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Una Ragione per Uccidere

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Aus der Reihe: Un Mistero di Avery Black #1
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CAPITOLO VENTITRE

Avery parcheggiò l’auto al confine orientale dello Stony Brook Park e si incamminò lungo Mill Street fino all’ingresso.

Il campo giochi per bambini dello Stony Brook era un grande parco acquatico per bambini, unito ad altri tre campetti e a un enorme fortino di legno, incastonati all’interno di un cerchio di alberi e dietro un recinto vicino a un quartiere residenziale.

Un gran numero di auto della polizia di Belmont, insieme a furgoni della stampa, reporter e una folla di persone, circondavano l’area vicino al cancello.

“Eccola!” urlò qualcuno.

Prima ancora che Avery riuscisse a pensare, numerosi giornalisti conversero su di lei. Nella sua vita precedente, quando era stata licenziata dallo studio legale, Avery aveva dato per scontato che le telecamere, le luci e i microfoni alla fine sarebbero svaniti. Sfortunatamente non era mai successo. Nelle giornate fiacche di notizie si ritrovava sempre oggetto di battute in un giornale o l’altro.

Una minuta giornalista con un caschetto nero le sbatté il microfono sotto il naso.

“Signora Black,” disse, “lei ha una relazione con Howard Randall?”

“Cosa?” esplose Avery.

Qualcun altro le tese il microfono.

“Ieri è andata ha trovarlo. Di che cosa avete parlato?”

“Da dove avete avuto questa informazione?” chiese Avery.

Qualcuno tese un giornale davanti a lei, e mentre Avery esaminava la prima pagina e passava all’articolo all’interno, le telecamere la ripresero, e tutti rimasero in attesa di una sua risposta.

Il titolo annunciava: ‘Due ragazze morte e niente indizi.’ La foto era stata presa dal cimitero. Un sottotitolo in fondo aggiungeva: ‘Un poliziotto e un assassino: nasce l’amore.’ Avery si vide singhiozzante in auto, proprio accanto alle mura della prigione.

Le guardie, capì subito. Le avevano scattato delle foto.

L’articolo vero e proprio era alla terza pagina: ‘Chi dirige la Polizia di Boston?’ Parole come ‘incompetente’, ‘cattiva gestione’, e ‘negligenza’ praticamente balzavano fuori dalla pagina. Una frase: ‘Perché la polizia di Boston permette a un ex avvocato dalla morale discutibile di gestire un altro possibile caso di omicidi seriali?’

Disgustata, Avery restituì il giornale.

“Può rilasciare un commento?’ chiese qualcuno.

Avery continuò ad avanzare in silenzio.

“Agente Black!? Agente Black!?”

Una donna che non poteva pesare più di 40 chili arrivò fino ad Avery e la colpì al petto.

“Maledetta bastarda!” gridò. “Dovrei pagarti con i soldi delle mie tasse? Mai! Ti farò licenziare, assassina figlia di puttana.”

La folla avanzò.

“Perché sta lavorando a questo caso?” gridò qualcun altro.

“Non fatela avvicinare ai bambini!”

Al cancello Avery mostrò il distintivo e un agente la fece passare.

“Chi è responsabile qui?” chiese.

“Proprio laggiù,” indicò il poliziotto. “Talbot Diggins. Il tenente Diggins.”

Normalmente per Avery era facile ignorare gli insulti, ma quel giorno, dopo il penoso interrogatorio di John Lang e un altro corpo, nessun indizio, il giornale e tutto il resto, le servivano tutte le sue energie solo per rimanere diritta e per andare avanti.

Anche separata dalla folla oltre il cancello, riusciva a sentire la gente che manifestava la propria indignazione mentre i reporter spingevano le telecamere al di là delle sbarre.

I poliziotti nella zona si voltarono e guardarono Avery che li oltrepassava. Qualcuno borbottò sotto voce. Altri si limitarono a fissarla con disprezzo.

Quando finirà? si chiese.

Talbot Diggins era un uomo di colore molto grosso e con la testa rasata. Portava occhiali da sole e sudava copiosamente nel calore del primo mattino. Indossava un elegante abito grigio e sotto aveva una maglietta. Gli unici oggetti che indicavano che era un poliziotto erano il distintivo appeso al collo e la pistola che spuntava dietro la sua giacca.

La notò e la indicò.

“Sei Black?” disse.

“Sì.”

“Seguimi.”

Il parco vero e proprio era stato ignorato. Dietro l’ampia piscina che normalmente spruzzava acqua in varie direzioni, superarono un campo giochi per bambini piccoli e si diressero direttamente verso il castello di legno, completo di ponti, un fossato e una città di legno.

Il flash di un fotografo della polizia illuminò l’interno della struttura di legno.

“Una bambina l’ha trovata questa mattina,” disse Talbot. “Una ragazzina di dieci anni. Ha detto che ha cercato di giocare con lei ma che il corpo non si muoveva. Quindi l’ha toccata. Fredda come il ghiaccio.”

La struttura di legno aveva un’apertura nella parte davanti che serviva da entrata del castello.

Una ragazza morta sedeva all’ingresso, sistemata come se si fosse semplicemente presa una pausa dal gioco. Aveva diciotto o diciannove anni, suppose Avery. Capelli biondi. Vestita con una maglietta aderente e una gonna. Un’espressione stravagante e buffa le segnava il volto. Le mani erano alzate ed erano state legate a una sbarra sopra la testa con della fibra molto sottile, come filo da pesca. Gli occhi, come le altre che Avery aveva visto, sembravano drogati e tormentati.

“Sai chi è?” chiese Avery.

“Non ancora.”

Uno sguardo veloce e Avery riuscì a capire che la vittima indossava tutto il suo intimo. Forse l’ultima ragazza era stata un caso? si chiese.

Come le altre ragazze, anche questa sembrava guardare qualcosa. Avery seguì la sua linea visiva fino a un campo giochi per bambini piccoli. Immediatamente capì cosa la vittima avrebbe dovuto vedere: un murale dipinto di bambini che adornava uno dei confini/muretti di plastica. I bambini erano maschi e femmine, di varie etnie, ce n’erano molti e si tenevano tutti per mano.

Talbot la studiò con sospetto.

“È vero?” chiese.

“Cosa è vero?”

“Tu e Randall. I giornali dicono che voi due state insieme. È vero?”

“È disgustoso,” disse lei.

“Forse,” affermò, “ma è vero?”

“Non sono affari tuoi,” rispose.

“Cavolo, mi stai davvero rovinando la giornata, lo sai? Prima mi devo occupare delle conseguenze di qualche serial killer perché tu non sai fare il tuo lavoro, e ora non rispondi neppure a una semplice domanda. Andiamo, abbiamo in ballo una grossa scommessa, in ufficio.”

“Non te devi preoccupare,” disse Avery. “Il mio dipartimento…”

“Nah, nah, nah,” si lamentò lui, “non succederà. Questa è la mia scena del crimine, capito? Ho chiamato il tuo dipartimento per pura cortesia. Non posso dartelo,” dichiarò e indicò il corpo. “Hai già due ragazze morte in meno di una settimana. Ora ne hai una terza a Belmont. Sai che cosa significa? Una collaborazione.”

“Non c’è bisogno di…”

“Oh, sì che ce n’è di bisogno,” disse roteando gli occhi. “Siamo seri. Quanto sei vicina a risolvere il caso?”

“Abbiamo molte piste solide che…”

“Bip! Risposta sbagliata!” gridò come un allarme e fingendosi un robot. “Non ci credo,” continuò con calma. “Guardati. Sembri incasinata quanto dicono i giornali. E non vuoi neppure dare a un altro poliziotto un indizio sulla tua vita personale. Che problema hai? E quindi sai che c’è? Ora siamo compagni di squadra, e a Belmont risolviamo i casi in fretta.”

“Ah, sì?” disse Avery. “Quanti corpi così hai già visto?”

“Psss,” cantilenò.

“No, sono seria.”

“Non ha importanza.”

“Ti dico io cosa importa,” disse lei. “Lavoro su questo caso da meno di una settimana e conosco l’area generale in cui vive l’assassino. Conosco la sua altezza e la descrizione del suo corpo. So che ha un debole per gli animali domestici e che cosa guida, e a giudicare del terzo corpo?” disse indicando la ragazza morta, “so che non ha ancora finito. Tre era il suo numero magico. Ora è cambiato. So molte altre cose,” sibilò. “Ma sai una cosa? Hai ragione. Questa è la tua giurisdizione. Arrivaci da solo.”

Girò su se stessa per andarsene.

“Whoa, whoa, whoa,” gridò Talbot. “Aspetta un attimo, leone bianco!”

Talbot aveva un atteggiamento completamente diverso quando Avery si voltò. Aveva le braccia aperte e sfoggiava un sorriso incredibile dai grandi denti bianchi.

“E io che pensavo di avere a che fare con un gattino, ma qui c’è un leone bianco.”

Si avvicinò ad Avery, che era più bassa di un paio di centimetri ed era più minuta in tutti i sensi.

“Non posso mettermi tra un investigatore capo e un possibile serial killer in un caso grosso come questo,” disse. “Questa roba è su tutti i giornali. Ti devo aiutare, che mi piaccia o no. Fai con calma,” disse e accennò alla zona tutt’intorno. “Dai un’occhiata.”

“Ma hai appena detto che…”

“Tu non piaci a nessuno,” sottolineò fermamente lui. “I miei non possono pensare che siamo amiconi. È già abbastanza dura essere un uomo di colore là fuori. Che ne dici? Io dico ai miei di occuparsi di questa scena del crimine. Porteremo il corpo dal coroner, cercheremo di capire chi è e faremo controllare la zona dalla scientifica. Quale è il tuo numero? Bisbigliamelo. Bisbiglia…”

Avery gli sussurrò il numero e Talbot fece smorfia antipatica, come se stesse prendendo le impronte del suo supervisore perché potesse essere rimproverata.

“Ti ho appena chiamata,” disse. “Ecco, ora anche tu hai il mio numero. Non appena avrò ricevuto notizie dalla mia squadra, ti manderò un rapporto dettagliato. Non sei felice? Parla con il tuo capitano e digli di chiamare il mio capitano, ma posso già dirti una cosa: questo casino è successo nella mia città questa volta, e ciò significa che è coinvolta la polizia di Belmont. Mi vuoi aiutare? Condividere quello che hai?”

 

“Certo,” disse lei, “possiamo farlo. Vorrei che anche la mia squadra potesse vedere il corpo e consultare il tuo coroner.”

“Non c’è problema.”

“E voglio completo accesso alla scena del crimine.”

“Ce l’hai. Siamo a posto?”

“Sì,” disse e si accigliò. “Credo.”

“Non mi frega un cazzo di quello che credi!” gridò Talbot e indietreggiò perché tutti potessero sentirlo. “È così che sarà e basta, Black!”

CAPITOLO VENTIQUATTRO

Dopo la sfuriata Talbot si allontanò per consultarsi con la sua squadra. La maggior parte degli agenti di Belmont lanciarono occhiatacce ad Avery, o scossero la testa. Sentì uno di loro che diceva: “Perché dobbiamo condividere le nostre informazioni, cazzo? Questo è un crimine di Belmont.”

Avery camminò con calma intorno alla zona.

Fissò il corpo da diverse prospettive. Tutti la ignorarono, ma di tanto in tanto riusciva a sentire delle madri che le urlavano dall’altra parte della cancellata, o dei giornalisti che gridavano domande.

Un senso del killer aveva iniziato a possedere Avery. Aveva iniziato a Lederman Park, e poi al cimitero, la sensazione di conoscerlo in qualche modo. Aveva scelto posti tranquilli, luoghi rispettosi per i morti. Questo era diverso. Anche se la ragazza era stata lasciata in un parco tra gli alberi e i boschi, era un parco per bambini, che aveva un’energia più vivace di un cimitero e una panchina lungo un fiume.

Perché qui? pensò.

Anche la visuale della ragazza era diversa: guardava vari bambini, di diverso genere e colore.

È successo qualcosa, rifletté.

Che cosa è cambiato?

Il rapporto della scientifica e del coroner le avrebbe detto se c’erano differenze nel corpo o nella scena del crimine, ma anche se non avessero trovato nulla, Avery era sicura del suo istinto. Dopo aver lavorato per anni su casi che coinvolgevano serial killer, e prima di passare agli assassini, su casi che riguardavano genericamente persone poco raccomandabili come avvocato, era diventata un’esperta nelle sottile differenze nelle persone e nelle scene del crimine.

Da sola, senza nuovi indizi, dopo una mattinata disastrosa e con i manifestanti, i genitori e la polizia di Belmont che la guardavano male, come se fosse stata un’ospite indesiderata, Avery abbassò il capo e tornò alla macchina.

Il suo arrivo all’ufficio A1 fu la ciliegina sulla torta di una giornata orribile. Nel momento in cui le porte dell’ascensore si aprirono e Avery venne avvistata, l’intero ufficio si ammutolì. Tutti i volti erano pieni di scherno. Jones scosse la testa e distolse lo sguardo, e Thompson le diede le spalle. La totale mancanza di qualsiasi battuta maligna o risata resero solo la cosa peggiore.

Finley era alla sua scrivania. Leggermente più compassionevole del resto del dipartimento, le offrì uno sguardo solidale e abbassò la testa.

Il giornale del mattino, con l’articolo scandaloso sulla sua visita a Howard Randall, era su diverse scrivanie, e qualche schermo del computer mostrava una simile immagine di Avery che piangeva nella sua auto fuori dalla prigione.

“Black,” disse qualcuno. “Vieni qui.”

O’Malley le fece un cenno dal suo ufficio.

Connelly si alzò.

“No. No,” indicò O’Malley. “Non tu. Solo Black.”

“Questo è il mio caso,” ribatté Connelly.

“E se vuoi che continui a esserlo, ti siedi e stai zitto.”

Connelly rimase provocatoriamente alzato e spinse il petto in fuori.

“Sono nei guai?” chiese Avery.

“Entra, dai.” O’Malley fece un cenno e si chiuse la porta alle spalle. “Che cosa ti fa pensare di essere nei guai, Black? Dimmelo tu.”

“Non lo so,” disse lei. “Sono andata a vedere Howard Randall per avere un indizio. Me ne ha dato uno, beh, non uno buono, ma sempre un collegamento tra quelle ragazze. Sapeva qualcosa.”

Un profondo sospiro si alzò da O’Malley.

“Come poteva sapere del tuo caso?” disse. “Quell’uomo è in prigione. Tutto ciò che sa è quello che ha letto sul giornale.”

“Lui ha la mente dell’assassino,” insisté Avery. “Pensa come il nostro uomo.”

O’Malley si accigliò.

“Basta,” disse. “Basta, per favore. Ascoltami, Avery. Tu mi piaci. Ti ho visto fare cose incredibili sul lavoro: cose spericolate, determinate, oneste e soprattutto intelligenti. Anche altre persone lo hanno visto. Ti rompono i coglioni perché sono gelosi e spaventati. La gente ha paura di ciò che non capisce, e io sto iniziando a provare quella paura.”

“Capitano, che cosa sta…”

Fu fermata da un palmo.

“Per favore,” disse, molto calmo e quasi combattuto, “lasciami finire. Questo caso è molto grosso. Più grande di quanto mi aspettassi. Finora abbiamo corpi sparsi per tre contee, tre ragazze morte, niente indizi e un sacco di gente incazzata. Tu sei una belva, Avery. Lo vedo. Lo vedo anche adesso. Sei consumata da questo caso. Vuoi davvero trovare questo tizio, tanto da fare degli sbagli da principiante.”

Sollevò un dito.

“Uno,” disse, “questa mattina a Cambridge hai infastidito un civile.”

“Avevo ragione di credere…”

“Non mi importa che cosa credevi,” gridò. “Hai avvicinato un uomo in uno studio d’arte, un uomo con delle amicizie molto in alto, potrei aggiungere, un uomo che ne ha già passate tante per il suo passato. Il tizio ha avuto un collasso dopo che te ne sei andata. Ha provato a suicidarsi in bagno. Il suo capo ha dovuto tirare giù la porta. È stata chiamata un’ambulanza. Poi lui ha chiamato me e il capo e ha chiamato anche il sindaco. E sai che cosa ha detto? Ha detto che abbiamo permesso a una psicopatica di seguire questo caso. Per fortuna per ora non ti ha denunciata.”

“Suicidio?”

Avery abbassò la testa. Lo sguardo infuocato di Wilson Kyle le tornò in mente e ricordò il suo discorso appassionato sul passato di Lang.

“È stato un errore,” disse lei. “Non ne avevo intenzione.”

“Due,” disse O’Malley e sollevò due dita. “Sei finita sui giornali. Ora, lo so che non è colpa tua. Il più delle volte ti muovi come se fossi l’unica persona nell’universo. Mi viene da chiedermi come tu faccia a vedere qualsiasi cosa, ma ci riesci. Quello che non hai visto è stata quella feccia dei paparazzi in preda al delirio a spese tue. La foto del parco la posso sopportare. Quella che non riesco a capire è la foto della prigione. Sei andata a trovare il più famoso serial killer di tutta la storia di Boston, un uomo che tu hai lasciato andare, un uomo che ha ucciso di nuovo in tuo nome, e non ti è venuto in mente di chiederlo? O di fare attenzione alle macchine fotografiche? O almeno di avvertirmi così avrei potuto dirti che sei pazza?”

“Avevo bisogno di un nuovo punto di vista.”

“Allora chiami me, o Connelly, o chiunque altro sia collegato al caso. Non vai in una prigione federale a cercare una vecchia fiamma. Voglio dire, Gesù. Non leggi mai i giornali? Hanno fatto sembrare il dipartimento un mucchio di coglioni e che le uniche piste che possiamo avere vengono da una tua ex fiamma. Non va bene, Avery, non va per niente bene.”

“Capitano, io sono…”

“Tre,” disse e sollevò tre dita, “tra i tuoi uomini c’è del malcontento. Thompson e Jones si stanno lamentando del lavoro di sorveglianza.”

“Ieri hanno perso un’intera giornata!”

O’Malley alzò una mano.

“Connelly si rifiuta persino di parlare con te…”

“Non è colpa mia!”

“Non so che cosa hai fatto a Finley,” continuò, sconvolto, “ma lui si sta davvero impegnando ed è onestamente turbato da tutta la faccenda.”

All’improvviso Avery iniziò a capire dove fosse diretta quella conversazione.

“Turbato da quale faccenda?” chiese.

“Forse ti ho promossa troppo in fretta,” borbottò tra sé e sé O’Malley.

“Capitano, aspetti.”

Lui scosse la testa e fece una smorfia.

“Basta così, Avery, per favore. Basta. Ok? Il capo mi sta con il fiato sul collo. Il sindaco è furioso. Mi arrivano lamentele da chi-cazzo-sa-dove e riguardano tutte te. Ma la cosa peggiore di tutte, seriamente,” disse con autentica pena nello sguardo. “La cosa peggiore è che non riguarda affatto te, o tutte queste cazzate meschine. Abbiamo tre ragazze morte in meno di una settimana. Tre morte, Avery, e nessuna pista. E una traccia fredda. Ho ragione?”

Avery ritornò con la mente alla piroetta del serial killer e al suo inchino per la telecamera.

“Lo troverò,” disse, “lo giuro.”

“Non finché ci sarò io,” rispose O’Malley. “Sei fuori dal caso, con effetto immediato. Se ne occuperà Connelly.”

“Capitano…”

“Neanche una parola, Black. Neanche una parola, perché ora sono calmo, giusto? Sono calmo perché questo turba anche me, ma se mi provochi mi arrabbierò moltissimo, perché questo caso mi sottopone a un’enorme pressione. Sei fuori. Voglio tutte le tue ricerche sulla scrivania di Connelly nella prossima ora. Ogni informazione sull’ultima scena del crimine a Belmont. Che cosa abbiamo su quella? Dove è il corpo? No, non voglio che tu me lo dica ora. Lo voglio tutto scritto, insieme a qualsiasi pista tu stia seguendo, qualsiasi cosa. Non tralasciare nulla. Hai capito? Poi puoi andare. Hai il resto della giornata libero. Torna lunedì e parleremo di cosa accadrà poi. Ho bisogno del weekend per riflettere.”

“Sono fuori dal caso,” ripeté lei.

“Sei fuori.”

“È definitivo?”

“Lo è.” Lui annuì.

“Sono ancora alla Omicidi?”

O’Malley non volle rispondere.

CAPITOLO VENTICINQUE

Avery non sapeva dove andare. Il suo posto preferito, il poligono, era per i poliziotti e lei non si sentiva più una poliziotta. Il suo appartamento era buio e vuoto, e sapeva che se fosse tornata a casa, si sarebbe semplicemente infilata a letto e ci sarebbe rimasta per giorni.

Un bar in zona, proprio dietro l’angolo rispetto a casa sua, era aperto.

Iniziò la mattina nel modo giusto.

“Scotch,” disse. “Quello buono.”

“Abbiamo molta roba buona,” rispose il barista.

Avery non lo riconobbe. Aveva frequentato il bar solo di notte. Non più, pensò sconsideratamente. Ora bevo anche di giorno.

“Lagavulin!” richiese e colpì il bancone.

Al bar c’erano solo un altro paio di persone, tutte della zona, due uomini anziani che sembravano bere di professione.

“Un altro!” gridò Avery.

Dopo quattro bicchiere, era ubriaca.

Stranamente la sensazione le ricordò il passato. Dopo che Howard Randall aveva ucciso di nuovo in seguito al suo rilascio dovuto alla geniale difesa di Avery, lei era rimasta sbronza per settimane. Tutto ciò che ricordava di quel periodo erano le notti solitarie nella sua stanza buia, i postumi, e i costanti servizi televisivi che sembravano ripetersi in loop.

Abbassò lo sguardo su di sé, sulle sue mani e i suoi vestiti, e poi verso le persone nel bar.

Guarda quanto sei caduta in basso, pensò. Non sei più nemmeno un poliziotto.

Niente.

Le venne in mente il volto di suo padre, che rideva: “Pensi di essere così speciale,” le aveva detto una volta con una pistola premuta alla tempia. “Non sei speciale. Io ti ho fatta e io ti posso disfare.”

Avery incespicò verso casa.

Le immagini del serial killer si mescolarono a dei percorsi stradali e a suo padre e a Howard Randall, e l’ultima cosa che ricordò prima di perdere i sensi furono i suoi stessi singhiozzi.

***

Avery passò il resto della giornata a letto, con le tapparelle abbassate. In maniera casuale, per tutto il pomeriggio e la sera si alzò per idratarsi, per mandare giù una birra e abbuffarsi del cibo avanzato nel frigorifero, prima di tornare in camera e riaddormentarsi.

Alle dieci del sabato mattina, il telefono squillò.

Il nome sul display era Rose.

Avery rispose, intontita e ancora avvolta nel sonno.

“Ehi.”

La voce all’altro capo era severa e implacabile.

“Sembri addormentata. Ti ho svegliata?”

“No, no,” disse Avery e si alzò per ripulirsi un rivolo/scia di saliva dal mento. “Sono in piedi.”

“Non hai mai risposto alla mia email.”

“Quale email?”

“Ho risposto alla tua email. Ho detto sì al pranzo. Siamo ancora d’accordo?”

 

Ad Avery servì un secondo per capire che cosa volesse dire, ma poi ricordò di aver scritto a Rose al culmine della sua esaltazione, quando aveva pensato di essere sul punto di catturare un serial killer. Ora, con i postumi, una pariah sul lavoro e persino incerta della sua posizione, detestava l’idea di coprire la sua miseria di abiti e trucco e cercare di comportarsi come una madre amorevole davanti alla figlia estraniata.

“Sì,” disse. “Certo. Non vedo l’ora di vederti.”

“Sei sicura? Hai una voce orribile.”

“È solo che, sto bene, tesoro. A mezzogiorno. Giusto?”

“Ci vediamo dopo allora.”

La linea si interruppe.

Rose, pensò Avery con un sospiro.

Era sconosciute. Avery non lo aveva mai ammesso a nessuno, ma accudire Rose e cercare di essere una madre era stato un incubo. All’epoca, l’idea della maternità era stata bellissima: una nuova vita, la meraviglia del parto, la possibilità che Rose riuscisse a salvare il suo rapporto con Jack. In pratica, invece, la aveva scoperta essere sfiancante, ingrata e un’altra ragione ancora per litigare con Jack. In ogni occasione possibile aveva assunto una tata, mandato Rosa all’asilo, o l’aveva data al suo ex marito. Il lavoro era stato il suo unico rifugio.

Ero davvero una pessima madre, pensò.

No, cercò di ricordare a se stessa. Non è stato tutto così male.

Aveva veramente amato Rose.

C’erano molti ricordi meravigliosi. A volte avevano riso e si erano travestite insieme. Avery le aveva persino insegnato a portare le scarpe con il tacco. C’erano stati abbracci e lacrime e film a tarda notte e gelato.

Sembrava tutto così lontano ormai.

Erano distanti da anni.

Dopo Howard Randall, Jack aveva chiesto l’affidamento e l’aveva ottenuto. Aveva detto che Avery era una madre inadatta e aveva citato diversi occasioni, incluse foto di quando Rose aveva iniziato a tagliarsi, i messaggi e le email alla madre a cui lei non aveva mai risposto.

Quando è stata l’ultima volta che l’ho vista? si chiese Avery.

A Natale, pensò. No, qualche mese fa. Le sei passata accanto in strada. Non la vedevi da talmente tanto tempo che era praticamente irriconoscibile.

Ora, Avery voleva essere una madre, una vera madre. Voleva essere la persona che Rose chiamava per chiedere consigli e da cui si fermava a dormire e fare delle abbuffate di gelato.

Il dolore continuava a ostacolare Avery, il dolore infinito nel suo cuore e nel suo stomaco per ciò che aveva fatto in passato, e per ciò che ancora doveva farsi perdonare da detective. Era totalizzante, un mostro enorme e oscuro che richiedeva di essere nutrito.

Non c’è giustizia.

Avery si rimise in sesto.

In jeans, maglietta e un blazer marrone, si fissò allo specchio. Troppo trucco, pensò. Sembri stanca. Depressa. Dopo una sbornia.

Un sorriso brillante fece ben poco per nascondere il suo tormento interiore.

“Vaffanculo,” disse.

Il Jack’s Place sulla Harrison Avenue era un locale buio e cavernoso con dei separé bordeaux e molti angolini in cui la gente poteva godersi un buon pasto e rimanere per lo più anonima. In diverse occasioni, Avery aveva visto star del cinema e celebrità. Rose aveva scelto quel posto durante la disputa per la custodia, e anche se Avery era certa che fosse perché non voleva essere vista con la sua stessa madre, era diventato il filo che le legava insieme, e l’unico luogo in cui si incontravano a distanza di mesi.

Rose era arrivata in anticipo, già accomodata a un tavolo appartato, lontano dagli altri avventori.

Sotto molti aspetti era un clone di Avery da giovane: occhi blu, capelli castano chiari, lineamenti da modella e un eccellente gusto nel vestire. Indossava una camicetta con le maniche corte che metteva in mostra le sue braccia sode. Un piccolo piercing con un diamantino era infilato accanto alla sua narice sinistra. Con una postura perfetta e lo sguardo guardingo, le fece un sorriso superficiale prima che i suoi lineamenti tornassero impassibili e indecifrabili.

“Ciao,” disse Avery.

“Ciao,” fu la brusca risposta.

Avery si chinò in avanti per un goffo abbraccio che non venne ricambiato.

“Mi piace il piercing al naso,” disse.

“Pensavo che li odiassi.”

“A te sta bene.”

“Sono rimasta sorpresa dall’email,” disse Rose. “Non mi contatti molto spesso.”

“Questo non è vero.”

“Mi correggo,” rifletté Rose. “Mi contatti solo quando le cose ti vanno molto bene, ma da quello che ho letto sui giornali, e da quello che vedo io stessa,” disse osservandola con gli occhi stretti, “questo non è il caso.”

“Grazie mille.”

Ad Avery, che vedeva la figlia solo qualche volta all’anno, Rose sembrava più grande e matura di quanto i suoi sedici anni potevano indicare. Un’ammissione anticipata al college. La borsa di studio per la Brandeis. Lavorava persino come tata per una famiglia vicino a casa sua.

“Come sta papà?” chiese Avery.

Arrivò il cameriere, interrompendole.

“Salve a voi,” disse. “Mi chiamo Pete. Sono nuovo qui, quindi siate pazienti con me. Posso portarvi qualcosa da bere?”

“Solo acqua,” rispose Rose.

“Anche per me.”

“Ok, ecco i menu. Tornerò tra pochi minuti a prendere il vostro ordine.”

“Grazie,” disse Avery.

“Perché mi chiedi sempre di papà?” scattò Rose quando furono da sole.

“Sono solo curiosa.”

“Se sei curiosa, perché non lo chiami tu stessa?”

“Rose…”

“Scusa,” disse. “Non so perché l’ho detto. La sai una cosa? Non so nemmeno perché sono qui,” si lamentò. “Ad essere sincera, mamma, non so perché tu mi voglia qui.”

“Che cosa vorresti dire?”

“Sto vedendo uno psicoterapeuta,” disse Rose.

“Davvero? È fantastico.”

“Dice che ho un sacco di complessi con la figura materna.”

“Tipo quali?”

“Tipo che ci hai lasciati.”

“Rose, io non ho mai…”

“Aspetta,” insisté Rose. “Per favore, fammi finire. Poi puoi parlare tu, ok? Te ne sei andata. Hai lasciato la custodia a papà e te ne sei andata. Hai idea di quanto mi abbia distrutto?”

“Lo so…”

“No, non lo sai. Ero, ecco, super popolare prima che succedesse tutto. Poi, da un giorno all’altro, sono la ragazza da cui bisogna stare lontani. Mi prendevano tutti in giro. Mi hanno dato dell’assassina perché la mia mamma aveva fatto scagionare un serial killer. E di certo non potevo parlarne con te, la mia stessa madre. Avevo bisogno di te. Davvero, ma tu mi hai praticamente abbandonata subito. Ti sei rifiutata di parlare con me, ti sei rifiutata di parlare del caso. Ti rendi conto che tutto ciò che sapevo di te di quel periodo, l’ho imparato dai giornali?”

“Rose…”

“E ovviamente non c’erano soldi,” rise Rose con uno scatto della mano. “Dopo che hai perso il lavoro, eravamo al verde. Ci siamo dovuti trasferire. Non ci hai mai pensato, vero? Da avvocato di fama sei diventata una poliziotta. Bella mossa, mamma.”

“Ho dovuto farlo,” scattò a sua volta Avery.

“Non avevamo niente,” insistette Rose. “Non puoi iniziare una carriera da capo nel bel mezzo della tua vita. Abbiamo dovuto trasferirci. Ci hai mai pensato? A che effetto avrebbe avuto su di noi?”

Avery si appoggiò all’indietro.

“È per questo che sei venuta qui? Per urlarmi in faccia?”

“Perché tu sei voluta venire, mamma?”

“Volevo che ci riavvicinassimo, volevo vedere come stavi, volevo parlare e cercare di sistemare le cose.”

“Beh, non succederà niente di tutto questo prima che io l’abbia superata, e ancora non è successo. Semplicemente no.”

Rose scosse la testa e alzò lo sguardo al soffitto.

“Lo sai? Per anni ho pensato che fossi una superstar. Un’incredibile personalità, un lavoro importante, vivevamo in una casa favolosa ed era come se… wow, mia mamma è grandiosa. Ma poi è andato tutto in pezzi, e insieme sono svaniti la casa, il lavoro e tu… soprattutto tu.”

“Tutta la mia vita era crollata,” disse Avery. “Ero devastata.”

“Io ero tua figlia,” rimarcò tristemente Rose. “Anche io ero lì. Tu mi hai ignorata.”

“Ora sono qui,” giurò Avery. “Sono qui in questo momento.”

Il cameriere tornò.

“Va bene, signore! Sapete che cosa volete?”

In contemporanea, Avery e Rose gridarono: “Non ancora!”

“Whoa, Ok. Perché non mi chiamate quando siete pronte?”

Nessuno rispose.

Il cameriere indietreggiò e se ne andò.

Rose si strofinò la faccia.

“È troppo presto,” si rese conto. “Mi dispiace, mamma. Ma è troppo presto. Mi hai chiesto perché sono voluta venire qui? Perché pensavo di essere pronta. Non lo sono.”