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La plebe, parte III

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L'uomo dalla maschera si curvò sul caduto; ne esaminò un istante i lineamenti convulsi e disse con accento in cui avreste notato una tinta di soddisfazione:

– Non siamo noi che l'abbiamo ucciso questo uomo; è l'apoplessia.

Ripulì nella camicia stessa di Nariccia il suo pugnale dal sangue ond'era lordo, e lo ripose; poi tentò svellere dalla destra di lui quel pezzo del bavero del mantello ch'egli aveva strappato; ma la mano dell'usuraio era così irrigidita che gli fu impossibile venirne a capo.

– La non crede vossignoria: disse con voce insinuante, in tono di falsetto l'omiciattolo: che sarebbe assai bene per maggior precauzione dargli a questo povero Nariccia, miserabile carcame d'un avaro, qualche trivellatina da assicurarci compiutamente? Questa razza di birboni ha la vita così invitiata alle ossa!..

L'individuo mascherato fece un atto di ribrezzo.

– Eh via, diss'egli: non sono i leoni, sono le jene che incrudeliscono contro i cadaveri.

Si diresse all'omaccione:

– Guarda di aprir la mano di quel morto e togliergliene quello squarcio di panno… E noi frattanto affrettiamoci al forziere.

Seguìto dall'omiciattolo si recò sollecito nella stanza che serviva di studio all'usuraio: in un attimo fu aperta la cancellata entro cui stava la cassa di ferro; e contro le complicate serrature di questa si cimentarono le chiavi fatte da Andrea. Le servirono a meraviglia; e pochi minuti bastarono perchè lo adoperarsi dell'omiciattolo, che mostrava in codesto un'abilità straordinaria, facesse capo al più favorevole successo. Lo sportello fasciato di ferro venne aperto, e in quella sopraggiungeva l'omaccione al quale troppo premeva di accorrere coi compagni ad impadronirsi del bottino.

E questo bottino era veramente tale da far mandare un'esclamazione di meraviglia, di contentezza, di trasporto ai tre assassini. Enorme era il valore che loro si offrì agli sguardi in monete, in ori ed argenti lavorati, in gemme e diamanti. Gli occhi degli scellerati brillarono di ardentissima cupidigia; e i due che portavano gli abiti della più abbietta classe sociale, tesero con rapida mossa le mani che tremavano verso quel tesoro; ma quello dalla maschera li trattenne con una fiera voce di comando, li trasse in là con una violenta spinta.

– Fermi! gridò: le mani a casa. Tutto questo non è guadagno nostro, è guadagno comune della associazione. Conteremo a quanto ammonta il denaro, quanti sieno gli oggetti di valore, e di tutto renderemo conto ai nostri compagni.

I due seguaci fecero una smorfia di rassegnazione poco volontaria.

– Una sola eccezione devo fare, riprese colui che aveva tutto il contegno di capo: ed è per quelle buste di gioielli di marocchino rosso con suvvi una cifra ed una corona impresse in oro. Esse non figureranno nel conto, perchè ho l'obbligo assoluto di restituirle io stesso a chi appartengono; e non ci voglio mancare.

Gli altri due si guardarono di sottecchi. Un comune pensiero manifestavano i loro occhi e le loro faccie: e si compresero vicendevolmente a meraviglia. Se il capo si prendeva così subito una tanta parte di bottino esclusivamente per sè, oh perchè non avrebbero dovuto essi stessi prelevare a loro vantaggio alcuna cosa in proporzione? Anche l'uomo mascherato li comprese; li guardò in un certo modo e ripetè seccamente:

– Codesto lo voglio; e del fatto mio darò ragione al consiglio.

Nessuno dei due osò ribatter parola.

Il forziere fu vuotato con una regolarità ed un'accuratezza senza pari; il capo pres'egli stesso e subito le buste di gioielli che aveva, come udimmo, designate; fatto così all'ingrosso il conto, la preda saliva intorno alle ottocento mila lire. Avevano aperto tutti i cassetti, scassinato tutti i ripostigli, rifrugato in ogni cantuccio. In uno dei più segreti di quegli scompartimenti avevano trovato parecchi fasci di carte legati da cordoncini; erano la maggior parte lettere di cui alcune parevano antiche assai dal giallognolo della carta e dallo sbiadito dell'inchiostro. Non v'era nulla in codesto che dovesse interessare gli assassini; eppure il capo di essi sentì una strana, inesplicabile curiosità di sfogliare e scorrere quell'ammasso di scritture. Prese all'azzardo uno di quei fasci e senza scioglierne il legaccio, diede una sguardata alle carte: erano contratti in cui Nariccia non aveva mai la parte del deluso, obbligazioni di poveretti sgozzati dalle esigenze dell'usuraio, carte di pegno e va dicendo. Se il tempo e il luogo fossero stati opportuni, quell'uomo avrebbe forse fatto un simile esame di tutti gli altri fasci; ma i suoi complici, a cui pareva ora che quel terreno scottasse i piedi, lo pressavano di finirla e partirsi: egli capì che avevano ragione, pensò un momento di prender seco e portar via quelle cartacce per esaminarle poi a suo bell'agio, ma sorrise a questo strano capriccio, e come per levarsene la tentazione rinchiuse l'uscio del forziere con una certa vivacità. Un fogliolino sottile che forse erasi staccato da uno di quei fasci maneggiati, sollevato dall'aria mossa dallo sportello, volò via e andò a cadere per terra non molto lontano; l'omiciattolo lo raccolse, e quasi sbadatamente se lo pose in tasca.

Uscirono con precauzione i tre assassini da quella casa in cui avevano consumato l'orrendo delitto, richiusero pianamente le porte dietro di sè, e nessuno fu ad udirli, nè ad avvertire in alcun modo la loro presenza. Erano circa le tre dopo la mezzanotte, e le strade erano deserte e silenziose come quando erano venuti.

Camminarono solleciti verso la bottega del Baciccia, la quale, previi certi segni di riconoscimento, si aprì loro, e donde passarono senza indugio in Cafarnao. Non avevano scambiato più una parola. Il medichino aprì il suo gabinetto, e colà in luogo apposito furono deposti i denari e i gioielli derubati. Gian-Luigi si tolse il mantello, ed allora si accorse di nuovo dello strappo fatto al bavero, di cui non aveva più avuto campo a ricordarsi.

– Quel pezzo di panno, domandò egli, l'hai tu levato dalle branche del morto, Stracciaferro?

– No: rispose questi. Quell'indemoniato lo teneva così stretto nel pugno che manco una morsa di ferro non fa peggio.

– Sciagurato: proruppe con isdegno il medichino. Dovevi piuttosto tagliare quella mano che lasciare al fisco un tale appiglio d'indagini… Meriteresti che ti rimandassi colà, te solo, per non perdonarti più che quando tu mi portassi quel giusto squarcio.

– Se la lo vuole: disse Stracciaferro rassegnato; io ci vado, ma c'è troppo pericolo di farmi pigliare.

Il medichino stette un momento in silenzio come riflettendo: quel mantello, per azzardo, non era manco suo, e chi mai avrebbe potuto riconoscere che esso apparteneva a Francesco Benda, e che nella casa di costui egli l'aveva preso quella sera? Egli non poteva pur sospettare che al di sotto del bavero, in quel pezzo precisamente che era rimasto in mano dell'assassinato, c'era un contrassegno speciale, le lettere F. B. trapunte.

Mentre stava così pensieroso, Gian-Luigi, per moto quasi inconscio d'abitudine, tolse da una custodia apposita un sigaro e se lo pose fra le labbra: poi si diede a cercare un fiammifero, e Graffigna, zelante e premuroso di rendersi accetto e mostrare la sua deferenza al superiore, trasse sollecito di tasca un pezzo di carta, lo rotolò così un poco fra le mani e lo accese alla lanterna per presentarlo al medichino, ma questi aveva già dato fuoco al suo sigaro e fece un cenno col capo a significare che più non gli occorreva la fiamma di quella carta. Graffigna la spense, e da uomo accurato, qual esso era, pose il fogliolino rotolato e bruciato ad un capo sull'orlo della scrivania. L'occhio di Gian-Luigi cadde per caso sulle parole che v'erano scritte, le quali si trovavano nella parte esteriore del foglio spiegazzato, e su cui il raggio della vicina lanterna cadeva illuminandole distintamente. Quella scrittura gli fece un vivo e straordinario effetto; prese il foglio, lo rispiegò e rispianò, guardò ben bene, ed esclamò con un interesse, una specie di turbamento affatto nuovo:

– Dond'è venuto questo pezzo di carta?

Graffigna gli narrò come fosse volato via dal forziere di Nariccia ed egli lo avesse raccolto.

– Da Nariccia! Esclamò il medichino con un'espressione indefinibile: e il suo volto impallidì mentre gli occhi balenarono in istrana maniera. Si percotè la fronte: guardava quei caratteri come si guarda un enimma, da cui uom sa che dipende il proprio destino; le sue labbra, quasi forzate da una spinta superiore alla sua volontà balbettavano:

– La è la medesima scrittura… Sì per Dio, la è quella!

Stracciaferro, che aspettava un'ultima parola per decidere sul da farsi, interruppe quella meditazione accompagnata da tanto turbamento:

– Ebbene, diss'egli, che cosa debbo fare?

– Lasciatemi: rispose il medichino col tono di un uomo che nulla desidera più che liberarsi d'ogni compagnia. Ho gravi cose per la mente. Mi occorre d'esser solo.

Graffigna prese pei panni Stracciaferro, e tirandonelo, gli fece segno non insistesse dell'altro e lo seguisse. Gian-Luigi chiuse alle loro spalle l'uscio del gabinetto: poi corse in fretta ad aprire un suo riposto stipo e da esso trasse fuori un pezzo di carta vecchio e logoro; era una lettera stracciata a metà per lo lungo: quella colla quale egli Gian-Luigi era stato messo nella ruota dei trovatelli. Paragonò la scrittura di quest'ultima lettera con quella del foglio datogli da Graffigna: erano identiche, erano della mano medesima senza niun possibil dubbio.

Pareva che la sorte, la quale aveva dato un destino uguale a lui ed a Maurilio, volesse ora del pari e pel medesimo mezzo e contemporaneamente far loro scoprire le proprie origini, metterli in grado di rintracciare le loro famiglie. Il biglietto che era stato trovato addosso a Maurilio infante era scritto dalla Gattona, e quella metà di lettera onde era stato accompagnato Gian-Luigi era della mano di un tale che corrispondeva con Nariccia.

 

Il pezzo di quella carta su cui dovevano essere state la segnatura e la data del biglietto era stato consumato dal fuoco, e non si poteva veder più nè l'una nè l'altra; quello che rimaneva di scritto e che Gian-Luigi lesse con avidità, era del tenore seguente:

«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi prego di ritenerlo alle medesime condizioni; che per l'avvenire poi…»

Qui la carta era bruciata e la lettera interrotta.

Chi aveva scritto quelle parole era dunque in molta relazione con Nariccia; e colui doveva sapere senza dubbio nessuno il segreto della nascita di Gian-Luigi. Ma forse Nariccia medesimo lo conosceva eziandio e presentandogli quella metà di lettera avrebbe potuto dire al giovane derelitto chi fosse suo padre: ed egli tante volte era stato con quel vecchio usuraio! Una parola sola avrebbe bastato a diradare quelle tenebre, nè mai questa parola era stata pronunziata! Ed ora Nariccia era estinto – ed estinto in gran parte per opera di lui Gian-Luigi! – l'unico capo che forse rimanesse a sciogliere la matassa di quel mistero era codesto, ed egli lo aveva reciso! Contrattempo e sventura!

Ma quello non doveva essere l'unico foglio che rimanesse a Nariccia di quelli scrittigli da quell'uomo. Da questo medesimo biglietto che Gian-Luigi teneva in mano, appariva come fra colui e l'assassinato corressero seguitate e piuttosto intime relazioni: chi sa che in quei fasci di carte non ce ne fossero di importanti che riguardassero la sorte del fanciullo abbandonato? che in esse non si trovasse tanto da potere egli stesso, Gian-Luigi, penetrare senz'altro nel segreto del suo destino? Determinò tornare egli solo, di subito, in casa l'usuraio, si fece dare da Graffigna le chiavi e senza indugio si mosse. Ma quando fu per entrare nella porta della casa di quell'uomo, ch'egli poche ore innanzi aveva assassinato, il coraggio glie ne mancò per l'affatto. Si sentì come respinto da un'invisibile barriera contro cui avesse urtato il suo petto. Si allontanò di là; tornò facendosi violenza; provò di nuovo il medesimo effetto; vide alla fine una pattuglia che s'avanzava a quella volta, e fuggì perdutamente, quasi parendogli che ogni occhio di uomo dovesse leggergli sul volto il delitto ch'egli aveva commesso…

Quella sera medesima, che era il lunedì, la contessa Langosco di Staffarda compariva al ballo di Corte adorna della ricca magnificenza di tutti i suoi diamanti.

Fine della 3ª parte