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La plebe, parte IV

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CAPITOLO XXIV

La mattina del giorno che successe all'interrogatorio di Nariccia, Padre Bonaventura, chiamatovi dall'infermiere, accorreva al letto dell'usuraio moribondo. Questi, che avrebbe desiderato un altro per confessore, esitò un momento fra la ripugnanza che allora gl'ispirava il suo antico complice e lo spavento di morire senz'assoluzione, portando seco nella tomba il fatale segreto del suo orribil peccato. Lo spavento la vinse, e sentendo in se stesso che non gli rimaneva tempo abbastanza, nè vigoria d'animo e di volontà da mandar via il gesuita ed aspettare la venuta d'un altro confessore, si rassegnò a far manifesta la brutta storia del suo passato in una confessione che fu lunga, penosa, interrotta da debolezze e da spasimi, fatta con voce soffocata, il più spesso appena se intelligibile, a coglier la quale il frate doveva star curvo sopra il letto e tener l'orecchio proprio sulla bocca del giacente.

Trascurando tutto il resto che non ha rapporto colla nostra storia, diremo ciò che da siffatta confessione il gesuita apprendeva riguardo al figliuolo di Maurilio Valpetrosa e di Aurora di Baldissero.

Nariccia, incaricatosi, come sappiamo, di fare scomparire quel bambino, erasi partito solo dalla casa in cui dolorava la povera madre, recando seco il neonato. Di molte cose, e scellerate tutte, pensava egli, strada facendo, e ne conchiudeva che a lui avrebbe giovato forse che quel bambino fosse perduto di guisa che altri non arrivasse a rintracciarlo mai più, ma egli pur lo potesse tuttavia, quando di ciò glie ne nascesse convenienza. Per prima cosa, a questo fine, pensò togliergli d'intorno i contrassegni di riconoscimento che gli aveva posti la Modestina e che da costei e da Padre Bonaventura erano conosciuti; e quei contrassegni ritenerli presso di sè. Così nè la donna, nè il frate non avrebbero più avuto nessun bandolo da servirsene essi stessi o da dare altrui per venire in chiaro di ciò che fosse diventato il bambino. Egli poi avrebbe messogli un altro contrassegno particolare, per mezzo del quale potesse all'uopo ricuperare l'abbandonato fanciullo e sarebbe stato egli solo padrone del suo segreto.

Con siffatti pensamenti pel capo, e già risolutosi a porre in atto questo proposito, egli era giunto alla frontiera di Lombardia, cioè al Ticino, s'era liberato con una mancia dalle seccature degli agenti austriaci mezzo addormentati, e penetrava sul ponte, a capo il quale i doganieri e carabinieri piemontesi dovevano fermarlo per dar conto di sè e delle sue robe. Aveva viaggiato di notte, e rompeva appena l'alba. Tutto era deserto e silenzioso sulla riva piemontese, e la sola cosa che ci fosse di vivo era il lumicino della lanterna attaccata al casotto dei doganieri, che però era presso a spegnersi. Nariccia arrestò il cavallo a mezzo il ponte, guardò ben bene se anima viva lo potesse vedere e sentire, e rassicurato compiutamente, scese dal legno, prese il bambino, e pian piano, in punta di piedi, venne a deporlo per terra a capo del ponte dalla parte del territorio piemontese. Come contrassegno egli, trascelta fra le lettere di Valpetrosa che aveva nel suo portafogli quella che meno contenesse parole onde si potesse avere indizio della provenienza, l'aveva stracciata per lo lungo e una delle due metà del foglio insinuato in mezzo alle fasce del bambino.

Quando ebbe deposto per terra il poveretto, Nariccia tornò dello stesso modo al suo legno e facendo chioccar la frusta se ne venne di trotto verso la uscita del ponte, dove un agente della dogana ed uno della pubblica sicurezza, levatisi al rumore e mezzo sonnacchiosi, lo fermarono al solito per le solite formalità. Mentre Nariccia, senza scendere neppure dal carrozzino, esibiva il suo passaporto e mostrava che nella piccola valigia che era suo solo bagaglio, non v'era oggetto alcuno che dovesse pagar dazio d'entrata, ecco un vagito di bambino suonare lì presso.

Il viaggiatore si sporse in fuori del suo legno, e il carabiniere e il doganiere si volsero verso il luogo da cui quel lamento era venuto. Videro il fagottino per terra: il doganiere lo prese ed esclamò:

– Tò: qualche scellerato che abbandonò qui questa piccola creatura.

Il carabiniere guardò con sospetto il viaggiatore; ma questi aveva un'aria così innocente e meravigliata; l'avevano veduto giungere pur allora e non scendere nemmeno: come dubitare di lui?

– E che cosa ne facciamo di questo bel regalo? domandò il doganiere, il quale per ventura era trovatello anche lui, aveva un cuore eccellente, e s'intenerì di botto alla vista di quel poveretto.

– Lo prenda Lei, disse il carabiniere a Nariccia, lo reca seco sino a Novara, e là lo mette all'ospizio.

– Io no certo: rispose Nariccia. Non vo' compromettermi. D'altronde può essere che alcuno venga ancora qui da voi altri a farne ricerca.

Partì di buon trotto, lasciando il bambino fra le mani di quella gente.

– In un caso, si disse, potrò sempre sapere che cosa costoro ne avranno fatto.

Naturalmente, dopo ciò, Nariccia non si diede più il menomo pensiero di quel fanciullo; ma un anno e mezzo dopo cominciò a credere che l'occasione di rifarlo vivo era presso a presentarsi con grande suo giovamento. Se vi ricorda, Aurora aveva sempre in fondo al cuore la speranza che suo figlio non fosse morto, di questa sua speranza aveva parlato col fratello quando, tornato egli di Spagna, era successo fra loro la riconciliazione, e il fratello, la cui anima generosa era lacerata dal rimorso pel tanto male che aveva fatto ad Aurora, aveva accettato, qual mezzo di compensarnela e di riparare, la missione di tentare, se fosse possibile, il ricupero del bambino.

Nariccia, al quale, come abbiam visto, il marchese erasi rivolto, aveva subito capito di quali guadagni potesse essergli sorgente il rinvenimento del figliuolo di Valpetrosa, quando il marchese padre fosse per mancare ai vivi, cosa che pareva non dover tardare di molto, tanto era egli già male avviato di salute. Incominciò egli adunque le sue ricerche per potere quando che si fosse metter la mano sul bambino; ed apprese, recandosi egli stesso sui luoghi, che il doganiere il quale trovavasi di servizio quella tal mattina del tal giorno, ed aveva raccattato il trovatello, non aveva voluto metterlo all'ospizio di Novara, ma recatolo con sè, lo stesso giorno in cui gli era stato dato un congedo, l'aveva allogato presso qualche famiglia di villici, non si sapeva quale, nè dove. Nariccia volle sapere dove fosse questo doganiere per andarlo interrogare ed apprendere da lui medesimo la intera verità; ma gli fu risposto che questo era impossibile, perchè mandato poco dopo sul Lago Maggiore verso la frontiera svizzera, in uno scontro avutovi coi contrabbandieri, era stato colto da una palla di schioppo nella testa e mandato all'altro mondo col suo segreto.

L'antico intendente dei Baldissero non si perse d'animo per tutto questo. Se il vero bambino era impossibile trovarlo, ben se ne poteva avere un altro da sostituirgli; e non erano presso di lui quei contrassegni che dovevano farlo riconoscere come figliuolo d'Aurora? Ad affrettare in lui la maturazione e l'esecuzione di quest'empio disegno venne il marchese padre, il quale esigette che in quindici giorni il bambino della sua figliuola fosse dato in poter suo. Nariccia ebbe a sè Graffigna, che ben conosceva capace di qualunque cosa, e gli commise lo provvedesse d'un bambino maschio, andandolo a prendere così lontano e con tali precauzioni che mai più non potesse venire scoperto qual fosse, donde venisse, come preso. Graffigna comunicò la cosa al suo fido amico e complice Michele Luponi, fratello di Modestina e marito di Eugenia, il quale allora già erasi fatto noto nella cronaca criminosa col soprannome di Stracciaferro.

Lo scellerato Graffigna, il quale sapeva come la moglie di Michele fosse madre di un bambino e vivesse a Milano donde non voleva venir via più per non ricongiungersi col marito, propose a quest'esso senz'altro di andare ad impadronirsi di suo figlio e presentarnelo all'usuraio. Michele riluttò assai, ma l'influsso che già aveva preso su di lui l'omiciattolo più tristo del demonio, qualche ubbriacatura accortamente saputagli dare dal suo compagno, la seduzione della promessa di una buona somma, finirono per deciderlo. Quello che avvenisse udimmo narrato da Maurilio medesimo a Giovanni Selva, quando gli ripeteva i delirii e le visioni che il rimorso cagionava a Stracciaferro, lui presente nel carcere.

Questo bambino così acquistato, coll'uccisione della povera madre, il figliuolo di Michele e di Eugenia, veniva consegnato al marchese padre, il quale lo faceva spietatamente abbandonare in mezzo alla strada.

Terminando la sua confessione Nariccia additava al frate dove fosse custodita la metà della lettera di Valpetrosa, di cui s'era servito per dare un segno di riconoscimento al vero figliuolo della marchesina Aurora e dove fossero tutte le carte che riguardavano le sue attinenze con Valpetrosa, e il gesuita se ne impadroniva. Data l'assoluzione al moribondo, Padre Bonaventura l'abbandonava a morir solo senza altri conforti, e correva in tutta fretta al palazzo di Baldissero.

Dello strano fatto che il moribondo gli rivelava, Padre Bonaventura fu più lieto ancora che stupito. Il falso Maurilio, ch'egli aveva tentato trarre nelle sue reti, erasi ad ogni sua seduzione sottratto, e avea mostrato, nel suo liberalismo, l'animo d'un nemico a quella parte a cui il gesuita apparteneva, a quei principii in servizio dei quali l'ordine monastico, e non degli ultimi in esso il Bonaventura, mettevano tutta la loro accortezza e l'influsso. Se nel giovane cui si trattava di restituire il grado e il posto nella nobile famiglia, il frate avesse trovato un possibile affiliato della congrega, un acconcio stromento, avrebbe anche potuto avvenire che egli tenesse per sè il suo segreto, e di questo anzi facesse un legame più forte e più stretto per avvincere all'interesse del partito e far più obbediente e sottomesso quel giovane: ma Bonaventura, conoscitore degli uomini e sollecito apprezzatore dei caratteri di coloro in cui s'incontrava, aveva subitamente riconosciuto che dal nostro Maurilio non avrebbe mai potuto nulla ottenere a suo pro, e quindi che ogni tentativo eziandio di tenerlo soggetto colla minaccia di farlo respingere da quel luogo a cui era appena arrivato, sarebbe stato inefficace. Non c'era nulla di meglio adunque che svelar tutto al marchese e ricacciare il falsamente creduto figliuolo d'Aurora in quell'abbiezione e in quell'oscurità da cui si era andati ora a levarlo.

 

Il marchese di Baldissero, udita la narrazione del gesuita, rimase il più attonito, perplesso ed amareggiato uomo del mondo. Che cosa doveva egli fare? Abbandonare di nuovo alla miseria quel giovane a cui aveva aperti, come a suo sangue, il cuore e la casa, non voleva di certo; ma conservarlo in quella condizione di congiunto non doveva, nè gli piaceva. Decise esporre tutta la verità al giovane medesimo e lasciarlo giudice lui medesimo della condotta da tenersi reciprocamente: ad ogni modo egli non avrebbe abbandonato più l'infelice ai rigori della sorte.

Maurilio rientrava al palazzo Baldissero, l'anima sconvolta. In casa Benda aveva avuto luogo quella scena che abbiamo narrato, in cui Gian-Luigi lo aveva cotanto avvilito. Quando il domestico gli disse che il marchese desiderava parlargli, Maurilio fu sul punto di rispondere che non poteva recarsi da lui, che stava male, che aveva assoluto bisogno di solitudine e di silenzio. Ma non osò: obbedì sollecito alla chiamata, e camminando lentamente verso lo studio del marchese, domandava a se stesso se doveva o no esporre allo zio di Virginia tutti i suoi dubbi e le ragioni dei medesimi. Non ebbe mestieri di decidersi in questa tenzone del suo spirito: il caso colla forza dei fatti decise per lui. Il marchese sapeva più di quanto egli era riuscito a scoprire, e ripetendogli le confidenze di Padre Bonaventura, gli poneva innanzi la certezza di quel ch'egli aveva argomentato dovesse essere. Non egli era il figliuolo smarrito di Aurora, e questi, se fosse da trovarsi mai, cosa che al marchese pareva impossibile, era da conoscersi per la metà del foglio stracciato in cui era scritta la lettera di Valpetrosa.

Il nostro giovane protagonista, a questa comunicazione, chinò il capo e parve non avesse capito, o fosse indifferente, tanto era priva d'espressione la sua immobilità e tranquillo il suo pallido volto. Ma dentro di lui c'era un tumulto che nessuna parola potrebbe dipingere. Stette un momento in silenzio, poi domandò al marchese gli mostrasse quella metà di lettera che era rimasta presso Nariccia. Il marchese glie la porse. Appena vi ebbe posti sopra gli occhi, Maurilio la riconobbe tosto pel carattere, per la carta, per la forma, per la lunghezza, come il complemento di quella che aveva in suo potere Gian-Luigi. Tuttavia la esaminò attentamente. Le parole che si leggevano in quel foglio di carta ingiallita erano le seguenti:

 
«La carrozza sia pronta-
cata. Prendete ogni precau-
 
 
«Da Milano vi farò conoscere-
m'informerete di ciò che avverrà-
Se fossi inseguito mi difenderò. -
te, ripeto quello che vi ho già-
fino a nuova mia ulteriore deci-
 

Maurilio lesse e rilesse queste linee interrotte. Egli che aveva visto più volte lo squarcio del foglio posseduto dal suo compagno d'infanzia e che ultimamente, una settimana innanzi aveva rivedutolo e rilettolo, l'aveva in quel punto così presente alla memoria che se tuttedue le parti della lettera gli fossero state poste raccostate dinnanzi non avrebbe potuto farne più precisa lettura di quello che faceva la sua mente, completando le presenti colle parole che mancavano.

Era un bigliettino che il seduttore d'Aurora aveva scritto a Nariccia per dargli le ultime istruzioni e gli ultimi ordini riguardo alla sua fuga con Aurora, per cui l'intendente della famiglia Baldissero compro a denari s'era impegnato a procurare i mezzi; ed intero questo corto biglietto diceva così:

«La carrozza sia pronta all'ora che v'ho già indicata. Prendete ogni precauzione perchè nulla trapeli.

«Da Milano vi farò conoscere il mio indirizzo, e voi tosto m'informerete di ciò che avverrà qui dopo la nostra partenza. Se fossi inseguito mi difenderò. Quanto alle somme depositate, ripeto quello che vi ho già scritto: rimangano presso di voi fino a nuova mia ulteriore decisione.»

Il giovane, che seguiteremo a chiamar Maurilio, perchè nessuno fin allora poteva conoscergli altro nome, restituì al marchese quel pezzo di carta, e disse con placida amarezza:

– Il mio non sarà stato che un sogno… un sogno che ha durato ben poco… ma che sarebbe anche meglio non avesse neppur cominciato… Il colpo non mi giunge inatteso… Chi son io dunque? Nessuno e sempre nessuno: preso nelle tenebre, vivrò nelle tenebre, e non saprò mai mettere un nome a quella individualità a cui debbo il tristo dono della vita.

Il marchese, che credette scorgere in queste parole l'accento d'una profonda desolazione, lo interruppe con amorevolezza.

– Non perdete ogni speranza. Nariccia, a quanto mi ripetè Padre Bonaventura, incaricò dell'empia commissione due scellerati, di uno dei quali forse c'è ancora possibile aver notizie da poterlo rintracciare; egli è appunto il fratello di quella sciagurata che fu cameriera della mia infelice sorella, e per mezzo di lei se ne potrà probabilmente saper qualche cosa. Il suo nome è Michele Luponi e venne sopranominato Stracciaferro.

Innanzi agli occhi di Maurilio passò come un lampo di color sanguigno, il suo cervello sentì come la puntura di un ferro arroventato.

– L'altro di quei scellerati che derubarono il bambino chiamavasi Graffigna? domandò vivamente il giovane.

– Sì.

Egli sapeva oramai l'esser suo. L'azzardo gli aveva squadernata dinanzi la pagina del suo destino. Si rivide nell'orrido aere fetente della carcere dove aveva udito l'orribile racconto di Stracciaferro; rivide la faccia bestiale di quell'uomo ubriaco tormentata dai graffi del rimorso; riudì le orribili parole di Graffigna che tutto lo avean fatto raccapricciare; riudì sulle labbra di Stracciaferro il grido ch'egli confessava riudire nelle sue notti, il grido della donna assassinata che domandava le si rendesse il suo sangue, riudì il grido supremo di toro ferito con cui l'assassino aveva conchiuso quella spaventosa narrazione: «quel bambino era mio figlio!» e sentì insieme assalirgli le intime sedi della vita un gelo di morte ed una vampa di fuoco. Quella donna assassinata era sua madre; il bambino derubatole era egli stesso; suo padre era un galeotto, ladro ed omicida!

Il delirio e la follia gli si slanciarono al capo insieme coll'èmpito del sangue: sentì che a stento poteva tenere il freno della ragione al suo intelletto scombuiato.

– Orrore ed infamia! esclamò egli coll'aspetto d'un dissensato che è assalito dal parosismo della follia. Infamia ed orrore!.. Ecco la mia ricchezza; ecco la mia parte di bene sulla terra.

Ruppe in una risata ad udirsi penosissima, e si slanciò fuori dello studio.

– Maurilio! Maurilio! gridò il marchese con voce in cui si temperavano il rimprovero, il comando autorevole ed un affettuoso interesse; ma il giovane non l'udì, e corse via, come Caino dopo l'orrendo suo delitto.

Il marchese fu d'un balzo al cordone del campanello e gli diede una violenta tirata.

L'infelice figliuolo di Stracciaferro, correndo incontrò nella sala precedente il gabinetto onde fuggiva, la contessina Virginia, che veniva appunto in cerca di lui, e non tanto per desiderio di rivedere il rinvenuto fratello, quanto per avere da esso novelle di altra persona a lei cara.

– Mio fratello! disse la fanciulla colla melodia soave della sua voce argentina.

Il fuggente si fermò sui due piedi e spaventò la donzella per l'alterazione profonda delle sembianze con cui le si accostò.

– Fratello! Fratello! esclamò egli con un sogghigno indescrivibile sulle labbra agitate da un tremore convulso. Io non sono vostro fratello, no, non lo sono.

Incontrò collo sguardo de' suoi occhi turbati quello limpido e dolcissimo delle serene papille di lei.

– Ah! quegli occhi! soggiunse. Sono gli occhi di vostra madre… La mia, servendo la vostra, glie li ha rubati per darli a me, che portava nel suo seno.

S'interruppe mandando un grido rauco da selvaggio.

– Nella nostra famiglia si ruba! gridò quindi con disperata energia, percotendosi coi due pugni chiusi la fronte.

Virginia impietosita, commossa, gli si appressò vieppiù e gli pose sopra un braccio la sua destra dilicata e gentile.

– Calmatevi, Maurilio; gli disse mitemente.

Il giovane non lasciò che altrimenti continuasse. Vide innanzi a sè quella tanta bellezza illuminata da un divino raggio di pietà; sentì sul suo braccio il tocco di quella mano come una ineffabil carezza. Il suo delirio dimenticò tutto il resto per non esser più che un delirio d'amore.

– Non sono tuo fratello: diss'egli: dunque posso amarti, angelo del mio cuore… Ho sangue di plebe. Che importa? Mi sento tanta grandezza de esser primo fra gli uomini. Son figlio d'assassino. Che monta? L'energia delittuosa dell'eredità paterna sarà in me l'energia delle grandi cose… T'amo da tanto tempo con amor furibondo.

L'afferrò colle sue grosse mani: ella si dibattè spaventata mandando un grido. In quel punto dall'una delle porte di quella sala entrava il domestico chiamato dalla scampanellata del marchese, e questi si presentava sulla soglia del suo studio, chiamato dal grido di Virginia.

Maurilio, alla vista dei sopraggiunti, abbandonò la ragazza, gettò un urlo e riprese la sua fuga disperata.

– Tenete dietro al signor Maurilio; comandò il marchese, presso cui Virginia era venuta a rifugiarsi tutto sgomenta: vegliate su di lui e frattanto qualcuno corra subito per un medico.

Maurilio era corso nella sua camera e ne aveva chiuso a chiave l'uscio, entrandovi, prima che il domestico giungesse a quella soglia. Al battere nella porta, alle parole del servitore egli non rispose nemmeno; tanto che il domestico, stancatosi dopo replicati tentativi, venne dal padrone a dirgli quel ch'era avvenuto e riceverne nuovi ordini.

– Andate pel medico, frattanto; e quando e' sia giunto, penseremo al da farsi.

Il giovane, disperato, s'era buttato traverso il letto colla faccia affondata nelle coltri ed aveva prorotto in penosissimi singhiozzi.

– Figlio d'un assassino, ripeteva, figlio d'un assassino. E mia madre una serva!.. E l'amo tanto Virginia!.. E nel mio capo c'è l'intelligenza d'un uomo superiore!.. Sono nato dal fango sociale: nelle mie vene corre il germe fatale del delitto: lo sento alla ferocia d'un istinto che mi si fa gigante nel petto… È un retaggio fatale… Si trasmette come la tisi, il rachitismo e la pazzia… La pazzia, la sento che viene… Oh sia la benvenuta!.. Mia madre fu assassinata da mio padre… Mio padre assassino… Ed io che cosa sarò?..

Una vertiginosa fantasmagoria di strane immagini orribili, spaventose, in mezzo ad una nebbia color di sangue, gl'invase il cervello. Vide in un tramestio orrendo assassini e vittime, suppliziati e carnefici, antri di prigione e ferri di catene, e dominante su tutto la schifosa ombra dello stromento del supremo supplizio. Si levò irte le chiome, smarriti gli occhi, sconvolte le sembianze, contratti i muscoli, tutti in un tremito i nervi. Gli spettri della pazzia e dell'infamia gli danzavano innanzi. Tutti gli oggetti vedeva di color rosso affuocato; sentiva con dolore inesprimibile battergli forte i polsi nella testa. Si recò barcollando come un ebbro, le mani tese innanzi al par d'un cieco, al lavamano, e immerse a più riprese la faccia e la testa nel catino pieno d'acqua fredda; ciò non gli bastava: prese una tovaglia, la inzuppò nell'acqua e se ne cinse la fronte che gli ardeva. Tutto ciò fece con atti macchinali, senza aver coscienza di sè. Ne provò alcun giovamento. L'orribile ridda che gli movevano nel cervello le immagini provocate dal delirio si calmò; le visioni spaventose si dileguarono in quella nebbia dello spirito che da rossa color sangue si sfumava in un color rosato con dei guizzi più vivi che parevano baleni. Guardò intorno a sè, come attonito, smemorato, e si riconobbe. Trovò nella sua mente, dritto, per così dire, in mezzo al rovinio di quelle visioni della febbre, un pensiero:

– Non ho detto al marchese chi e dov'era il suo vero nipote; e convien bene ch'e' lo sappia.

Si strappò dalla fronte la servietta fumante onde s'era cinto le tempia e si slanciò verso la porta. Ma ecco tosto la mano adunca della pazzia acciuffarlo di nuovo. La febbre cerebrale, che sempre incombeva, minaccia immanente sugli organi sovreccitati della sua intelligenza, gli piombò addosso come falco sulla preda. Stralunò gli occhi, rise orribilmente, battè l'aria colle braccia come fa delle ali uccello ferito che non può più levarsi a volo, mandò un grido soffocato, un gemito, un rantolo; e cadde lungo e disteso sul pavimento.

 

Al sopraggiungere del medico fu aperta di forza la porta, il giovane fu raccolto di terra e posto a letto, e il male fu sollecitamente ed energicamente combattuto coi salassi, colle mignatte, colle ventose.

– Temo che nulla non possa più salvarlo: disse al terzo giorno il medico al marchese che mostrava molto interesse per quell'infelice.

Egli non era ancora tornato neppure un momento in cognizione di sè, e ad ogni parosismo di quella febbre cui nulla ancora aveva potuto vincere, tornava più fiero, più penoso, più dissensato il delirio.

Giovanni Selva, Romualdo, Vanardi, saputo dello stato del loro amico, chiesero ed ottennero di venirgli prestar le loro cure, come avevano già fatto nella precedente identica malattia, quando essi l'avevano primamente ospitato.

Più tardi ci furono eziandio Don Venanzio e la vecchia Margherita, la nutrice di Gian-Luigi. Il parroco era corso a Torino, tutto stravolto e sconsolato dalle due bruttissime novelle: l'arresto di Gian-Luigi e la malattia mortale di Maurilio; la Margherita, udito con indicibile angoscia quello che era avvenuto a colui ch'essa aveva nutrito col suo latte, cui amava più d'un figliuolo, aveva voluto accorrere alla capitale, come se la sua presenza lo potesse difendere, lo potesse aiutare; e seco aveva recate ancora intatte le mille lire statele date poco tempo prima dal medichino. Tanto a lei, quanto al parroco, l'autorità giudiziaria aveva intimato comparir come testimoni nel processo che con sollecitudine straordinaria si veniva istruendo contro di Quercia.