a Connelly, che aspettò accanto alla porta a testa bassa.

“Pazzo bastardo,” disse O’Malley. “Aveva un intero giardino in quello scantinato, dall’altro lato dell’infermeria. Coltivava ogni genere di pianta allucinogena tu riesca a immaginare. Aveva anche qualcuno dei suoi contatti in giro, quindi metteremo subito fine a quelle tratte. Ottimo lavoro, Avery.”

“Abbiamo anche scoperto qualcosa sui corpi,” intervenne Connelly. “Probabilmente venerava ‘Le Tre Grazie’ della mitologia romana. Erano seguaci della dea Venere: tre giovani ragazze che adoravano la bellezza. Pensiamo che probabilmente è per questo che le manteneva così simili alla vita dopo la morte. C’erano un sacco di disegni in tutta la casa.”

Finley continuava a toccare i regali impilati vicino al davanzale.

“Accidenti,” disse, “il sindaco di ha mandato dei fiori? Io non ho ricevuto niente dal sindaco. Scommetto che se avessi chiamato me come rinforzo, il sindaco li avrebbe mandati anche a me. Maledetto Ramirez,” continuò. “Io ero il tuo partner. Io.”

O’Malley fece una smorfia verso di lei.

“Parleremo della tua mancanza di protocollo quando sarai pronta,” disse. “Per ora, riposati e guarisci.”

***

Più tardi, quella sera Randy Johnson andò a visitare Avery. L’analista forense minuta e combattiva aveva i capelli acconciati in un afro vistoso. Indossava un abito rosso a pois e portava dei fiori e un giornale. Avery aveva appena finito di cenare ed era già esausta.

“Ehi, ragazza!” esclamò Randy. “Avevo sentito che eri sveglia.”

Avery cercò di sorridere.

“Non cercare di parlare. Non cercare di parlare,” insistette Randy. “Lo so che hai già avuto una giornata impegnativa. Sono solo passata per vedere se la mia ragazza era viva e in forma.” Spalancò gli occhi. “E fare del gossip!”

Si sedette accanto a lei.

“Prima di tutto, credo che Dylan Connelly abbia davvero una cotta per te. Non scherzo. Di tanto in tanto è passato a vedere come stava andando il caso e mi ha chiesto di te due volte. La prima è stata tipo: ‘Ehi, sei già andata a trovare Black?’ Tutto casuale. E la seconda volta è stata oggi. Era tutto: ‘Come sta Black?’ Non credo che quell’uomo mi abbia mai parlato di niente che non riguardasse i casi. Davvero?! Ti sei trovata un nuovo giocattolo, se lo vuoi.”

Un cipiglio di disapprovazione segnò il volto di Avery.

“Già, non è per te,” commentò Randy, “ma Ramirez? Lui sì che è carino. È tutto tuo, ragazza mia. Ti ha salvato la vita!’”

Sorrise, poi lentamente la gioia svanì.

“Possiamo parlare dell’assassino di donne, per favore?” aggiunse. “È troppo presto?”

Avery alzò il pollice.

“Trentasei gatti,” sbuffò per l’incredulità Randy. “Trentasei! Chi ha trentasei gatti? E tre cani? E vuoi sapere che cosa è anche più folle? Erano tutte femmine. Neanche un maschio tra di loro. E quelle foto sulle pareti del suo scantinato? Non so se te lo ricordi, ma aveva un sacco di foto disgustose di tutti i gatti, i cani e le ragazze che ha ucciso, e in ogni foto c’era uno stadio diverso della loro trasformazione in bestie impagliate, capisci? Tutte femmine. Quel bianco pazzo aveva un piccolo club di sole donne solo per sé. Connelly ha detto che deve avere a che fare con la mitologia romana e Afrodite e tutte quelle donne, ma io credo che fosse fuori di testa.”

Un suono si alzò dalle labbra di Avery.

Si schiarì la gola e si concentrò su una singola parola.

“Famiglia?”

“Se aveva dei parenti?” chiese Randy per confermare. “È questo che vuoi sapere? Oh, sì. Il tizio che si è sparato era suo zio. Pensavo che lo sapessi. È tutto qui nel giornale,” aggiunse. “Lo zio aveva assunto l’assassino un anno fa. L’assassino ha incontrato quelle ragazze a una fiera del lavoro. Quando sono andate nel suo ufficio poi le ha conosciute.”

Appoggiò il giornale sul petto di Avery.

Il titolo diceva: ‘Catturato il killer dei college’, con una foto della scena del crimine. Un titolo più piccolo affermava: ‘Avvocato in disgrazia convertita in poliziotta in condizioni critiche’, seguito da un articolo su come aveva lasciato una possibile scena del crimine per trovare il vero assassino.

“Sei un’eroina!” la acclamò Randy.

Per Avery era difficile considerarsi un’eroina o qualcosa del genere. La sua mente era troppo annebbiata per rimanere concentrata a lungo su qualsiasi cosa, e il suo corpo era ancora in preda allo shock post-paralisi che le impediva i movimenti.

Eroina. Non era quello che voleva. Non lo aveva mai voluto. Voleva solamente raddrizzare i torti, e chiudere per sempre i bastardi in prigione.

Fare ammenda, ecco cosa voleva, per qualcosa per cui non sarebbe mai riuscita a chiedere scusa.

 

Le sue palpebre si fecero pesanti, e mentre il sonno la avvolgeva, le era difficile credere che sarebbe mai riuscita a camminare di nuovo.