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La plebe, parte IV

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Gli occhi del giacente manifestarono dapprima la stessa esitazione, la stessa difficoltà di poc'anzi, come restii ad ubbidire all'intimo volere; poi le ciglia si abbassarono lentamente e le pupille furono coperte.

– Bene, benissimo: esclamò il Commissario sempre più soddisfatto. Or dunque – fate bene attenzione, da bravo! – quando voi avreste da accennare di sì potreste chiudere gli occhi. Sarebbe come una precisa affermativa alle nostre interrogazioni, pronunziata dalla vostra bocca. Avete capito?

Le palpebre floscie e giallognole di Nariccia che si erano rialzate tornarono ad abbassarsi sulle losche pupille.

– A meraviglia! Vedono lor signori che noi ci comprendiamo perfettamente… E credo che non si voglia perder tempo – chi sa che cosa può sopravvenire anche nello stato di questo povero diavolo, che c'impedisca di poi l'approfittare del lume d'intelligenza che gli rimane? – e sia spediente il venir subito all'argomento che più preme.

Il giudice fece vivamente un cenno di assentimento, e tutti s'accostarono ancora di più al letto, presi da nuovo e maggiore interesse.

– Avete voi conosciuto i vostri assassini? Se sì, fate come vi dissi, chiudete gli occhi, se no, rimanete colle pupille immote.

Più presto di quello che avessero fatto per l'innanzi, le palpebre di Nariccia s'abbassarono.

Tofi continuò il suo interrogatorio.

– Tutti? Se li avete riconosciuti tutti, chiudete come prima gli occhi; se alcuni soltanto, volgete le pupille alla destra.

Nariccia chiuse compiutamente gli occhi.

– Potreste dirne i nomi?

L'assassinato fece di nuovo il segno affermativo.

– Troveremo il modo di aiutarvi a dirlo questo nome. Frattanto vediamo un po' in quanti erano. Io pronunzierò i numeri, facendo una pausa fra l'uno e l'altro; quando avrò detto il numero che si vuole, voi accennerete di sì. State attento. Uno!

Aspettò un istante: le pupille del giacente stettero fisse sul volto del Commissario.

– Due…

Gli occhi rimasero immoti.

– Tre.

Le palpebre si chiusero.

– È giusto. L'avrei detto anch'io che dovevano essere in tre, solamente a vedere le traccie del delitto. Uno, il più nerboruto, dovette spacciare la fante, mentre gli altri due erano intorno a voi.

Nariccia fe' segno di sì; ma i suoi occhi, fino allora semispenti e quasi atoni, cominciavano a prendere un'espressione di sgomento e di terrore, troppo vivo essendo forse nell'interno l'effetto di questo richiamargli alla mente l'orribile scena.

– Di questi tre assassini io sono persuaso di sapervi dire il nome di due: sono due galeotti scappati, di cui uno vien chiamato Stracciaferro, e l'altro Graffigna.

Cenno affermativo nel giacente.

– Rimane il terzo, e questo sono persuaso che è il più importante.

Nelle pupille di Nariccia corse come un lampo; era una fiamma fugace di quel desiderio di vendetta che stava in lui, e con più vivezza che non avessero ancora avuta, gli occhi si chiusero ad accennar di sì.

– Il pezzo di vestito che voi avevate tra le mani è suo?

Segno affermativo di Nariccia.

– Quello squarcio di abito indica ch'egli vestiva panni signorili. È così?

Il paralitico rispose affermativamente.

– Sotto quel bavero ci sono trapunte due lettere dell'alfabeto, F. B. Sono esse le iniziali del nome di quell'individuo?

Le pupille dell'assassinato rimasero immobili.

– No? Eh! volevo dirlo ancor io. Ma con un po' di pazienza voi potrete farci conoscere subito quel nome. Porgete attenzione. Come abbiamo fatto pei numeri faremo per le lettere dell'alfabeto: io le pronunzierò adagio, ad una ad una, e voi mi segnerete via via quelle che entrano a comporre cotal nome. Cominciamo dalla prima.

Si mise a recitare lento e spiccato le lettere dell'alfabeto; gli occhi dell'assassinato stavano intentivamente fissi su quelle labbra come per cogliere a volo il suono delle lettere fatali che avevano da notare, quasi volendo affrettare la pronuncia di quelle che occorrevano. Ma dopo pochissimi istanti quelle pupille tornarono ad appannarsi e la fiamma d'intelligenza che vi balenava venne via via spegnendosi e quando il Commissario era giunto alla lettera H gli occhi di Nariccia si chiusero.

– Acca! esclamò il signor Tofi meravigliato. Un nome che comincia per acca? Diavolo! Non me lo sarei mai aspettato.

Si curvò di più sul giacente.

– Ehi! messer Nariccia, date retta: è proprio l'acca che avete voluto segnare? Riaprite gli occhi da bravo e ripeteteci il segno, se gli è proprio vostra intenzione di notare questa lettera.

Ma gli occhi di Nariccia non si riaprirono. Il medico s'accostò, lo esaminò, e disse che era inutile insistere, poichè la soverchia interna emozione lo aveva tolto della cognizione.

Tofi fece un atto di disappunto.

– Peccato! diss'egli. La cosa era sì bene avviata. Chi sa se quest'infelice potrà tornare in condizione da riprendere siffatto interrogatorio!

– Converrà usare dei riguardi: soggiunse il medico, e non ricominciare troppo presto. La emozione è troppo forte ancora e troppo recente, perchè facendo rivolgere su quel fatto la sua mente indebolita non succedano tristi effetti a danno della sua salute.

Il Commissario diede bruscamente una crollatina di spalle che significava con molta evidenza: «quando ne avessi tratto fuori quel che voglio, crepi o non crepi costui, che cosa m'importa?» ma non disse verbo.

Il marchese che non aveva più ragione alcuna d'indugiarsi in quella casa, se ne partì col gesuita. Il suo animo era stranamente commosso, la mente turbata. L'intreccio de' casi, la combinazione di quelle strane, inaspettate, imprevedibili circostanze gli facevano scorgere in tutto codesto un certo che di fatale, come un disegno della Provvidenza che volesse, ora, dopo tanti anni, metterlo al cimento di nuovo e dargli occasione a riparare a quel suo fatto per cui gli durava ancora potente nell'animo il rimorso. S'egli non avesse ucciso Valpetrosa (andava seco stesso pensando), il figlio di lui non sarebbe caduto in sì misera sorte!..

Giunti alla carrozza, che aspettava nella strada, Baldissero e fra' Bonaventura, questi, mentre il valletto, col cappello in mano, teneva lo sportello aperto perchè ci salissero, disse:

– Eccellenza, io la saluto. Ella se ne torna forse a casa, ed io rientro nel mio convento.

Il marchese pose una mano sotto l'ascella del frate a fargli invito a salire nel legno.

– Venga, venga meco, gli disse, l'accompagnerò fino al Carmine e la deporrò alla porta.

Salirono ambidue, e la carrozza si diresse di trotto verso il luogo indicato.

Per un po' rimasero in silenzio tuttedue: fu poscia Padre Bonaventura il primo che incominciò a parlare col suo tono più insinuante che mai.

– È una dolorosa contrarietà, un fatale contrattempo questa orrenda disgrazia capitata al povero Nariccia. Temo pur troppo ch'egli non tornerà mai più in istato da potersi spiegare chiaramente e farsi intendere con sicurezza; e senza la sua testimonianza è affatto impossibile dileguare quei dubbi che ci si affacciano intorno all'essere di quel giovane.

Il marchese lo interruppe con un gesto che indicava desiderare che per allora non gli si parlasse più di codesto.

– Penserò di meglio quello che mi tocchi di fare, disse: pregherò Dio, e preghi anche Lei per me, di grazia, perchè m'illumini.

S'era giunti al convento del Carmine, il gesuita discese con ringraziamenti, rispettose salutazioni ed umili proteste di devozione, e il marchese continuò la strada per al suo palazzo. Diverse idee gli tenzonavano nella mente, diversi affetti gli agitavano l'animo. I pregiudizi, l'orgoglio, la bontà del suo cuore, il rimorso lottavano in lui, mandandolo a volta a volta ai più opposti partiti. Aveva bisogno di guida e di consiglio, e non sapeva a cui rivolgersi, e non voleva aprirsene a nessuno. Ad un tratto si presentò alla sua mente l'immagine sorridente e bonaria dell'umile parroco di villaggio. Là era il buon senso, là l'onestà la più pura, là una vera religione, la virtù più generosa, il più esatto e preciso sentimento del dovere, là l'ispirazione della carità veramente cristiana.

Salì di fretta nel suo quartiere e fece venire a sè il domestico.

– Cercate subito di Don Venanzio, e pregatelo di venir da me al più presto.

Il lacchè s'inchinò in segno d'ubbidienza, ma non uscì della stanza.

– Che cosa avete da dirmi? domandò il marchese.

– Durante la sua assenza venne uno scudiere di Corte, pregandola di recarsi a Palazzo chè S. M. desidera parlarle.

Il marchese represse un lievissimo atto di contrarietà, e disse sollecito:

– Non si stacchino dunque i cavalli. Ci vado tosto: e frattanto si cerchi di Don Venanzio. Vorrei trovarlo qua al mio ritorno.

E messosi di nuovo in carrozza, fu in pochi minuti nel palazzo reale alla presenza di Carlo Alberto che lo aspettava e lo accolse tosto.

CAPITOLO VII

Il commissario Tofi, fattasi inutile ogni insistenza presso lo svenuto Nariccia, passò in altra camera e si diede ad interrogare coloro fra i casigliani che aveva fatto trattenere, nella lusinga potessero fornire qualche testimonianza utile al suo còmpito. Apprese egli di questo modo il fatto della crudele cacciata sul lastrico della strada della famiglia del povero Andrea, e quindi il furore e i propositi di vendetta di quest'esso. Nel passato del misero operaio non c'era nulla che potesse farlo stimar capace d'un delitto, e sopratutto d'una ruberia; ma la passione di vendicarsi e la miseria in cui si sapeva caduto il disgraziato sono così cattive consigliatrici! Gli stravizi a cui s'era dato in preda, le triste compagnie cui da tempo frequentava erano argomenti da far credere in Andrea offese e smussate quella moralità e quell'onoratezza onde poteva un tempo vantarsi; per poter penetrare in quel modo nel quartiere dell'avaro, senza effrazione, gli assassini dovevano avere in loro mano delle chiavi ben fatte all'uopo; ora sapevasi che Andrea era un abilissimo fabbro ferraio. Quella mattina era stato visto in quella strada medesima ed aveva mostrato assai turbamento. Tutto ciò parve al signor Tofi altro che bastevole per legittimare i sospetti sul conto di Andrea e la sua cattura: diede ordine senz'altro che il marito di Paolina venisse arrestato.

 

Ma dove trovarlo questo vagabondo che non aveva più domicilio? Tofi, che conosceva i suoi polli, mandò gli sgherri prima all'osteria, e poi, se Andrea non fosse colà, all'ospedale dove giaceva inferma la moglie dell'operaio.

Povera Paolina! Pareva ch'ella fosse già precipitata al colmo delle disgrazie, eppure una nuova le incombeva sul capo ed un nuovo massimo dolore stava per colpirla. Rimasta fuor de' sensi quasi ventiquattr'ore (ah! perchè non aveva Iddio concessole di continuare in questo stato, nel quale almeno le era tolta la coscienza della sua sventura?) era finalmente tornata in sè per conoscersi in un lettuccio sotto la trista vôlta d'un camerone d'ospedale. La prima idea che le era venuta era stata quella dei suoi cari.

– I miei figli! mio marito! esclamò essa.

Le rispose la voce dolce d'una pietosa suora di carità che per ventura le stava presso in quel punto.

– I vostri figliuoli sono ricoverati nell'Ospizio di *** e non mancano di nulla; vostro marito è già venuto due volte a vedervi, e credo che tornerà di quest'oggi medesimo.

La inferma volse uno sguardo tra attonito e riconoscente alla mite fisionomia di quella monaca, e stette un poco a guardarla, come se non avesse parole fatte da risponderle; poi ad un tratto un'idea spaventosa l'assalse, ed ella ruppe in un singhiozzo.

– Mio marito, disse, può venire a vedermi; ma i miei figli?.. Oh! non verranno essi pure?.. Io non potrò uscir più di qua per vederli loro… Dovrò io dunque morire senza più abbracciarli?

La suora tentò calmare lo spasimo della poveretta con buone parole, e infonderle il coraggio di qualche speranza; ma tutto fu inutile.

– No, no: diceva ella scotendo sul guanciale la testa con mossa desolata: lo sento bene; io morrò qui… qui, separata dai miei!..

Povera donna! Ella doveva aver pur troppo ragione!

Poco dopo Andrea si trovava presso il letto di sua moglie.

Non ebbero cuore a parlarsi i due infelici. Essa lo fissava cogli occhi velati da lagrime; egli non osava quasi arrestare il suo sguardo sul viso di lei, aimè! quanto cambiato, che già pareva il viso di una morta. Nell'aspetto di lui c'era una confusione, una vergogna, un rimorso: tutto esprimeva il pentimento ed il dolore; il suo contegno era un'accusa di se stesso ed un implorare perdono: in lei non un'ombra di rampogna, non la menoma amarezza; una rassegnata mestizia, una virtuosa mitezza nella irrimediabile desolazione. Andrea balbettò alcune voci che non avevano senso; si curvò sulla giacente; ne prese il capo fra le sue nere, callose mani che tremavano, e baciandole la fronte, ruppe in un pianto angoscioso, con singhiozzi che parevano squarciargli il petto. Piangeva eziandio Paolina, ma piangeva chetamente e lasciava colar giù del volto immagrito e color della cera le lagrime cocenti senza asciugarle.

Stettero così un poco; e la dolorosa amaritudine di quelle anime in tale istante, chi la potrebbe dire? Fu la Paolina che, con quel filo di voce che le rimaneva, cominciò a parlare.

– Calmati, Andrea, e fa coraggio, te ne prego.

Era essa, la santa donna, che riconfortava il marito; essa che andava persuasa di morire, di dover abbandonare nel mondo, in quelle sì triste condizioni in cui erano, i figli suoi; essa che da ciò aveva all'anima il più grande dolore che anima di madre abbia provato mai!

– Non pianger più… Tu sei un uomo… Conviene che tu abbia forza… Senti, Andrea: ti voglio domandare un piacere, un gran piacere, sai, che mi farà bene, ma tanto, tanto bene.

– Oh parla: esclamò vivamente il marito: e qualunque cosa sia, ti giuro che io lo farò.

– Ho bisogno di vedere i nostri figliuoli… Conducimili qui… Non dev'essere proibito di condurre de' figliuoli a vedere la madre ammalata… Se fosse proibito anche questo, per noi povera gente, va a domandare la grazia da chi occorre, anche dal Re se fa bisogno… te ne supplico, ma conducimi qui i miei bambini… Tutti, sai! Anche l'ultimo… Povero piccino!.. Ah! poveri tutti!..

Si tacque chè la commozione le faceva groppo alla gola, e si voltò in là perchè il pianto le riempiva di nuovo gli occhi.

– Sta tranquilla, rispose Andrea, dovessi mettere sottosopra il mondo, ti contenterò…

– Quando? quando? chiese con ansia e sollecitudine l'inferma.

– Per oggi mi è impossibile, che già è troppo tardi, e prima che io sia andato e venuto, è di là di trascorsa l'ora in cui qui ci si lascia entrare; ma domattina, sta sicura che verrò qui coi nostri figliuoli per mano.

– Grazie! disse Paolina con tanta tenerezza di accento che impossibile farsene un'idea: ah! rivedrò i figli miei!..

Successe una pausa; poi la inferma, non senza qualche imbarazzo, si fece a domandare:

– E tu, Andrea, ora, che fai? che conti di fare? come vivi? Hai cercato, cerchi lavoro? ne hai trovato?

Andrea rispose con impaccio maggiore di quello con cui sua moglie lo interrogava:

– No, di lavoro fin adesso non ne ho trovato… è così scarso!.. ma ne cerco.

– E intanto come vivi?

– Ho qualche amico che mi aiuta…

– Ah! i tuoi amici

– Ho reso servizio ad un cotale che può qualche cosa e che ci torrà tutti dalle pene… Quando tu sarai guarita, e sarà guarito ancor egli… perchè si trova malato di molto anche lui, tutto si aggiusterà…

Paolina guardò fiso in volto suo marito.

– Non c'è nulla in codesto, di cui un uomo onesto come sei tu debba arrossir mai?

Andrea chinò gli occhi innanzi a quelli della maglie: ricordò la false chiavi fatte la sera innanzi, ed una profonda vergogna de' fatti suoi lo prese.

– No, no, rispose tuttavia con sufficiente franchezza; anzi ho fatto per quel cotale una che si può dire opera buona. Ti conterò poi tutto un'altra volta.

Il domani, come aveva promesso alla moglie di fare, Andrea uscì dal segreto riparo in cui si nascondeva così bene, che da quella sera in cui era stato condotto in Cafarnao nè Marcaccio ned altri non lo avevano visto più, e s'avviò verso l'ospizio ov'erano ricoverati i suoi figli. Per giungere a questo ospizio, la strada più corta era quella in cui si trovava la casa di messer Nariccia, ed Andrea ci passò, e come tutti quelli che in quella mattina la percorrevano, fu arrestato dal capannello di curiosi che impediva il passo all'altezza appunto della casa dell'usuraio. Il marito di Paolina dalle vive ciarle che udì intorno a sè, apprese tosto quel che era avvenuto al suo già padrone di casa, e fu grave e profondo l'effetto ch'egli ne provò. Pensò di botto a quelle chiavi da lui fabbricate, e non ebbe dubbio nessuno che esse avessero servito a commettere quell'orribile delitto; egli dunque ne aveva pure la sua parte di colpa, a lui si doveva il compimento di quella strage, su di lui la giustizia divina e l'umana avrebbero potuto e dovuto far ricadere quel sangue. Il povero Andrea seppe così poco nascondere il suo turbamento che i presenti lo notarono tutti, e parlandone poscia al Commissario, rafforzarono in lui i sospetti che complice dell'assassinio fosse Andrea, e che, mandato appunto da quelli che avevano fatto il colpo, fosse venuto lì quella mattina ad esplorare come si mettessero le cose.

Intanto il marito di Paolina, allontanatosi da quel luogo di buon passo, desideroso di fuggire quella strada e quelle voci, arrivava ancora tutto sossopra dell'animo all'ospizio in cui erano ricoverati i suoi figliuoli. Colà domandava gli fosse concesso prender seco i bambini e condurli al letto della madre poco meno che moribonda; e la passione dell'animo ond'era afflitto, diede alle sue preghiere tanta efficacia, che le monache sotto la cui direzione era quel pio istituto, acconsentirono senza difficoltà nessuna a lasciar andare col misero padre i bambini; i quali, di vero, appena vistolo, s'erano gettati addosso a lui e pregavano piangendo li togliesse con sè, li conducesse dalla mamma, tornassero tutti nella loro soffitta a vivere come prima.

Andrea li abbracciò e baciò con tanta tenerezza, quanta forse non aveva provata mai; ringraziò le monache alle quali promise avrebbe fra due ore al più tardi ricondotti i piccini, cui loro raccomandava colla più commovente effusione, e toltosi in braccio il più piccolo, mandandosi innanzi gli altri, si diresse verso l'ospedale in cui giaceva la moglie.

Quest'infelice aspettava con ansioso desiderio che le faceva parere lentissimo il tempo. Ad ogni minuto domandava alla monaca, che aveva più specialmente cura di lei, qual ora fosse, e udendo sempre che trammezzavano ancora parecchi minuti al punto in cui avrebbero cominciato ad essere ammessi i visitatori, sospirava dolorosamente.

Ma quel momento giunse pure alla fine: vide Andrea comparire in fondo al camerone col piccino in braccio che girava attorno attoniti i suoi occhioni tondi come se volesse cercare la mamma che il babbo gli aveva detto eran venuti a vedere; scorse gli altri suoi figliuoli che camminavano tenendosi per mano colle mostre dello stupore ancor essi sulle loro faccine a quei nuovi oggetti che si trovavan dintorno; Paolina provò una tale emozione che ne attinse la forza di drizzarsi alquanto della persona sul letto, di levar fuori dalle coltri le braccia e tenderle a quei suoi cari che s'avanzavano verso di lei, mentre le sue bianche labbra tremanti esclamavano:

– Figli… oh figli miei!

In un momento, fra quelle braccia mosse da tanta tenerezza si trovò stretto con amoroso trasporto l'ultimo de' bimbi che il padre ci aveva messo. La povera madre lo baciava piangendo, dicendogli mille incoerenti, inintelligibili parole; il bambino guardava sempre con que' suoi medesimi occhi attoniti, pareva non riconoscer più sua madre: quelle due lunghe file di letti, con entrovi tanti volti quasi cadaverici e tanti occhi riarsi dal fuoco della febbre, parevano spaventarlo, faceva greppo e se non avesse avuto soggezione, molto facilmente sarebbe prorotto in pianto. Il padre lo riprese, recandoselo al petto, ed egli si serrò colle piccole braccia al collo di lui, guardando la madre quasi sgomento: la infelice donna rispondeva a quello sguardo con un mesto sorriso tutto bontà e con una dolorosa rassegnazione entro gli occhi. Gli altri figliuoli furono dalla giacente abbracciati del pari; poscia il marito sedutosi vicino al capezzale, i bambini sulle ginocchia di lui, e l'ultimo nato, accoccolato sulla sponda del letto, passarono un po' di tempo dicendo parole pochissime, ma guardandosi, ma pensando di molto i due miseri genitori al loro passato, alle miserie presenti, alle paurose minaccie dell'oscuro avvenire. Il più piccino dei bimbi, superata oramai quella prima impressione di timoroso disagio, riconosciuta compiutamente la mamma, s'era accostato vicino vicino al capo materno ch'essa aveva dovuto abbandonare di nuovo sul guanciale, e colla manina ne accarezzava le pallide gote.

Così rimasero forse un'ora, non felici di certo, ma con una dolce e preziosa tregua nel loro reciproco soffrire. Ed ecco che il momento doloroso di separarsi era giunto. La monaca pietosa colle più umane forme e col più mite accento venne ad avvertirneli. Andrea si levò a malincuore, con un evidente sforzo, quasi avesse da sollevare con sè un grave peso che lo tenesse piantato a quel posto; Paolina fissò il volto de' suoi figli con un'espressione di spasimo, di rimpianto, quasi di terrore. Oh com'era passato presto quel tempo! Come! già separarsi da que' suoi dilettissimi! Rimaner di nuovo sola, ripiombare così presto nella privazione della vista di quei visini, nella lontananza da ogni suo affetto! E li avrebbe essa potuto rivedere ancora? Era quello forse l'ultimo addio che loro dava!.. Le sue labbra fatte tenaci, parevano non potere staccarsi dalla fronte dei figli in quel bacio d'addio. Non potè dir molte parole; balbettò confuse frasi soltanto; non potè piangere nemmeno; due lagrime sole ma cocenti le colarono giù dal volto; e la espressione dello sguardo con cui seguitò marito e figli che partivano, finchè non furono usciti dal camerone; quell'espressione disperatamente dolorosa, chi la potrebbe dire?

Quando e' furono fuori della soglia la misera nascose il capo sotto le coltri, e fu udita allora dolorosamente singhiozzare.

Andrea veniva fuori dell'ospedale, quando due uomini gli si slanciarono contro e prima ancora d'aver pronunziata una parola lo afferrarono alle braccia e lo disgiunsero da' suoi bambini che furono in là respinti.

 

– Venite con noi: gli dissero col tono poco gentile che è usuale a tutti gli sgherri del mondo.

Andrea diede una strappata affine di sciogliersi da quelle manaccie; ma i birri travestiti, coll'abilità e prestezza che hanno acquistate coll'uso in codesta bisogna, gli ebbero messo di subito i cantini ai polsi e dando una giratina colle mani glie li fecero entrare nelle carni, con un dolore che obbligò l'infelice a mandare un grido. La tremenda verità balenò innanzi al povero Andrea, a cui come uno spavento si presentò l'idea della carcere.

– Dove volete condurmi? domandò egli con un'ombra ancora di speranza che quello fosse un errore oppure d'altra cosa si trattasse. Chi siete?

– Siamo agenti della forza pubblica: risposero: ed abbiamo da condurvi dritto dritto al correzionale.

Molta gente usciva in quel punto dall'ospedale: presso alla porta stavano venditori e venditrici di arancie, cui sogliono comprare i visitatori per recare agl'infermi; tutti costoro e chi per caso passava in quel momento per la strada, si raccolsero in un gruppo curioso, abbastanza fitto, che si serrò intorno ai birri ed all'arrestato. I fanciulli che non capirono che cosa avvenisse, ma videro che si voleva separarli dal padre loro, colle manine intirizzite dal freddo, e gonfie dai geloni, afferrarono i panni del babbo e si diedero a strillare. Andrea volse tutt'intorno, su quelle faccie curiose che lo guardavano, un occhio smarrito, e gli parve che quelle faccie avessero centinaia e centinaia di pupille larghe, brillanti, che lo saettavano di schernitrici occhiate: il sangue gli salì prima alla testa, poi gli si aggruppò al cuore, sentì possedersi da un'immensa vergogna, si fece rosso come una fiamma, poi pallido come un morto e balbettando disse:

– È impossibile… Si sbagliano… Io non ho fatto nulla.

– Non ci sbagliamo: risposero col solito accento e coi soliti improperii gli sgherri. E se non avete fatto nulla, lo direte a chi conviene, a suo tempo.

E diedero una nuova strappata ai polsi per farlo camminare con loro. Andrea sentì trarsi i panni dai bambini che vi si tenevano afferrati.

– I miei figli: disse egli, piantandosi a resistere alla tirata; io non posso abbandonare i miei figli… Mi lascino almanco ricondurre all'ospizio i figliuoli miei.

– Eh! le sono storie: risposero i birri; che sì che noi abbiamo tempo da passeggiare per la città a lasciarvi fare le vostre commissioni; o che credereste che noi vi lasciassimo andare a fare voi da solo una piccola corsa, colla fiducia che voi veniate di poi a consegnarvi nelle nostre mani?

– Io sì, lo farò, lo giuro: esclamò Andrea.

– Niente affatto; non c'è da farvi di queste lusinghe; già troppe parole abbiamo scambiate; suvvia in marcia, e non fatevi tirare.

– Babbo, babbo, seguitavano a gridare i bambini: non lasciarci… Ci conducano anche noi col babbo.

I popolani presenti incominciavano a intenerirsi: i birri la vollero far finita, e senza tante cerimonie trascinarono il meschinello facendogli entrare nelle braccia le cordicelle delle manette. I bimbi correvan dietro a quel gruppo strillando; il povero padre volgevasi verso di loro, avvicendando le preghiere alle minaccie ed agli improperii e tutto col medesimo effetto sui poliziotti che lo traevan prigione: era uno spettacolo dolorosissimo a vedersi.

Ad un punto Andrea si buttò in terra disperatamente.

– No, urlò egli in un accesso di rabbia avvoltolandosi sul fango ghiacciato della via; no, non faccio un passo di più, non mi movo… mi battano, mi uccidano se vogliono, ma io non abbandonerò i miei figli.

Gli sgherri si diedero in fatto a percotere il pover'uomo accompagnando le busse d'ogni fatta villanie; ma l'infelice padre seguitava a gridare:

– Oh che giustizia è questa? Che ho da lasciare sul lastrico i miei bimbi crepar di freddo e di fame? La loro madre è allo spedale… Me mi gettano in carcere che sono innocente… Vogliono dunque farci morir di miseria noi poveri e i nostri figliuoli… Me li lascino guidare all'ospizio, non domando altro.

Un signore vestito da buon borghese, d'età inoltrata, d'aspetto pieno di bontà, che passava per caso colà, si fece innanzi e disse ai birri con un accento tra di autorità, tra di preghiera:

– Via, non maltrattate così questo pover'uomo.

Gli sgherri gli si volsero inveleniti:

– Chi è Lei?.. Che cosa viene a ficcare il suo naso qui in mezzo, Lei?

– Io posso darvi di me il ricapito che vi piace. Sono Defasi, libraio di S. A. R. il Principe di Carignano.

Queste parole fecero effetto sui birri, come non poteva mancare di avvenire in quei tempi, quando in presenza d'un agente qualunque del Governo si invocasse il nome di qualcheduno appartenente alla Corte.

– Signore, risposero con meno burbanza, noi abbiamo ordine preciso di condurre quest'uomo in prigione, e capisce anche Lei che bisogna pure facciamo il dover nostro.

– Sta bene; ma non entra nel vostro dovere il regolarvi in tal barbaro modo. Lasciate ch'io dica due parole a quest'uomo… Oh non dubitate che le udrete anche voi, e credo che dopo di esse egli camminerà senza contrasto.

I poliziotti annuirono tacitamente con una stretta di spalle.

– E' bisogna rassegnarvi: disse ad Andrea il signor Defasi, il resistere non vi serve di nulla, ed anzi non può riuscire che a far peggiori le vostre condizioni… Quanto ai vostri figli, s'io ho udito bene, voi li vorreste accompagnati a qualche ospizio, dove hanno ricovero; ebbene dite a me quale sia quest'ospizio, e in parola di galantuomo vi prometto che ve li accompagnerò io stesso.

Andrea fissò in volto il Defasi cogli occhi suoi ancora smarriti. Erano nel suo sguardo prima una diffidenza ed un sospetto che non la letizia di aver trovato un aiuto; ma la figura aperta e leale del libraio non tardò ad inspirare al misero padre tutta quella confidenza che la si meritava.

– Ebben sì, esclamò Andrea con voce subitamente commossa a tenerezza. La è padre di certo anco Lei?

Defasi fece sorridendo un cenno affermativo.

– Affido dunque a Lei i miei figli. Faccia la carità di accompagnarli all'ospizio ***; il mio nome è questo (e glielo disse), e soggiunga ch'e' son que' piccini che ieri ci vennero ricoverati dietro le istanze e le raccomandazioni del dottor Quercia.

– Siate tranquillo che farò appuntino: rispose il libraio con quella sua voce da galantuomo: e troverò modo, se altri non ne avete, di farvi sapere alcuna volta notizie di loro, ed eziandio di vostra moglie che ho udito essere a quest'ospedale.

Gli occhi di Andrea s'inumidirono.

– Oh grazie! esclamò egli. Iddio le renderà un tanto bene ch'Ella fa e farà ad una povera famiglia… Ah se mia moglie potesse ignorare quel che mi accade!.. Per carità, signore, Lei che è sì buono e generoso, se volesse almanco adoprarsi a prevenirla quella povera donna, ad apprenderle la mia sventura con qualche riguardo, ad assicurarla che gli è soltanto un errore, ch'io sono innocente, che presto sarò di nuovo libero per andarla a vedere. Oh sì lo spero, ne sono certo… Oh disgraziata mia Paolina! Che colpo avrà da esser questo per lei!

Il signor Defasi promise anche questo: che, accompagnati i bimbi all'ospizio, sarebbe venuto al letto della madre loro ammalata, e con quei modi che avrebbe potuto migliori, sarebbe venuto informandola a grado a grado del disavventuroso avvenimento. Ma, pur troppo, la buona volontà e i caritatevoli uffici del signor Defasi dovevano essere inutili a questo riguardo, perchè mentre Andrea staccavasi a gran fatica dai suoi figliuoli baciandoli ed abbracciandoli con trasporto, cui gli sgherri posero fine ruvidamente, e camminava tutto pieno di vergogna verso la prigione; mentre il libraio recavasi coi bimbi all'ospizio e ve li faceva accogliere, la brutta nuova dell'accaduto penetrava nell'ospedale, e nel modo più crudo giungeva sino al letto della povera inferma.