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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XXXI

Alle dieci del mattino adunque ciascuno dei condannati aveva visto aprirsi la porta della sua carcere ed uditosi annunziare che la domanda di grazia per commutazione di pena era stata respinta, e che dovevano quindi prepararsi alla morte per la mattina ventura. Furono condotti, come si suol dire, in confortatorio, ciascuno in una stanza separata, e posti in mano ai confratelli della Compagnia della Misericordia, ai quali i miseri dovevano essere affidati fino alla loro inumazione.

Le celle in cui furono posti i condannati erano carceri come le altre, nelle quali presso una parete s'era drizzato una specie di altare con sopravi un crocifisso e quattro candele accese; siccome le porte di queste celle avevano da rimanere aperte, e la custodia dei miseri, senza intromissione di agenti della forza pubblica, era tutta lasciata ai fratelli della Misericordia, ed anco perchè gl'infelici non potessero attentare alla propria vita, si era fatto vestire ai condannati la così detta camicia di forza, e per una catena che si univa ad un anello piantato nel muro, catena abbastanza lunga da permetter loro di passeggiare su e giù della cella, furono avvinti ad una gamba.

Il venire ad annunziare ad un uomo che è pieno di vita: «tu domani morrai,» è una tremenda novella. La natura, l'istinto si ribellano contro questa sentenza: tutte le forze della vitalità insorgono e s'inalberano: il vuoto orrendamente nero del sepolcro spaventa le aspirazioni della vita in pieno vigore dell'organismo; la cosa dapprima non sembra possibile; si crede ad un giuoco feroce, ad un orribile inganno che cesserà ad un punto, si spera follemente un miracolo che vi salvi, si aspetta anche una catastrofe; l'io, avvezzo a far centro se stesso all'universo, come può persuadersi che impreparato, senza transizione, ad un tratto, abbia da venir tolto di mezzo, e quella natura che crede fatta per lui, in mezzo alla quale vive, cui egli per sè riempie della sua personalità, stiasi indifferente ed immota? Esso argomenta contro l'evidenza; come una mosca dentro una chiusa invetrata, gli pare che debba trovare ad ogni momento il passo per fuggire da quella orribile realtà e si urta il capo vanamente contro l'impervia necessità inesorabile. Ad un punto la certezza di questa impossibilità lo assale, lo afferra, direi quasi, alla gola, e l'uomo sente invaso dal sangue in tumulto il cervello indebolito. Entra allora in furore: bestemmia, minaccia, freme, ruggisce; vorrebbe infierire contro sè, contro tutta l'umanità, contro il mondo; si scaglia colla temerità di Satana contro Dio. Più tardi succede la spossatezza; il parosismo della febbre suscitatasi lascia l'abbattimento; la stessa fatica materiale della prima esaltazione, conferisce a domare quel sussulto di nervi; l'incessante crudele pensiero: «fra poche ore morrò» è un potente interno corrosivo che consuma l'energia e le forze. Nell'inoltrarsi della notte cresce questa prostrazione: è quello il tempo che i preti accorti sanno più propizio a rendere efficaci le loro esortazioni religiose. Respinta d'ordinario nelle prime ore in cui il condannato è in confortatorio, nella notte la parola religiosa è accolta con tolleranza dapprima, poi il più spesso, con fervore. Visto inutile ogni lusinga nelle cose umane, il morituro si getta disperatamente nelle braccia della religione e cerca in essa quella forza che sente da ogni altra parte mancargli. Verso il mattino, di regola generale, una certa pace, e per parecchi una vera e positiva pace, è entrata nell'anima del condannato, e il misero s'addormenta di un sonno quasi sempre calmo e tranquillo.

Le impressioni provate, o per dir meglio manifestate dai nostri tre personaggi all'annunzio fatale furono diverse. Stracciaferro colla sua aria sempre più stupidita parve non aver nemmeno compreso; guardò col suo occhio semispento le persone che lo attorniavano; e siccome il secondino lo aveva fatto levare dritto in piedi per ascoltare quella terribile comunicazione, si dispose a sdraiarsi di nuovo sul suo giaciglio. Ne lo impedirono dicendogli che bisognava cambiar di cella ed entrare nel confortatorio. Si lasciò passivamente indossare la camicia di forza, trascinare alla stanza destinatagli, e guardò con una certa curiosità da scemo il carceriere che gli attaccava alla gamba la catena di ferro. I due fratelli della Misericordia che stavano a fargli compagnia (e due dovevano rimanere sempre di guardia intorno a ciascuno dei condannati) vollero cominciare a dirgli qualche parola di conforto; ma egli li guardò con aria così ferocemente imbestialita, ch'essi pensarono essere miglior consiglio per allora non toccare quel tasto. Ch'egli però capisse la sua condizione diede prova poco stante facendo la seguente domanda:

– In confortatorio si dà al condannato tutto quello che desidera, non è vero?

– È una pia usanza della nostra compagnia della Misericordia, gli fu risposto, di cercar di soddisfare ai desiderii di quegl'infelici, per quanto lo consentono le nostre facoltà; e se voi desiderate qualche cosa…

– Ebbene sì; proruppe quell'omaccione in cui fino all'ultimo avevano da predominare gl'istinti materiali: desidero fare una buona corpacciata. Voglio provare il gusto dei ricchi, mangiare come un signore, almeno l'ultimo giorno della mia vita… Mi si dia una pernice… e tutto quello che vi ha di più fino e costoso… e buon vino, barbera suggellato, e una caraffa di cognac.

Graffigna, d'ordinario così calmo, così cauto e prudente, perdette la padronanza di sè, e salì subitamente in un furore senza misura all'udire il brutto annunzio. Si dovette ricorrere alla forza per contenerlo; due uomini robusti furono necessari a vestirgli la camicia di forza, e bestemmiante, urlante, gli occhi piccoli fuori della testa, la schiuma alla bocca, bisognò trasportarlo a braccia nella cella a lui assegnata. Seguitò per un poco a strepitare, maledire, imprecare, minacciare, contorcersi, agitarsi: ma poi abbattuto, non domo, si accovacciò presso il muro dov'era infisso il capo della sua catena e stette rotando intorno occhi spauriti e insieme feroci, che lo facevano rassomigliare in vero ad una volpe presa al laccio che s'aspetta da un momento all'altro il colpo mortale.

Il medichino, egli, com'è facile aspettarsi, aveva mostrato un più nobile e più fiero contegno.

Udito che quello era l'ultimo giorno della sua vita, Gian-Luigi s'era vezzosamente inchinato come per ringraziare chi glie ne aveva data la novella, come per salutare la morte che vedesse comparirgli sulla soglia della sua carcere. Nessun altro segno d'emozione fu da notarsi in lui, fuorchè un lievissimo tremar delle ciglia; non impallidì il suo viso, non diede il menomo sussulto pur uno de' suoi membri: sorrise. Quando seppe che gli bisognava calzare la camicia di forza ed essere incatenato per il nodello ad una gamba, domandò se questo non poteva essergli risparmiato; rispostogli che no assolutamente, mandò un sospiro, e vi si acconciò senz'altra osservazione. Messo nella cella a lui destinata, guardò con empia ironia l'altare preparatovi, il crocifisso e l'inginocchiatoio postovi dinanzi; girò intorno alle pareti per quanto gli concedeva la lunghezza della catena, e lesse con apparente interessamento parecchie iscrizioni che vi erano scombiccherate su. Ad un punto vi era una filza di nomi accompagnati da qualche parola di preghiera e di rimpianto: erano i nomi di coloro che da più anni erano passati in quel confortatorio per andarne a morire: ciascuno vi aveva scritto il suo nome, la sua età, la data della sua dimora nel luogo funesto ed un'invocazione alla pietà ed alla compassione di chi leggesse. Il medichino si volse ad uno dei fratelli della Misericordia che stavano guardandolo con un interesse di curiosità che ben gli valevano la sua trista rinomanza e gli strani casi della sua vita:

– Avrebbe Lei un toccalapis da imprestarmi?

Il confratello della Misericordia s'affrettò a soddisfare alla sua richiesta. Gian-Luigi scrisse poche parole e si allontanò: i due suoi assistenti si accostarono a leggere avidamente. L'ultima di quelle lamentanze diceva: «Ah! come crudele morire a trent'anni, sano e robusto da viverne ancora altri cinquanta!» Il medichino aveva scritto con mano ferma al di sotto di tutti que' rimpianti: «Imbecilli tutti! si muore e si tace!»

I due fratelli della Misericordia si guardarono in volto stupiti, non comprendendo il significato di quella disperata rassegnazione.

– Ella non ha voluto fare come gli altri e metterci il suo nome: disse il più audace de' due.

Il medichino, pure in quella estrema condizione in cui si trovava, aveva conservato tanta apparenza di superiorità che il buon popolano sotto la cappa della confraternita non osava trattarlo altrimenti che col Lei.

– A me non piace fare come gli altri: rispose superbamente il condannato. Il mio nome!.. Perchè metterci costì su quella ignominiosa parete, vicino a que' nomi infami anche il mio? Per farmi ricordare? Ho più caro essere obliato. E chi lo leggerebbe? Qualche altro miserabile che passerà angosciato per quest'anticamera del patibolo.

Si piantò innanzi alla parete dov'erano scritti que' nomi e li lesse forte con accento d'una sprezzosa ironia.

– Ne ricordo alcuni di questi buoni arnesi. Costui che ha scritto la massima la più affettuosa e più tenera del Vangelo, cui certo gli aveva allor allora soffiata nell'orecchio il confessore, aveva ucciso una vecchia a colpi di sasso per pigliarle quaranta franchi; quest'altro ammazzò suo padre, perchè non voleva dargli dieci lire da pagare una meretrice… E tutti costoro si sono purgati con una buona confessione, s'illustrarono con un pentimento esemplare, sono partiti dal mondo «puri e disposti a salire alle stelle» ed ora godono nelle beatitudini del paradiso il premio delle loro buone azioni.

 

I due della Compagnia della Misericordia, senza capire tutta l'empietà dell'ironia che era nelle parole del condannato, pure se ne sentivano ghiacciare il sangue; lo guardavano quasi esterrefatti, e non sapevano trovare parola.

Il medichino riprese dopo un poco:

– Loro ne hanno assistito qualcheduno di questa brava gente nelle sue ultime ore?

– Signor sì: rispose quello de' due che aveva lo scilinguagnolo più sciolto. Feci quest'opera di carità per tre di codestoro; e li accompagnai, sostenendoli, proprio sino ai piedi…

Si trattenne dal dire l'ultima parola.

– Della forca: suggerì il condannato con un sorriso pieno d'innocenza.

– Sì, signore.

– Bravo! È uno zelante Lei!

– Eh eh! fece il confratello insaccando modestamente il capo fra le spalle.

– Ne la felicito. Che professione è la sua?

– Sono barbiere.

– E la trascura la sua bottega per passar qui la giornata nella compagnia poco gradevole di uomini che stanno per dar calci all'aria. Ci prova dunque una soddisfazione?

– Quella di fare un'opera buona.

– E ne spera compenso?

– Da Quel di lassù.

– Benone! La sarà chiamata a far la barba nel regno dei cieli.

E voltò le spalle ai due confratelli, a cui quello scherno ispirò più terrore che risentimento. Passeggiò per un poco su e giù, poi andò a sedersi sul gradino dell'inginocchiatoio. I due assistenti si dissero che loro debito era quello di confortare il condannato, e che per confortarlo bisognava parlargli; si consultarono quindi a bassa voce fra di loro, si fecero reciprocamente coraggio, s'avvicinarono al paziente uno dall'una parte, l'altro dall'altra, e cominciarono colla maggior convinzione del mondo a snocciolare la filza delle consolazioni e degli ammonimenti volgari che erano del caso. Gian-Luigi sollevò il capo e guardò stupito questo poi quello, come avrebbe guardato due automi di Vaucanson, così perfezionati da favellare; poi ad un punto li interruppe.

– Signori, la loro eloquenza a duetto senz'accompagnamento è tale da disgradare quella del Segneri, dello Scarpa, di tutti i predicatori gesuiti e del professore Paravia; ne faccio loro i miei complimenti, ma io non amo l'eloquenza – fuor quella dei fatti – detesto i sermonanti e gli avvocati; e il susurro delle loro parole mi riesce molesto come il ronzio di due tafani. Li prego di credere che ho abbastanza fantasia per immaginarmi tutte le belle cose che trovano da dirmi, e di lasciarmi quindi tranquillo. Ho piacere di meditare: è l'ultimo giorno che mi servo di questo strano stromento che è il cervello, e mi piace, come si suol dire, darmene una satolla. Le loro buone intenzioni che apprezzo, tradotte in discorsi, non riescono che a disturbarmi.

I confratelli s'allontanarono da lui mortificati, e lasciandolo immerso ne' suoi pensieri, non gli rivolsero più la parola.

Erano passate parecchie ore, quando il condannato, uscito dalla sua meditazione, s'accorse che i due soci della pietosa confraternita stavan sull'uscio della cella discorrendo vivamente, a bassa voce, con qualcheduno.

– Che cosa c'è? domandò egli uscendo per la prima volta dalla sua apatia e lasciando apparire una certa inquietudine.

I confratelli si volsero verso di lui a rispondergli. Il tempo di guardia dei due primi era trascorso, ed altri due si erano a quelli sostituiti, senza che il condannato pur se ne avvedesse. Uno di questi nuovi assistenti rispose adunque:

– È un buon religioso, il bravo Padre Bonaventura de' frati gesuiti che vorrebbe parlarle.

Gian-Luigi corrugò leggermente le sopracciglia.

– A me? domandò egli con accento d'uomo che non capisce il perchè d'una cosa: Padre Bonaventura? E che può egli aver da dirmi?

Il frate non lasciò rispondere da altri: cominciò per allungare il collo e mostrare il suo cappellone da gesuita e la sua faccia pienotta nel vano della porta, poi si fece innanzi e introdusse la sua grassa persona vestita di cotta nera.

– Caro mio figliuolo: disse con voce d'un'affettata dolcezza, che riuscì al paziente oltremodo antipatica: ti dispiace ch'io venga a fare un poco di conversazione con te?

Era una delle specialità di quel gesuita il confortare i condannati a morte, ed aveva fama di saper toccare il cuore ai più riottosi e convertire i più ricalcitranti. Si narrava di scellerati dal cuore induritissimo, che, avendo resistito alle esortazioni dei più eloquenti confessori, avevano poi finito per cedere alla insinuantesi, melliflua voce del gesuita. I casi più serii ed i birboni più matricolati erano riservati a lui; era questo uno dei suoi vanti eziandio, e soleva accorrere come divisione invincibile di riserva nella battaglia contro il demonio, per istrappare dagli artigli di quest'ultimo l'anima scellerata che si stava per lanciare nell'eternità. Il contegno del medichino coi due primi confratelli della Misericordia aveva già provato chiaro come quest'infelice appartenesse alla schiera dei pervicaci, e s'era pensato senz'attender altro, di far venire subito all'assalto le poderose forze dialettiche e teologiche dell'eloquenza del gesuita.

Questi poi era da se stesso offertosi sollecitamente ed andato incontro all'ufficio, perchè una gran curiosità gli era nata in corpo di veder chiaro in certi misteri cui frequentando assiduamente la casa Baldissero aveva colla sua solita accortezza notato in quella famiglia da alcuni giorni, misteri nei quali aveva subodorato aver parte il famoso medichino, condannato a morire. Come abbiam visto aveva egli appreso dalla confessione del moribondo Nariccia che il creduto Maurilio non era altrimenti il figliuolo della marchesina Aurora, ma che questi era da trovarsi in altro individuo possessore della metà di quella certa lettera di cui egli s'era reso padrone e che per suo mezzo era passata nelle mani del marchese. A lui non si era detto nulla più intorno a quell'affare: ma col suo acume il gesuita non tardò a concepire il sospetto che quel vero figliuolo fosse stato trovato, e da certi sguardi scambiati, da certi pallori e silenzi impacciosi subitamente avvenuti fra i componenti della famiglia Baldissero, quando nel loro salotto il discorso cadeva, come in que' giorni era troppo facile succedesse, sul così detto medichino, il frate era venuto ad argomentare che quel tale smarrito fanciullo potesse benissimo esser costui. Sdegnato che a lui non se ne fosse fatta la confidenza, e pensando che in qualche modo nell'avvenire la scoperta di questo segreto di famiglia aggiunto a quegli altri ch'egli conosceva già, avrebbe forse potuto giovargli, Padre Bonaventura decise impiegare tutta la sua arte nell'apprendere il vero, ed avvisò che metodo buonissimo da ciò fosse il sentire il condannato a morte nell'ultima sua confessione. Ed ecco perchè con tanto maggior zelo si affrettava a venir disputare quell'anima al demonio.

Ma al pari della voce falsamente amorevole, fu antipatica al condannato la figura ancora più falsa di quel frate. Il sorriso piacentiere di quelle labbra carnose da ghiottone gli dispiacque estremamente: quel sentirsi a dar del tu (usanza che il gesuita aveva con tutti i suoi penitenti) fece inalberare l'orgoglio permaloso di Gian-Luigi. Questi si levò in piedi, guardò il gesuita dalla cera ipocritamente umile, come un principe avrebbe guardato un pezzente, e rispose con superbo piglio:

– Che cosa vuoi tu ch'io me ne faccia della tua conversazione?

Padre Bonaventura, offeso, arrossì alquanto nelle sue guancie paffute, e nello sforzo di voler dominare la sua bizza, fece una smorfia che pareva di chi inghiottisca qualche amara medicina.

– Oh oh! disse fra sè: che tono… Ma gli è tutto l'orgoglio dei Baldissero… Cospetto! E' rassomiglia di molto alla marchesa Aurora… Non ci è più dubbio: questo è il figliuolo di Valpetrosa.

– Mio caro, riprese di poi con un forzato sorriso: chi sa che la mia conversazione non possa esservi utile più che non crediate. E se d'altronde, a voi non interessa, fate conto che la vostra interessi me, e concedetemi un momento di colloquio per farmi piacere.

Gian-Luigi sorrise più superbo che mai; e passando ancor egli a dargli del voi, rispose:

– Sia come volete. Inoltratevi; sedete… o state in piedi, come vi piace meglio; e dite quello che vi pare.

Padre Bonaventura s'introdusse col suo solito sorriso e il suo passo discreto che non faceva rumore, sedette, si levò il cappellone e se lo pose sulle ginocchia, vi pose su le mani incrociate e guardò col suo occhio esaminatore il condannato; il quale, dopo averlo fissato un poco con aria di non dissimulato disprezzo, si era dato a passeggiare in su e in giù per quanto gli permettesse la sua catena.

Il frate non tardò a farsi certo che le sue usate sdolcinerie gesuitiche e le carezzevoli forme per cui soleva insinuarsi nell'animo altrui, non avrebbero approdato con questo cotale; ed avvisò che a scuotere quella superba avversione onde il giovane lo aveva accolto, a farne oscillar l'anima fiera, e poter trovare un giunto, se pur vi era, di quella corazza di incredulità e d'orgoglio cui vestiva quella robusta volontà, occorreva percuotere un gran colpo. Stette un buon quarto d'ora senza parlare, seguitando sempre collo sguardo de' suoi furbi occhi penetrativi l'andare e le mosse del condannato: voleva eccitarne alquanto con quel silenzio la curiosità; il giovane non avrebbe di certo potuto a meno di pensare: «che mai ha in animo di dirmi costui? come se la vuol prendere per convertirmi? e perchè non parla?» voleva suscitarne coll'attesa l'impazienza e così provocarne di meglio l'attenzione. Di fatti il medichino, che andando e venendo gettava sempre uno sguardo sul gesuita e ne vedeva le pupille fisse su di lui con espressione di pietà, di cordoglio, di rammarico, finì per impazientirsi di quella taciturnità e di quelle guardate.

– Ebbene, diss'egli piantandosi innanzi al frate, la è questa la conversazione che volete fare?

– Sapete pure, rispose Padre Bonaventura, che quando si hanno le tante cose da dire, gli è appunto allora che non si trovano le parole. Stavo pensando.

– Quando siete venuto qui, disse Gian-Luigi con fine ironia, dovevate già aver pensato. Alle corte, voi siete venuto per salvare l'anima mia. (Fece un satanico sogghigno nel dir ciò). Non è egli vero?

Il gesuita alzò gli occhi al soffitto in una mossa da estatico, come si dipingono i santi che si adorano sugli altari.

– Ho pregato vivamente, rispos'egli con voce che pareva piagnolosa, ho pregato la Madonna del Carmine mia santa patrona, perchè mi rendesse degno di questa grazia.

– Or bene, continuava il condannato colla medesima empia ironia, se la vostra Madonna vuol farvi questa grazia, deve già avervi ispirato i mezzi di pervenire al vostro santo fine, gli argomenti da convincere la mia incredulità (perchè io sono un incredulo, signor mio), l'eloquenza da penetrarmi in cuore. Parlate adunque sollecito e saremo più presto liberi tuttedue, voi dell'obbligo del vostro mestiere, io…

Si arrestò, perchè la sua natìa gentilezza gli fece sentire in quella tutta la brutale grossolanità della espressione che stava per usare.

– Della mia compagnia: soggiunse il gesuita terminando la frase, con accento di mite umiltà e faccia di rassegnata tolleranza. Ditelo pure. Oh! non crediate d'offendermi. Me, come uomo, voi potete ferire come e peggio che vi piaccia; non mi lamenterò, vi benedirò anzi. Vorrei esser fatto segno non solo della vostra ironia, del vostro scherno e del vostro disprezzo, ma dei più fieri insulti eziandio e dei mali trattamenti. Ricordate ch'io son servo e ministro di Colui che venne in terra per tutto soffrire dagli uomini in beneficio degli uomini, di Colui che disse: «se vi percotono la guancia destra, e voi porgete la sinistra.»

Queste parole pronunciate con un tono dolciato ed untuoso che sapeva d'ipocrita lontano le mille miglia, irritarono vieppiù il paziente: una matta voglia glie ne venne di percuotere una di quelle guancie paffute del frate, per porlo tosto in condizione d'applicare la massima del Vangelo; si tolse di là per resistere alla tentazione, e prese di nuovo a passeggiare.

Padre Bonaventura, che s'accorse dell'effetto delle sue parole, continuava:

– Vedo tutta l'irritazione dell'animo vostro, e la capisco. La è naturale, è necessaria, e vorrei benissimo che la potesse avere uno sfogo, sicuro che di poi la cederebbe per lasciarvi luogo a penetrare alla parola di Dio. Deh! (e levò più che mai gli occhi al soffitto) potess'io essere occasione e vittima anche di questo sfogo: io vi direi come Temistocle: «batti ed ascolta»; ma per carità, per l'amore di voi medesimo, per l'anima vostra, rispettate quello che v'ha di più rispettabile e di più venerando: la nostra santa religione…

 

Il medichino lo interruppe con impazienza:

– Voi, quantunque gesuita, mancate di quell'arte rettorica che mostrate a vostro uso alle generazioni crescenti. Mi scongiurate a nome di cose che non hanno, che non possono avere su di me nessuna efficacia. La carità? Come volete che ci creda un uomo che gli altri uomini mandano a morire? L'amore di me medesimo? Fra dodici ore non esisterò più. L'anima mia? Non credo a questa invenzione dei pusilli che i furbi di tutte le epoche col nome di sacerdoti, hanno sfruttata per tenere a sè soggetto il genere umano. Noi siamo un organismo come quello dei bruti, più perfetto, e che quindi è arrivato al fenomeno del pensiero: distrutto quest'organismo, tutto è distrutto. La vostra anima l'ho cercata collo scalpello dell'anatomico, e non l'ho trovata; ho trovato bensì la materia e le leggi necessarie che la reggono da cui tutto mi viene spiegato senza bisogno d'altra ipotesi. Come volete voi ch'io rispetti la religione? La vostra, al par di tutte le altre, non è che un insigne inganno a cui si pigliano i semplici: l'uomo, stupito egli medesimo d'avere una ragione, vi ha rinunciato per credere alle assurdità dei dogmi.

Padre Bonaventura tolse dalla coppa del suo cappello le sue mani bianche e grassotte, e le levò in alto inorridite. Allora pensò che non bisognava più indugiare a dar quel certo gran colpo che aveva meditato.

– Sapete una cosa, signor incredulo? diss'egli con maggior forza nell'accento: io son quello che assistè fino alla morte l'agonia del povero Nariccia, e ne udì l'ultima confessione.

La botta fu veramente efficace; le guancie già pallide del condannato impallidirono ancora; un tremito, tosto frenato, gli agitò le membra; negli occhi corse come uno sgomento; ma il vigoroso atleta si riebbe tosto; i muscoli della faccia si fermarono in una espressione di feroce impudenza, lo sguardo sfavillò d'una luce infernale.

– Ebbene? domandò egli freddamente. Che cosa ne volete inferire da ciò?

– Che in questo dovreste riconoscere la mano di quel Dio che negate, l'opera di quella Provvidenza cui bestemmiate.

Gian-Luigi crollò le spalle.

– Non ci vedo che il fatto naturalissimo di un caso volgare. È vostro mestiere udire confessioni ed assistere moribondi.

Il gesuita piantò in faccia al condannato i suoi occhi fissi, acuti, penetrativi.

– Gli è da lungo tempo che io conosceva messer Nariccia: diss'egli lentamente: fin dal tempo ch'egli era ragioniere del fu marchese di Baldissero, padre dell'attuale.

Il lieve movimento con cui si rivelarono l'interesse e la sorpresa di Gian-Luigi, non isfuggì allo sguardo attento del frate.

– Io sapeva già molto di lui e della sua vita: continuò questi con la medesima lentezza: ma non sapevo tutto… Di un uomo qual era quel povero Nariccia (Dio gli voglia usare misericordia!) è impossibile saper mai tutti i segreti; ma in faccia al sepolcro, al momento di comparire innanzi al giudice eterno, anche le anime più nere e più false sentono la pressione della verità e provano il bisogno di riconoscere la giustizia divina.

Quercia protestò con un sorriso.

– Eh! esclamò egli. Ho conosciuto anch'io e per bene quello sciagurato. Era un impostore…

– Innanzi alla morte ed alla paura della dannazione eterna non vi hanno più ipocrisie. Quell'uomo disse tutta la verità, così che io potei riparare ad un grave errore in cui per sua colpa stava per cadere un'illustre famiglia, adottando come suo membro un estraneo che non le apparteneva.

Il medichino non pensò neppure a dissimulare la sua meraviglia.

– Ah! siete voi che avete appreso al marchese la verità?.. Voi dunque sapete tutto?

– Vi ho già detto che così era.

Padre Bonaventura non ebbe più dubbio nessuno sull'essere del giovane. S'e' non fosse stato lo smarrito fanciullo, come avrebb'egli avuto cognizione di codeste cose?

– Or bene: disse dopo una brevissima pausa il condannato: per qual motivo venite voi a ricordarmi codesto? Poichè siete così appuntino informato a tal riguardo, saprete pure che tutto ciò gli è, dev'essere come se non fosse stato mai, che quindi non se ne ha pur da discorrere.

– Vengo a ricordarvelo, disse il frate, appunto perchè nella sequela di questi avvenimenti riconosciate qualche cosa di più che l'opera del caso, la mano di quell'Essere supremo che tutto muove.

Volse uno sguardo verso i due confratelli della Misericordia, che fino dal principio del colloquio si erano ritratti il più lontano che si potesse, ed abbassò tuttavia la voce perchè neppure il suono di una parola giungesse sino a loro.

– Quel bambino cui Nariccia derubò dell'aver suo e volle smarrito fu quello che venne ad assassinarlo, spogliarlo e trarlo a morte…

Questa vicenda di casi era veramente così speciale che già n'era stato colpito, meditandovi sopra, l'assassino medesimo; nel rimettergliela ora innanzi la mente, fra' Bonaventura, che aveva di botto determinato giovarsi di quella circostanza per influire sull'animo del giovane, ridestò in costui tutta l'emozione, tutto il turbamento che già pensandovi da solo, egli ne aveva provato. Fece vivamente un atto colla mano come per dirgli, per imporgli tacesse, ed allontanatosi da lui, stette un istante immobile, muto, colla faccia nascosta nelle palme delle mani. Ma fu breve l'istante della sua commozione; la fiera natura non tardò a riagire in lui: rialzò la faccia in cui brillava da agghiacciare il sangue a chi lo mirasse in tutta la sua potenza malefica un sogghigno mefistofelico e disse con acre ironia:

– Io non sono dunque stato, a vostro senno, che lo stromento della Provvidenza, per punire la colpa di quell'…

Trattenne l'epiteto oltraggioso che stava per uscire dalle sue labbra a carico di quell'individuo da lui ucciso.

– Di quell'uomo: soggiunse ripigliando. Non c'è dunque imputabilità in me. E che s'immischia la giustizia umana a voler sindacare gli atti e gli stromenti di quella divina?.. Se la voleva concedersi gusto di fare un processo, non è a me che lo doveva rivolgere, ma a Domineddio.

– Sì, rispose il gesuita, voi foste stromento della Provvidenza, come lo siamo tutti quanti siamo, effettuando ognuno il disegno di Dio; ma ciò non toglie che ciascuno debba portare la risponsabilità dei suoi atti.

– Signore, interruppe Gian-Luigi, queste le sono teorie filosofiche da spacciarsi ai babbei che adottano lo stupido assioma: credo quia absurdum. Se io nei miei fatti sono l'agente d'una volontà superiore che mi domina, non posso io essere accagionato di quel che faccio; non ho più la libertà del mio arbitrio, e senza questa libertà come aver merito o colpa?

Stimo troppo fastidioso pei miei lettori il riferir qui le ragioni addotte dal gesuita a difendere le grandi teorie dell'esistenza di Dio e dell'anima umana immortale, non che la guisa con cui esprime questi principii ne' suoi dogmi, nel suo culto e nella sua disciplina (tutte cose che si tengono) la religione cattolica. La sostanza fondamentale di tutti quegli argomenti era quella medesima che abbiamo visto nelle parole di Don Venanzio, allorchè ebbe luogo tra lui e Maurilio la discussione religiosa che fu riferita per sommi capi; con questa differenza però, che dalla parte del parroco di villaggio v'era maggior bonarietà e vi si sentiva più profonda convinzione e più sincerità di buona fede; in Padre Bonaventura erano invece maggior quantità di arzigogoli d'argomentazione scolastica da teologia di seminario, ed abbondosi quegli ornamenti (che nel discorso dell'umil prete mancavano affatto) dell'eloquenza gesuitica carezzevole, untuosa e sdolcinata.

Gian-Luigi oppose con acerbo disdegno tutte le difficoltà che suole affacciare il materialismo alle idee spiritualiste da Lucrezio in poi, rincalzate dall'aiuto potente che gli vennero a dare le scoperte della scienza moderna; ma il gesuita non solo condannava, sì ancora negava la scienza, non si contentava di cercare ai progressi positivi della medesima un'interpretazione che si potesse accordare coi principii da lui sostenuti, ma que' progressi contestava addirittura coll'ignoranza superba di chi nei quattro cujus della sua teologia vede racchiuso tutto lo scibile umano, e pretendeva disfare ogni argomento avversario, scombussolare la dialettica delle deduzioni oppostegli colla indiscutibile autorità della rivelazione. Que' due individui rappresentavano due estremi opposti dell'umana ragione uscita dalla strada normale della sua vera capacità; il gesuita era di quelli che la volevan trarre all'eccesso dell'abdicazione, Gian-Luigi apparteneva allo stuolo temerario di coloro che per troppo orgoglio della medesima, per volerla fare troppo assoluta sovrana sono costretti a degradarla sino alla compiuta dipendenza di lei dalla materia. Era impossibile che s'intendessero.