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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XXV

La mattina del giorno che successe a quello in cui il medichino venne arrestato, il conte Langosco entrò senza farsi annunziare nella camera da letto di sua moglie alle ore dieci, che sono per quella gente, in tale stagione, come l'ora dell'alba pei poveri operai.

Candida aveva passata una notte infernale, in cui lo spasimo dell'anima aveva mantenuta vigorosa la febbre del corpo; sulla sua bellezza e sulla sua gioventù erano passati nel giro di dodici ore due lustri ed avevano stampata la loro impronta nell'incavamento delle occhiaie, nella carnagione che aveva perduta la freschezza ed era diventata floscia, nelle finissime rughe che le si erano disegnate come raggi divergenti dall'angolo esterno degli occhi alle tempia. Certo mai colpa di donna violatrice del suo giuramento di fedeltà coniugale non fu punita con più crudeli tormenti, coll'angoscia di più vive paure, di più profonda vergogna; ned ella poteva dirsi aver già tutto pagato il suo fio, essere andata al fondo della coppa di dolore, e non poterle piombar più sull'anima spasimi e sgomenti ed ansietà ed onta maggiori. Nell'orribile insonnia di quella notte, la sua anima era passata per tutti gli stadi della disperazione, dalla violenza dissensata al torpido abbandono dell'abbattimento; ne aveva pensato ogni fatta spedienti, dal coraggio della dissimulazione alla fuga, dal pentimento in un chiostro al suicidio. E ciò che era un aggravamento delle sue triste condizioni morali si è che quell'empio amore appiccatosele a tutto l'essere, come alle membra di Alcide la camicia di Nesso; quell'empio amore continuava in lei torbido, fiero, violento, scellerato, a dispetto della vergogna, del rimorso, d'un sentimento inesprimibile di rabbia impotente e selvaggia. Tutto le inaspriva la sanguinante piaga; e quello che aveva nel pensiero e quello che aveva intorno a sè. Ogni oggetto che vedeva in quella camera le ricordava un momento della presenza, una mossa, una parola di colui che era penetrato profanatore in quel santuario della fede coniugale: la cameriera che era rimasta l'ultima a disporre il lumicino per la notte, cui essa aveva comandato testè d'allontanarsi, le stava come un'incarnazione vivente di certi ricordi per cui la doveva arrossire; l'aspetto e la parola di Zoe le rimanevano presenti come la mitologica persecuzione d'una furia vendicatrice; aveva infisso nel cervello lo sguardo freddamente implacabile del marito. Al pensiero di rivedere costui raccapricciava: le pareva che meno tremendo le sarebbe stato sopportare lo sguardo del Giudice Supremo: in questo almeno colla giustizia avrebbe trovato pietà; nell'anima del conte, devastata come il suo cranio ingiallito, come il suo volto scarnato, sapeva che di pietà non ne avrebbe potuto trovare. E in mezzo a tutto ciò l'assalivano di quando in quando con un'aspra voluttà inenarrabile soavi rimembranze di certi momenti, di certe parole di lui, di certi delirii, di acuti diletti della passione e della colpa.

Quando vide entrare il marito nella sua camera, chiuse gli occhi come per allontanare un momento almeno l'urto penoso dello sguardo di lui: il suo respiro affannato diceva quanto il cuore le battesse. Il conte le si avvicinò lentamente, fissandola fino dalla porta col suo vivace occhio da vipera. La fante, che era presente, ebbe compassione della sua padrona, e mettendosi innanzi al conte, gli disse con voce sommessa:

– La riposa un momentino…

Langosco non la lasciò continuare: la fece ammutolire con un freddo sguardo, che fu più eloquente d'ogni parola, e colla destra la trasse in là per passare.

– Vedo con piacere, diss'egli quando fu alla sponda del letto, che voi state molto meglio.

Candida aprì gli occhi, ma non li volse verso il marito, sibbene al soffitto, come per protestare tacitamente contro quell'affermazione. Ella si sentiva tanto male che le pareva dover morire.

– Sì, voi dovete star meglio: continuava il conte: lo giudico dal vostro aspetto.

Si voltò verso la cameriera e le disse tranquillamente:

– Andate.

La donna non si fece ripetere il comando.

– Vi ho detto che dovete star meglio: riprese il marito quando fu solo colla contessa: avete capito? Tanto meglio, che questa sera si deve assolutamente andare al concerto a Corte… Si deve assolutamente!.. Non vi vedrò più fino a questa sera. Siate pronta alle nove; avrò l'onore di accompagnarvi… E voglio che sia così.

Pronunziò queste parole lentamente, senza minaccia, ma con espressione d'irremovibile fermezza.

Candida non pensò neppure a ribellarsi; capì che il marito voleva opporre alle ciarle della gente la presenza di sua moglie; pensò con sommo desiderio fra sè: «Ah! se prima di questa sera potessi esser morta!»

– Non fa bisogno ch'io vi dica, soggiunse il marito, che conto sul vostro solito buon gusto nello sfarzo dell'acconciatura, e che mostrerete alla malignità delle vostre amiche e dei miei nemici una fronte serena ed un allegro sorriso. Noblesse oblige, madama!

La contessa non parlò: il marito prese quel silenzio come un consentimento, qual era. Stette un istante, e poi disse col medesimo accento di freddezza, quasi d'apatia:

– Quanto alle ulteriori determinazioni da prendersi fra di noi, non è ancora il caso di parlarne. Quando saranno ricuperate quelle lettere e rimediata così in parte la vostra imprudenza, vi farò conoscere i miei propositi. Per ora, innanzi al mondo, dobbiamo essere più intimi e più d'accordo che mai. Domando la vostra cooperazione per questa commedia. Io saprò difendervi da ogni apparenza di oltraggio; sappiate voi aiutarmi a sostenere la parte di marito che non ha nulla da inquietarsi… Entrando nel salone di Corte al mio braccio, questa sera avrete una mossa di confidente abbandono e di tranquilla sicurezza… Tutte le donne sono abbastanza buone commedianti per fingere: voi dovete essere più commediante di tutte le altre.

Uscì dopo questo sanguinoso oltraggio, com'era entrato, lento, calmo, con un sogghigno d'insopportabile ironia.

La giornata fu lunga e corta per la infelice contessa. Si fece forza e si alzò, affranta com'era e colla febbre nelle ossa. Stette quasi sempre sdraiata sur una poltrona, affondata l'anima nel buio abisso d'una disperazione muta e senza risoluzione. I soli momenti di pace che la ebbe furono certi fugaci intorpidimenti dell'anima, in cui questa, stanca di soffrire, era invasa da una specie d'oblio che tutto le cancellava dalla mente: viveva così un minuto, quasi senza coscienza, e in quel breve riposo dello spasimo la prendeva nuove forze per soffrir di nuovo.

Alle sette ore si alzò e venne alla teletta a farsi adornare, ad applicarsi sul volto la maschera, a studiare come far mentire gli occhi, la fronte, il sorriso.

Alle nove in punto la cameriera venne a dirle:

– Il signor conte le fa sapere che l'aspetta nel salone.

In que' tempi, finito il carnevale cessava il grandioso spettacolo di opera e ballo al teatro Regio; anzi di quaresima nissun teatro era licenziato a stare aperto e chiamare il pubblico a divertimenti profani. Regnavano assolutamente sulla noia dei cittadini i predicatori, di cui uno per ogni chiesa chiamava tutti i giorni a pentirsi una folla di donne eleganti che ci andavano per esser viste, e di giovani galanti che ci accorrevano per vedere; e facevano solamente concorrenza a questo magro spasso le marionette e i burattini e qualche privato concerto. La Corte in tutta la quaresima soleva darne due di concerti, ed era ad uno di essi che, dietro il comando maritale, interveniva la contessa Langosco di Staffarda quella tal sera, entrando, secondo il programma stabilito, appoggiata al braccio del conte, nel gran salone delle colonne al palazzo reale, dieci minuti prima che vi facessero la loro apparizione i sovrani e la loro famiglia.

L'entrata del conte e della contessa fece una viva impressione generale: tutti gli occhi si volsero verso di loro; le parole si fermarono sul labbro dei conversanti; successe uno strano silenzio significante, seguìto tosto da un susurro più significante ancora: erano in ciò tutta la curiosità, tutto il maligno talento, tutta la malizia delle induzioni di quel mostro gentilmente feroce che è il mondo elegante. Per Torino in quel giorno non s'era parlato d'altro, in quelle stesse sontuosissime sale, quella sera, non si parlava d'altro che della scoperta di quel covo d'assassini, dell'arresto dei principali capi di quella banda, che il pubblico era già avvezzo a temere sotto il nome della cocca, della cattura, in qualità di comandante supremo di tale scellerata schiera, di quel giovane elegante conosciuto da tutta la società più scelta col nome di dottor Quercia. La meraviglia, lo sdegno, l'orrore, lo sgomento di questa società che aveva accolto nel suo seno sì tremendo nemico erano al colmo: si vendicava dell'inganno sofferto, dei corsi pericoli, della temerità di quel miserabile coll'improperio e con voti sanguinarii degni d'una paura non bene rassicurata. Si conoscevano da tutti le intime attinenze della contessa di Staffarda coll'assassino mascherato da zerbinotto seduttore, e il nome di lei entrava con quasi ugual proporzione di quello di lui nella vivacità dei discorsi su questo argomento. Lo sgomento comune e la vergogna della sofferta frode se la pigliavano anche colla contessa, cui pure avrebbe bastato a non far risparmiare la sola malignità della natura umana, acuita dallo sfregamento sociale e rincalzata dall'invidia muliebre. Dal suo sesso la misera aveva un'assoluta condanna inesorabile, senza beneficio di circostanze attenuanti; e gli uomini non osavano neppure prenderne le difese innanzi all'accanimento delle mogli e delle amanti. Langosco, pratico della scena del mondo, aveva capito che c'era un mezzo solo, non dico per trionfare di questa valanga di ciarle, ma porle freno e costringerla a mettere la sordina al suo crescendo: e questo mezzo era l'audacia. Ritirarsi innanzi ad essa era un volersi perdere: il nome non sostenuto dalla presenza della persona in quella gara di pettegolezzi era sicuro di rimanervi schiacciato; però aveva forzato la moglie a comparire in quella guisa, ed aveva aspettato per esporsi al fuoco incrociato degli sguardi e delle parole di quell'assemblea, il momento più tardo che si potesse, quando il loro ingresso doveva produrre maggior effetto.

 

Il conte Amedeo Filiberto Langosco di Staffarda in quel momento era un bello ed interessante spettacolo a mirarsi da un pittore, da un poeta, da un osservatore di costumi, da uno scrutatore di caratteri e studioso della natura umana, poichè questi soltanto potevano capire la superba grandezza del suo contegno, penetrare il potente significato dell'espressione che aveva saputo dare al suo aspetto. Levato il capo, eretto il collo, egli camminava più dritto che da lungo tempo non avesse fatto mai; sotto il suo cranio d'avorio giallo, sulla cui lucida superficie si rifletteva la luce dei doppieri, brillavano fieramente gli occhi che giravano intorno con uno sguardo di calma disfida, pronti ad accendersi al menomo urto d'un atto men rispettoso, d'un sogghigno; le labbra aveva atteggiate a più serietà che non gli fosse abituale; e la guisa con cui dava il braccio a sua moglie, era espressiva d'una deferenza protettrice che indicava chiaramente una lieve mancanza di riguardo a lei essere da lui considerata come un fattogli oltraggio, e ne avrebbe a qualcheduno fatto scontare il fio. Il marchese di Baldissero, che s'intendeva d'ogni nobiltà d'animo e d'ogni valore, lasciò scorgere sulla sua bella fisionomia imponente quanto quel contegno gli andasse a grado, e fu egli il primo a fare un cenno cortese di saluto al conte, appena gli occhi di costui vennero ad incontrare i suoi.

E la povera Candida? Chi le avesse visto nel cuore avrebbe giudicato che il coraggio con cui ella s'avanzava, gaia e sorridente sotto il fuoco di tutti quegli sguardi, portando la morte nell'anima, era assai maggiore del coraggio di cui ha bisogno il guerriero che s'avanza contro il fuoco nemico in battaglia. Per lei quella era diffatti una grande e decisiva battaglia, nella quale un momento di esitazione, di debolezza, di tremore le avrebbe dato una sconfitta da non ricattarsene mai più. Quando ella s'era presentata nel salone dove stava aspettandola il marito, questi, senza dirle una parola, le aveva rivolto un ratto sguardo con cui l'aveva esaminata da capo a piedi, e vistala qual egli la voleva, elegante, senza lagrime negli occhi, il belletto sulla faccia, lo sbarbaglio de' diamanti sul capo, intorno al collo, sul seno, fece un legger cenno approvatore ed additò l'uscio che conduceva alle anticamere, come invitandola a passar prima. Traversarono l'appartamento, scesero le scale, salirono in carrozza, percorsero la strada senza che una parola nè uno sguardo più fosse fra loro scambiato. Nel palazzo reale, al momento di varcare la soglia del gran salone detto degli Svizzeri, la contessa si fermò come se le mancassero allora le forze. Le gambe le tremavano, e la sentiva nelle orecchie un ronzìo penoso. Il conte la guardò e le porse il braccio senza parlare; sotto quell'occhiata tutto il corpo di lei ebbe un legger fremito; ma dopo l'esitazione d'un attimo, ella passò la sua mano nella piegatura del braccio del marito, e riprese il cammino. Entrando nelle sale, percorrendo sotto una piova abbagliante di luce i reali appartamenti, in mezzo ad una siepe di decorazioni, di uniformi civili e militari, di ricami e spallini, di sciabole e spadine, Candida rimase calma in apparenza e tranquilla, col suo sorriso che s'era stampato a forza sul labbro; ma nell'affacciarsi al salone principale, dove non più la sola curiosità degli uomini era da incontrarsi ma la malignità delle donne, ricevendo di pieno nel petto e nella fronte la scarica di tutti quegli sguardi, accolta da quel significativo silenzio e da quel susurro che tosto gli tenne dietro, alla contessa vennero meno ad un tratto la risolutezza ed il coraggio; il suo braccio si contrasse su quello del conte, e vi pesò come per tenersi e sorreggersi, mentre fino allora, appena era se l'aveva lievemente toccato; il ronzìo delle sue orecchie s'accrebbe infinitamente, innanzi ai suoi occhi, che pure erano levati e lucenti, passò una nebbia che le confuse alla vista tutte quelle faccie, tutti quegli oggetti, tutto quello sbarbaglio. Langosco non le volse una parola nè uno sguardo; il suo capo continuò a star dritto levato incontro alle faccie dell'assemblea, i suoi occhi continuarono ad incrociarsi cogli occhi di tutta quella turba elegante; ma strinse alla persona il braccio della moglie con una pressione lenta e forte nello stesso tempo che era un incoraggiamento, un conforto ed una promessa. «Fate animo, diceva, son qui io a proteggervi, e non avete da intimorirvi di nulla e di nessuno.»

Il cerimoniere di Corte venne a dividere moglie e marito, per allogarli al posto che loro competeva rispettivamente secondo il loro grado nella gerarchia cortigianesca; Candida si trovò in mezzo ad una schiera di spalle nude e di gioielli preziosi di donne che avevano più quarti nel blasone che bellezza sul volto e gioventù. Il suo sorriso si contrasse un momento in sogghigno al vedere il freddo saluto con cui fu accolta; una vecchia, che a saputa di tutti, aveva impiegata la giovinezza ad esser l'amante di più alti personaggi, si volse con una certa affettazione dall'altra parte, mormorando con piglio disdegnoso parole che Candida non potè intendere, ma di cui era troppo facile capire il significato. Ciò nulla meno la contessa tenne un fermo contegno: rispose ai freddi ed orgogliosi saluti con saluti più freddi ancora e più orgogliosi; stette colla sua bella testa eretta, come se sulla sua fronte, insieme a quello de' diamanti, non avesse da portare il peso di nessuna vergogna. Il conte trovò negli uomini, in mezzo ai quali era penetrato, le medesime strette di mano che ci trovava tutte le altre volte. Erano troppo ben educati que' semidei dal sangue azzurro; il conte era troppo conosciuto come uomo da sapersi far portar rispetto, perchè il menomo cambiamento apparisse nel loro trattare verso di lui: nessuno non ebbe neppure il cattivo gusto di dimostrargli una compassione od un interessamento ch'egli avrebbe trovato un'offesa.

Non si era ancora affatto calmata la leggera agitazione che in quelle onde stagnanti di cortigiani aveva suscitato il sopraggiungere dei coniugi Langosco, quando il batter de' piedi per terra del mastro di cerimonie alla soglia dell'uscio che conduceva agli appartamenti della famiglia reale, annunziò l'arrivo della Corte. Si fece un alto silenzio, e l'attenzione di tutti fu rivolta a quella porta, da cui entravano gli augusti personaggi, al suono della fanfara reale che echeggiò ad un tratto dalla tribuna dell'orchestra.

Si ascoltarono con un raccoglimento che si sarebbe potuto dir religioso varii pezzi di musica strumentale e vocale eccellentemente eseguiti e di eccellenti maestri. Ogni cortigiano guardando verso il trono dove sedeva la pallida figura di re Carlo Alberto, aveva l'aspetto beato d'un Joghi indiano che, a forza di contemplarsi la punta del naso, è giunto a vedersi dischiuso innanzi l'infinito. In un intervallo, il Re sorse, e dietro il suo esempio tutti, e come solea, Carlo Alberto percorse lentamente il salone, facendo orgogliosa e felice ora questa ora quella delle dame, or questo or quello dei petti ornati di croci, col dire poche parole, regalare uno de' suoi gelati sorrisi e passare. Fu notato che il Re non favorì nè d'una parola nè d'uno sguardo la contessa di Staffarda, quantunque fosse una delle più belle e delle più eleganti, e quindi chiamasse meglio delle altre l'attenzione. Il contegno delle dame a lei vicine, il quale fino allora era stato freddo, divenne decisamente ostile. Ma questo sotto un certo rispetto riuscì a giovamento di Candida, perchè l'irritazione dello sdegno che in lei ne nacque, valse a ridarle quelle forze che venivano scemando e per la passione dell'animo e pel malessere fisico, cui le cagionava la febbre ogni minuto crescente.

– Hai udito, marchesa: disse dietro Candida una baronessa, magra come un'acciuga, che faceva uscire spudoratamente dalla scollacciatura della veste le ossa di due spalle da scheletro: quel famoso Quercia che era capo di una banda di assassini, si vuole che fosse nelle buone grazie d'una signora comme-il-faut.

– Comme-il-faut, no certo: rispose la marchesa con una voce che rassomigliava a un sibilo di serpe. Una donna ammodo non avrebbe mai ricevuto un simile individuo.

La contessa Langosco si voltò e guardò bene in faccia l'una e l'altra di quelle due donne.

– Io l'ho ricevuto: disse fermamente: e le assicuro, signora marchesa, che quel tale aveva portamento e maniere da ingannare qualunque, anche lei; ed anche lei, signora baronessa, soggiunse volgendosi a quest'ultima che smorfiva altezzosamente. Chicchessia l'avrebbe scambiato per un addetto di ambasciata o per un ufficiale di dragoni… in borghese.

Tutti sapevano che quella marchesa aveva una tresca con un addetto dell'ambasciata austriaca, e che quella baronessa osteologica pagava i debiti ad un giovane ufficiale di cavalleria, che ne approfittava per farne a rotta di collo.

Se gli sguardi fossero lame di pugnale, la contessa Langosco sarebbe caduta all'istante al suolo trafitta da parte a parte, sì niquitose furono le occhiate che quelle dame le slanciarono; ma le labbra però continuavano a sorridere.

– Eh via! disse la baronessa: la nascita e il sangue non si possono simulare, e bisogna noi stessi ne pas avoir de naissance, ed essere di sangue roturier per lasciarcisi ingannare.

Candida tacque; aveva una smania feroce di gettare sul magro volto impiastricciato di quella Venere anatomica una parola oltraggiosa come uno schiaffo; ma lo spavento delle conseguenze che avrebbe potuto avere uno scandalo riuscì a frenarla. Strinse siffattamente colle mani convulse il suo ventaglio di madreperla che lo ruppe; seguitò a sorridere colle labbra, a cui la cosmetica pomata di carminio dava il colore della salute e della gioia; rispose con un'occhiata civettesca ai ditirambi che le indirizzavano gli sguardi dell'ufficialetto della baronessa, il quale col pretesto di vagheggiare la pagatrice dei suoi debiti, ammirava con espressione di vivo desiderio la bellezza della contessa Candida.

Ma in mezzo a tutta quella folla c'era una persona, che indovinava in parte le strette dell'anima di questa povera donna, che sotto il belletto delle guancie di lei scorgevane la pallidezza morbosa, che dietro il sorriso avvertiva lo spasimo soffocato: e questa persona era il padre di Candida, il barone La Cappa. Approfittò egli di quel rompersi degli ordini che produsse il moversi del Re, e si accostò alla figliuola.

– Tu hai qualche cosa, Candida: le disse sotto voce.

La contessa si attaccò al braccio paterno come un naufrago s'appiglia al remo, che gli venga porto.

– Dàmmi il tuo braccio, papà: diss'ella; e conducimi fuori da questo salone. Ci ho troppo caldo, soffoco, ho bisogno d'un po' d'aria.

Si allontanò sorreggendosi a suo padre, seguìta dagli sguardi e dagli ammicchi delle dame che le eran vicino; trasse il barone fino in un angolo di una sala in cui era minore la gente, e buttatasi sopra un divano, si fece sedervi presso il suo compagno.

– Che ho? diss'ella allora rispondendo alla domanda che le aveva fatta nel salone suo padre. Ho che sono la più sventurata donna del mondo e che vorrei esser morta.

Queste parole furono pronunciate con accento disperato e con voce piena di pianto; ma in quella, Candida vide parecchi sguardi fissi sopra di lei ad osservarla, ed ebbe la forza di piegar di nuovo i muscoli della sua faccia a quel sorriso che l'aveva stanca sino allora più che non qualsiasi fatica di corpo.

– Misericordia! esclamò il barone spaventato, giungendo le mani con atto d'infinito dolore.

Ma la figliuola, sempre con quella maschera di letizia sul volto, gli pose una mano sul braccio e gli disse sotto voce:

– Piano, frenati, abbi l'aria tranquilla e contenta. Qui dentro bisogna nasconder tutto e finger tutto. Sorridi come vedi sorrider me. Guarda come ci osservano con avida curiosità!

Il barone girò intorno lo sguardo stupito di uomo che non capisce, e ripetè la sua interrogazione:

– Ma che cosa dunque succede, in nome di Dio?

E la contessa, curvandosi sulla spalla di lui e parlandogli all'orecchio:

– Tu hai voluto farmi felice, padre mio; mi hai data la ricchezza; mi hai dato col marito un illustre blasone (sorrise amaramente nel dire queste ultime parole); ebbene tutto questo non basta. Non sai tu che di questi giorni ho invidiato la sorte di tutte le altre donne, ho desiderato cambiare la mia in quella d'una povera operaia?

 

Il degno barone guardava la sua figliuola come si guarda uno che ad un tratto si metta a spacciare le maggiori follie del mondo, e non sapeva che risposta fare. La figliuola continuava dopo una brevissima pausa ed abbassando ancora di più la voce:

– Non hai tu udito questa sera, qui stesso, in questi crocchi eleganti, infamare la tua figliuola?

Anatolio La Cappa si atteggiò della persona con tutta l'imponenza degna d'un Intendente generale, della qual carica, insieme colla pensione di ritiro, aveva titolo e grado, e fece colla sua superba mossa tintinnire fieramente i ciondoli e i gingilli delle decorazioni che gli coprivano il petto del suo abito a spada, ricamato d'oro al goletto e ai paramani.

– Corbleu! esclamò egli con tutta la bravura che potrebbe avere il discendente da un eroe delle crociate. Avrei voluto vedere anche questa! Infamare la mia figliuola? Ma a chi fosse tanto temerario la farei ben io pagare cara e salata… con un buon processo.

– No, padre mio: disse scoraggiatamente Candida scuotendo la testa. Un processo sarebbe peggio.

– Hai ragione. Che processo? Contro siffatta canaglia… perchè chi si permettesse una cosa simile, non potrebbe essere che canaglia… contro codesta gente c'è di meglio da fare che non un processo. Ho ancora abbastanza aderenti in alti luoghi… che? Ricorrerei, se bisognasse, a S. M. medesima che non ha obliato il suo antico, fedel servitore, e me ne ha dato una prova testè ancora col modo onde mi ha salutato… e quel miserabile lo farei ricoverare a Fenestrelle o mandare in Sardegna, perchè meditasse à loisir sui pericoli di perdere il rispetto a chi va rispettato.

– Nè anche questo non si può fare: riprese la contessa, scuotendo nuovamente la testa. Chi si compiace di straziare la mia fama è più potente di noi, ha più aderenze di noi, è più presso a S. M. di noi…

– Tu scherzi: interruppe il barone scandolezzato. I Langosco di Staffarda accompagnarono il conte Verde nella sua spedizione in Oriente…

– Ma noi non siamo che La Cappa.

– Palsambleu! Tuo marito non sarebbe capace di far rispettare sua moglie?

– Sì: è pronto a battersi contro chicchessiasi gli lasci pervenire all'orecchio una di quelle infamie che si susurrano dietro il ventaglio; ma lo scandalo d'un duello non rimedierebbe nulla; e quelle infamie sono troppo codarde per osare venirci assalire di fronte… Ah padre mio, non c'è riparo: io sono perduta.

L'accento con cui l'infelice diceva tali parole era straziante, e pur tuttavia il suo sorriso non cessava di rallegrare le sue labbra, e le sue sembianze continuavano a mostrare la maschera d'una lieta tranquillità. In siffatto contrasto eravi qualche cosa di più penoso e di più commovente che non nelle ordinarie manifestazioni del dolore e della disperazione.

– Ma corpo del diavolo!.. (L'animo del degno barone Intendente generale era così turbato che invece delle solite eleganti parole esclamative in francese, si lasciò scappare questa plebea imprecazione.) Posso io sapere finalmente che cosa sia succeduto?

Candida, con infinita passione dell'animo, ma in mezzo a due risatine, come se contasse a suo padre in un allegro colloquio il più piacevole aneddoto, disse con voce che appena fa udita dal barone, il quale curvò verso di lei l'orecchia:

– Hai tu sentito parlare dell'arresto del dottor Quercia?

– Giusto! esclamò il padre. Volevo dirtene un motto. Ce drôle-là, mi pare che tu lo conoscevi.

Candida pose di nuovo una mano sul braccio di suo padre e fissò negli occhi di lui uno sguardo che diceva un'infinità di cose: ma questa volta non ebbe più la forza di ridere nè pur di sorridere.

– Il mondo, susurrò ella, lo dice mio amico.

La Cappa sussultò sul divano.

– Ah diable!

– E da un momento all'altro possono saltar fuori delle carte che dieno ragione a quella voce.

– Possibile!.. che carte?

– Delle lettere: disse la contessa così piano che la parola fu, più che intesa, indovinata dal barone.

– L'imprudente!.. Sì, cospetto che questo è un affare disgustoso assai… E tuo marito?

– Sa tutto.

– Misericordia!.. E che vuol fare?

– Ricuperarle… Ma io vorrei ottenere ciò d'altra parte e senza il suo concorso.

– Hai ragione.

– Sei tu pronto ad aiutarmi, padre mio?

– Prontissimo… Che s'avrebbe da fare?

– Ci vorrà di certo una somma… piuttosto vistosa… e qualche passo presso alcuni personaggi…

Il barone all'udire fatta menzione d'un sacrifizio di denaro, non potè dissimulare una smorfia di poco aggradimento. Glie ne venne subito l'ispirazione di fare un buon predicozzo di morale alla sua figliuola; ma il luogo in cui erano e la presenza di tanti osservatori, non erano acconci a codesto. La figliuola lo interruppe di subito per farglielo notare.

– Ho bisogno di conoscere un po' meglio i particolari della cosa: disse allora con tono che si accostava al burbero, il padre spaventato dalla minaccia alla sua cassaforte.

– Sì; e siccome ora e qui non posso dirti tutto, e volli solamente dartene un cenno, perchè avevo bisogno di sfogo e mi premeva aver la consolazione di trovare in te un sostegno; così riserberò il resto da dirti per domani. Mi permetti tu ch'io vada da te a versarci tutta l'anima mia?

La Cappa che adorava la sua figliuola, non potè vedere senza intenerimento l'aria di supplicazione che spirava dalle sembianze e dagli occhi di lei.

– Vieni pure, gioia mia: rispose: ti darò tutta la mattinata a te sola, e non avremo fastidio di disturbatori.

La lotta fra l'amore del suo danaro e quello per la sua figliuola era finita in lui col trionfo di quest'ultimo.

– E di qualunque cosa tu abbia bisogno, soggiunse, e che tuo padre possa fare… (fece ancora una piccola pausa) ebbene, conta pure su di lui.

Candida gli strinse la mano in manifestazione di muta, ma vivissima riconoscenza.

– Ora, torniamo nel salone: diss'ella alzandosi. Tu mi hai ridonato coraggio… E tutto già me lo sentivo mancare… Ah, padre mio, mi hai fatto un gran bene, e che tu sia benedetto!.. Sto meglio e sono ora capace di affrontare di nuovo e sguardi e parole di queste maligne ipocrite.

Quasi in quel medesimo frattempo in cui la contessa parlava con suo padre, avevano luogo intorno alla cattura ed alla sorte di Quercia, due altri colloquii: uno fra il Re ed il marchese di Baldissero, l'altro fra il marito di Candida e il generale Barranchi.

Riferiamoli ambedue, cominciando da quest'ultimo.

– Avete qualche cosa da apprendermi, Langosco, intorno a quella vostra faccenda? cominciò il generale Barranchi, parlando piano e ritraendosi d'alquanto dalla folla circostante.

Il marito di Candida rise con quel suo legger ghigno da scettico di buona società.

– Oh oh! il capo della Polizia che ha bisogno d'informazioni da un semplice privato: diss'egli con tono forzatamente scherzoso. No, non ho nulla da apprendervi; perchè quello che vi ho da dire e che vi voglio dire, voi, gentiluomo qual siete, lo sapete prima e meglio di me: ed è che non si dovrebbe tollerare che il nome e l'onore d'una famiglia patrizia, sia alla merci d'un tristo qualunque il quale può colle sue parole comprometterla, e che quel nome e quell'onore vengano trascinati nel fango della pubblicità d'un processo. È una orribil cosa solo a pensarci.

– Voi avete ragione, rispose gravemente il generale con tutta la solennità della sua montura di parata il cui petto era una pleiade di costellazioni. Ma che cosa volete? Ci sono le leggi, c'è un codice…

Langosco fece un atto d'impazienza assai poco rispettoso per la maestà della patria legislazione.