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La plebe, parte III

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Il Re guardò il Governatore con un'aria che voleva dire: «Avete ragione:» ma non lo espresse a parole.

– Ed ora, soggiuns'egli poi, un nerbo di truppe sufficiente è stato spedito?

– Sì, Maestà.

– Va bene… Mi faccia venire il Generale dei Carabinieri.

Fu la volta del conte Barranchi di tornare presso Sua Maestà.

– Perchè, gli domandò il Re più severo ancora di quel che avesse parlato al Governatore, non ha Ella premunito, come le altre, la fabbrica del sig. Benda dagli assalti di quella canaglia?

– Non si sospettava, non si credeva… disse il comandante della Polizia.

– Invece era da sospettarsi e da credersi più di questa che delle altre, poichè ier l'altro già avevano avuto luogo in essa dei guai.

Barranchi rimase alquanto sconcertato, e maledisse in cuor suo che il Re fosse così ben informato.

– Maestà, diss'egli dopo un minuto secondo di meditazione: tutto il male non viene per nuocere. Quella famiglia è un nido di rivoluzionarii.

Ma il Re lo guardò di tal guisa che le parole gli si arrestarono sulla bocca rimasta aperta.

– Non sa Ella, che dobbiamo la nostra protezione a tutti quanti i nostri sudditi? Signor conte, desidero che in codesto Ella non abbia neppure colpa di negligenza, ma non le posso dissimulare che tutto ciò mi è assai spiacevole.

Al rimprovero del Re il Ministro degl'interni era diventato rosso: a quello che ora toccava a lui, il conte Barranchi si fece addirittura scarlatto.

– Desidero, continuò Carlo Alberto, di essere informato sollecitamente e man mano di tutto quello che accade… Dia gli ordini opportuni.

Barranchi si sprofondò in un inchino che non finiva più; e come il Re aveva fatto col capo il cenno di congedo, egli si ritrasse col volto del colore di matton cotto, e coi lineamenti sconvolti, come di chi è minacciato da un colpo apopletico.

La notizia che il Generale dei Carabinieri era caduto in disgrazia del Re circolò subito nella folla dei cortigiani, e parecchi che l'avevano amara con lui, ma che pure fino allora gli avevano sempre fatto bocchin da ridere, ebbero l'ardimento di voltargli le spalle mentr'egli passava loro dappresso.

Ma tutto questo andirivieni nella loggia reale, e questo confabulare col Re di personaggi importanti erano stati osservati dal pubblico ed avevano conferito a dare maggiore vivacità e forza alle supposizioni, alle voci allarmami, alle gravi novelle che correvano pel teatro.

Come vi potete pensare, erano esse arrivate eziandio fino al sedicente dottor Quercia, che le accoglieva con una finta sbadataggine e con una specie d'incredula indifferenza, ma che in cuore s'allegrava, augurandosi che reale fosse la gravità delle novelle comunicategli.

Voglioso d'accertarsene, egli s'era rivolto al conte di San Luca, che ho detto sedere in una poltrona d'orchestra non molto lontana da quella di Quercia.

– Ella, signor conte, per mezzo di suo zio il Generale, potrebbe saper tosto ed esatta la verità.

– È giusto: esclamò San Luca, il quale s'affrettò ad abbandonare il suo posto per correre in cerca di informazioni.

Dieci minuti dopo egli ritornava: non aveva potuto arrivare sino allo zio, ma aveva parlato all'uffiziale medesimo per mezzo di cui il conte Barranchi aveva trasmesso i suoi ordini.

– Ebbene? Ebbene? gli domandarono ansiosamente tutti i vicini, fra cui Quercia, aggruppandosi intorno a lui.

– Non è vero, rispose San Luca, che sieno molte le fabbriche saccheggiate; non è che una sola fuori di città.

– Quale? domandò Luigi che ebbe di subito come un indovinamento del vero.

– Quella Benda.

Quercia si morse le labbra per non lasciarne prorompere una bestemmia: e senza por tempo in mezzo si tolse di là frettoloso.

– Dove andate? domandarono alcuni.

– Cospetto! Alla fabbrica Benda. Quella famiglia è de' miei amici, e corro a vedere se posso essere loro capace di qualche soccorso.

Questo generoso impulso del giovane fu molto ammirato. Gian-Luigi si precipitò fuori di teatro, corse nella piazza ad una carrozza da nolo, ed aprendone lo sportello disse vivamente al cocchiere:

– Sul viale ***; ti dirò io quando avrai da fermare. Ti do uno scudo se ci arrivi in dieci minuti.

Si slanciò nell'interno della carrozza; il cocchiere levò con una mano la coperta che stava sul dorso del cavallo, coll'altra diede alla povera bestia quattro buone frustate; e la carrozza partì di galoppo.

CAPITOLO XXVIII

Le bande degl'insorti in numero di quattro, ordinate come il medichino aveva stabilito ed insegnato, raccozzatesi in punti diversi e con buona ragione trascelti, verso le sette, già essendo piena in quella stagione la notte, s'erano avviate, ciascuna verso quella meta che le era stata particolarmente assegnata; ma tre di esse non avevano tardato a trovare innanzi a sè l'ostacolo della truppa in tanta forza che una follia soltanto sarebbe stato un tentativo di resistenza. I riottosi avevano dato indietro, e come se i soldati non avessero comando che di impedirli dai luoghi custoditi, li avevano lasciati allontanare tranquillamente senza cercare di sbaragliarli e disperderli; ed allora per queste frotte ributtate, come se alcuno fosse colà appostato per dare a tempo opportuno il motto d'ordine, era corso il grido: «alla fabbrica Benda;» e tutta quella massa d'uomini eccitati dai fumi del vino s'era diretta all'officina di sor Giacomo.

Quella fra le bande che già fin dalla prima distribuzione delle parti doveva rivolgersi verso la casa e gli opifizi dei nostri amici ed assalirli, non ostante che Gian-Luigi avesse tentato poi, per mezzo di Graffigna, ottenere che verso quel luogo non si dirigesse, mercè la malizia di Graffigna medesimo che la guidava, era stata una delle più sollecite a recarsi al suo destino, e non aveva trovato sui suoi passi ombra d'ostacolo. Bastiano, che aveva ancora la testa fasciata, udito il rumore della folla avvicinantesi, il quale pareva quello dell'onda rumorosa d'un torrente straripato, aveva appena avuto tempo di chiudere ed abbarrare il portone da basso, che la turba veniva proprio come un fiotto a battere contro le pareti della casa, vociando, urlando, strepitando in mille guise.

La famigliuola stava riunita nella stanza di Francesco, che, alquanto migliorato, sonnecchiava per la prima volta tranquillamente senza febbre. La madre lo guardava intenerita, e sentiva ancor essa per la prima volta scemare alquanto, rammollirsi per così dire, la tensione dello spasimo e dell'affanno che le avevano torturata l'anima dal primo istante in cui aveva veduto comparirle innanzi il figliuolo ferito. Ad un punto, essa prima di tutti, per quell'acuità di sensi che dà in tali circostanze la sollecitudine del profondo, vivissimo affetto, udì lontano il fragore delle grida e dei passi della frotta minacciosa, come il rombo d'un temporale che sorge all'orizzonte. Senza che la povera madre si rendesse pure il menomo conto di ciò che potesse essere, una indefinita paura la riscosse nell'intimo: guardò Francesco che continuava tuttavia nel suo placido riposo; credette non foss'altro che una frotta di ubbriachi in quella sera dell'ultima domenica carnevalesca, si dolse che avessero proprio da passar colà, in quel viale deserto dov'essi dimoravano, per turbare il sonno del ferito, e pregò mentalmente dalla Santa Vergine che li tenesse lontani e non lasciasse che troncassero quel riposo riparatore del giacente; ma ad ogni minuto secondo il rumore cresceva, ed oramai appariva troppo maggiore e troppo diverso da quello che faccia una mano di ubbriachi. Anche Giacomo, anche Maria levarono il capo attoniti, turbati, quasi atterriti; udirono lo sportello nell'imposta del portone da basso chiudersi con violenza, e tosto dopo lo scoppio delle grida di morte sotto la finestra e una salve di colpi violenti contro la porta.

– Che cos'è? domandò Francesco svegliandosi in sussulto e guardando con occhio largo i volti impalliditi de' suoi. È un nuovo guaio nella fabbrica? A quest'ora?

– Sta tranquillo: gli rispose il padre. Non so che cosa sia, ma vado a vedere…

Una più violenta esplosione di grida lo interruppe: in mezzo a quelle varie voci che urlavano parole diverse, parecchie delle più forti si unirono in un grido solo che giunse distinto alle orecchie dell'assalita famiglia.

– Morte a Benda!

Francesco nel suo letto trasalì; il padre si slanciò verso la finestra; ma in quella una grandinata di sassi venne lanciata con impeto contro la casa e precisamente contro la finestra dalla quale traverso i vetri appariva nella notte il fioco raggio della lampada, e due tre pietre rompendo la doppia invetrata penetrarono entro la camera; Giacomo stesso fu colpito abbastanza gravemente nel braccio, uno dei sassi venne rotolando fino ai piedi del letto in cui giaceva il ferito: le due donne non poterono frenare un grido di spavento.

Giacomo lasciò scappare una bestemmia.

– Morte a noi! esclamò Francesco vivamente e dolorosissimamente commosso: e ci si assale in questa guisa?.. Oh per Iddio!..

E fece un moto per levarsi sul letto, e gettar i piedi sul pavimento: ma si fu appena sollevato di alquanto che dovette ricadere con tutto il suo peso sui cuscini, fattosi più bianco in volto delle sue lenzuola, presso a svenire; Teresa accorse al capezzale del figlio.

– Francesco! Francesco, per carità! esclamò ella: non muoverti.

Sor Giacomo s'era affrettalo a chiudere le imposte di legno sopra le invetrate rotte da cui penetrava fischiando l'aria gelata di quella notte invernale. Maria spaventata era accorsa presso il fratello ad aiutare la madre nell'opera di soccorrerlo. Al di fuori continuavano le grida e la tempesta dei sassi contro la parete e le finestre della casa di cui si udivano i vetri cadere infranti; le pietre che percuotevano nelle medesime imposte chiuse da Giacomo erano così frequenti che minacciavano romperle; spesseggiavano e più violenti i colpi nel portone che si voleva atterrare.

 

Il padre di Francesco, risoluto ed impetuoso come egli era, determinò di presente affrontare faccia a faccia quel pericolo, piuttosto di attendere, superate le deboli barriere che gli si potevano opporre, venisse a coglierlo colà nel santuario della sua famiglia. Si slanciò verso l'uscio della stanza; ma la moglie che vide quell'atto, che capì quel disegno, più ratta di lui gli fu innanzi sulla soglia e lo prese alle braccia con forza straordinaria.

– Che vuoi tu fare? gli disse autorevolmente. Esporti al furore di quelle belve eccitate? Ciò potresti se tu fossi solo… mi ci siamo noi…

– E forse questo è il modo migliore di salvarvene: disse Giacomo nella cui testa batteva il sangue tumultuosamente.

– No, disse la donna; e noi non vogliamo di salvamento a simil prezzo… Quegli sconsigliati non si possono più dominare… Non è che un esporti facil preda alla loro ferocia. Non uscire, Giacomo, te ne prego, per amore di Dio, per amore dei nostri figli, in nome di Francesco… Vuoi tu ucciderlo di subito quel poveretto?

Giacomo volse uno sguardo sul volto pallido di suo figlio, il cui capo riposava sul seno di Maria e che non aveva di vivo altro più che gli occhi larghi, irrequieti, ardenti di nuova febbre sopravvenuta, senza parola, senza quasi il respiro, e ristette; si percosse coi pugni chiusi la fronte ed esclamò con ispasimo doloroso, presso che disperato:

– Ma che cosa fare? che cosa fare adunque?

Teresa, la cui anima di madre era pure torturata dal massimo affanno, le cui membra tremavano dal più alto spavento, rispose tuttavia con quella nobile rassegnazione che nella donna è forza e coraggio:

– Rimanere insieme, correre, se non altro, noi tutti la medesima sorte, e pregare la salute da Dio.

Un picchio nell'uscio ed una voce affannosa, ma sommessa, si udirono dalla stanza vicina; la voce era quella del capo-fabbrica, che chiamava il padrone per nome.

Giacomo s'affrettò ad aprire e si vide innanzi insieme con colui che aveva parlato la grossa persona di Bastiano, che rotava degli occhi terribili sotto la fascia ond'era ancora coperta la sua fronte e che stringeva con mano contratta il suo grosso randello.

Abbiamo visto come nella medesima casa in cui egli abitava colla sua famiglia, Giacomo Benda avesse assegnato un quartieretto per alloggio ad alcuni dei capi-officina, e fra questi primo il direttore degli opifizi. Per fortuna al momento in cui la turba dei sollevati era giunta alla fabbrica, tutti costoro erano in casa, e di animo comune, come era naturalissimo, riunitisi, e con essi, ci s'intende, Bastiano, avevano determinato di adoperarsi in ogni loro modo a difesa del principale e della sua famiglia. Avevano tenuto una specie di consiglio di guerra, il quale, stante l'urgenza delle circostanze, era riuscito cortissimo, ed adottato il piano del portiere, che s'era costituito generale in capo di propria autorità, ma cui nessuno aveva pure accennato di voler contestare, venivano a comunicare al principale le loro decisioni ed il loro disegno di difesa.

– Sor Giacomo: disse adunque il capo-fabbrica senza perdersi in preamboli che non erano frutta di stagione: ad assalirci sono delle centinaia; a difendere la casa, non contando lei, non siamo che cinque uomini; impossibile adunque poterli respingere, od impedire soltanto che rompano il portone.

Qui Bastiano interruppe:

– Eh! gli è ben solido e forte quel benedetto portone, e te l'ho assicurato io con certe sbarre, che non sono canapuli, alla croce di Dio! ma quando ci si mettono in tanti a fare una cosa!.. Può resistere mezz'ora, tre quarti d'ora, fors'anco un'ora, ma poi…,

– Bisogna impedire più lungamente possibile che quei forsennati arrivino fin qua: continuava il buon Ambrogio; abbiamo sbarrati ben bene tutti gli usci e la turba ancorchè penetri nella casa avrà da indugiarsi quanto meno ad abbatterli l'un dopo l'altro… Guadagnar tempo è tutto per noi, perchè non è possibile che si lascii compiere una tanta scelleraggine, e i soccorsi della forza pubblica non tarderanno ad arrivarci. – Noi poi, cinque con Bastiano, ci metteremo qui in questa camera che precede quella di sor avvocatino, e gli sciagurati non arriveranno di là che passando sui nostri corpi.

– Giuraddio! gridò Bastiano per appoggiare le parole del suo compagno, brandendo il suo bastone.

Giacomo sentì il ciglio inumidirsi di lagrime; strinse fortemente le mani dei due fedeli, e disse con voce commossa:

– Vi ringrazio, vi ringrazio… ed accetto la vostra eroica proposta… Sarò io qui con voi… E se sopravviveremo, voi sarete per me più che amici, più che fratelli…

– Ah! gli è per la fabbrica che non possiamo far nulla: disse con accento addolorato il direttore dei laboratorii.

– Che importa? disse Giacomo. Pera la fabbrica purchè si salvino i miei.

In quella un barlume di speranza venne a rallegrarli: il rumore al portone cessò di botto e tutta quella turba parve si allontanasse dalla casa. Che essa avesse rinunziato al suo proposito? Che già i soccorsi fossero giunti e la forza avesse scacciato i rivoltosi? Ah! non era nulla di tutto ciò pur troppo, e quel pericolo che pareva allontanarsi facevasi invece più pressante e maggiore che mai.

Graffigna, Marcaccio, Tanasio, Stracciaferro e il traviato Andrea (di cui la risoluzione alla trista opera era stata eccitata e mantenuta coll'aiuto dell'ebbrezza) erano a capo della banda assalitrice.

Il primo dei nominati, il quale capiva quanto fosse conveniente il far presto, s'impazientava assai nel vedere come gli sforzi di tutta quella gente, e perfino la forza erculea di Stracciaferro si spuntassero incontro alla solidità delle imposte di quel maledetto portone; si accostò a Tanasio e gli disse in un'orecchia:

– La fabbrica ha bene qualche uscita dall'altra parte?

– Sì; una porticina.

– È probabile che la sia meno forte di questo maledetto portone?

– Oibò! la è tutta rivestita e sprangata di ferro all'interno.

– E le finestre?

– Ci hanno tutte una famosa inferriata che a romperla o tagliarla ce ne vuole.

– Ecchè? Non ci sarebbe il mezzo d'introdursi per colà, qualcheduno che fosse destro ed ardito?

Tanasio fu sventuratamente illuminato da un'idea.

– Sì che c'è! Il fenile, al di sopra della rimessa, prende aria dalla parte della campagna per due buchi tondi in cui passa comodamente un uomo. Se ci fosse qualcheduno di molto agile…

– Ci sono io, disse modestamente Graffigna.

– Potrebbe, sollevato sulle spalle di alcuno alto e robusto…

– C'è Stracciaferro che è fatto apposta.

– Potrebbe arrampicarsi fin colà e penetrarvi. Dal fenile è un affar da nulla scendere nella corte.

– E per penetrare nella fabbrica?

– Le finestre verso il cortile non hanno inferriata.

– Buono! E là si potrà aprire la porticina.

– Sì, perchè io so dove il capo-fabbrica tiene la chiave nel suo gabinetto.

– Allora converrà che vi ci arrampichiamo tutti due. Siete uomo da ciò voi?

– Sì che lo sono.

– Ebbene, senza perder tempo, marche, andiamoci.

Presero seco Stracciaferro, Marcaccio e pochi altri, e destramente sgusciarono via di mezzo la folla, camminando rasente il muro verso il luogo indicato da Tanasio; in breve giunsero colà; Stracciaferro sollevò Graffigna fra le sue braccia come se fosse un bambino, e tanto lo sporse in su che questi potè arrivare colle dita l'orlo del finestruolo rotondo; coll'agilità d'un animale felino Graffigna vi s'aggrappò ed aiutato dalle mani di Stracciaferro che ne lo spingeva alle piante, strisciando, rampicandosi contro il muro quasi come una lucertola, pervenne ad entrare nel fenile. Allora fu la volta di Tanasio, al quale fu resa più facile la salita dal soccorso che anche Graffigna gli potè prestare traendolo su, prima pel colletto dell'abito, poi per le braccia. Quando i due scellerati furono nel fenile, non perdettero pure un minuto di tempo e scesero senza il menomo ostacolo nella corte, l'attraversarono correndo, e giunsero alle finestre del pian terreno di cui rompendo un vetro aprirono agevolmente quella che era più comoda per introdurvisi, ed arrivarono il loro scopo: quello cioè che cinque minuti dopo la porticina era spalancata all'invasione dei riottosi, cui Marcaccio era andato ad avvertire, e che, abbandonato perciò il portone principale, accorrevano in furia alla piccola porta posteriore.

Da ciò era provenuto che il rumore innanzi alla facciata della casa cessasse subitamente, e il pericolo agli assaliti sembrasse allontanato. Anche nella stanza del ferito s'erano acquetati i cuori palpitanti di Teresa e di Maria; e Giacomo rientrando ad unirsi con loro, le donne gli si gettarono nelle braccia rallegrantisi in quell'amplesso della miracolosamente scampata sventura. Ma non fu lunga l'illusione di quella povera gente. Da un'altra parte, men vicino, ma più cupo e più terribile ancora giunse colà il rumore del tumulto. Il padre di Francesco capì di subito, indovinò che cosa era accaduto.

– La mia fabbrica! esclamò: ah gli iniqui hanno invasa la fabbrica!

Si slanciò di nuovo nella stanza vicina, la cui finestra si apriva nel cortile; un infausto chiarore di luce rossigna lo ferì negli occhi. Vide, traverso le finestre degli opifizi illuminati, correre ed agitarsi innumere forme nere che parevano demoni intenti all'opera della distruzione, e qua e colà di sotto il tetto, lanciarsi in turbini vorticosi verso il cielo il fumo e le fiamme dell'appiccato incendio.

L'infelice sentì infrangersi il cuore.

– Infamia! Infamia! diss'egli, coi denti contratti, serrando i pugni, mentre dagli occhi gli uscivano, più che per dolore, per rabbia, amare stille di pianto. Ah! l'uomo è tristo, l'uomo è feroce, vile e scellerato. Qual padrone fu più generoso e caritatevole verso i suoi operai?.. Ecco la ricompensa che quei ribaldi me ne danno… Oh Dio ne li maledica!..

Teresa lo chiamava dalla stanza del figliuolo: quella voce lo ridusse in se stesso, gli fece sentire tutta la necessità di tornarsi in calma, di mantenere inalterata il più possibile tutta la freddezza della sua ragione. Fu capace di tale sforzo sopra sè da rendere tranquilla l'espressione della sua faccia; si premette coi pugni chiusi le occhiaie ad asciugarvi le lagrime, a ricacciare indietro quelle che volessero ancora spuntarvi, e rispose con voce ferma alla moglie:

– Vengo.

S'avviò diffatti con passo calmo e posato; ma davanti a lui vide le faccie pallide e sconvolte dei cinque uomini che gli si erano profferti ed erano accorsi lì a sua difesa. Si fermò a contemplarli un istante in silenzio; sulla sua faccia apparve una espressione di dubbio, di diffidenza, di ostile dispetto.

– Che fate voi qui? domandò egli bruscamente: che volete voi fare? Difendermi: avete detto. Mal consigliati! Perchè arrischierete la vostra vita per me e pei miei?.. Siete uomini come gli altri; siete compagni di quella gente là; dunque provvedete un po' meglio a' fatti vostri, e senza esitazione veruna fate francamente quel che l'interesse vi consiglia e ve ne dice in segreto il cuore: abbandonateci, ponetevi in salvo voi, le vostre famiglie e le vostre robe: lo potete ancora; o meglio andate a congiungervi a quella frotta di assassini che distrugge la ricchezza accumulata dal lavoro di anni e di anni d'un onesto padre di famiglia; sarete più sicuri ancora, e ci avrete anzi giovamento… potrete prendere parte anche voi al bottino…

S'arrestò perchè vide sul volto leale di quella brava gente una sì dolorosa sorpresa che, a dispetto della sua stessa commozione, della irritazione della sua rabbiosa passione, pur ne fu tocco; capì che egli faceva loro un gravissimo, immeritato oltraggio. La faccia grossolana, ma buona, di Bastiano, protestava sopratutto contro la crudele accusa.

– Ah no: ripigliò con altro accento il signor Benda, porgendo di nuovo ai suoi subordinati le due mani con atto pieno di fiducia e d'espansione: voi non siete di quelli; per voi non è un peso la riconoscenza, non è manco una tentazione l'ingratitudine.

Quegli uomini afferrarono le mani ch'egli tendeva loro e le strinsero con forza, pronunziando confusamente tutti insieme parole di devozione e d'affetto.

– Oh dite, dite: riprese Giacomo, che a quelle dimostrazioni sentì entrare in petto una specie di tenerezza: ho io meritato codesto dai miei operai?

– No, no, certo che no, mille volte no; Lei, che è il migliore fra quanti padroni sieno al mondo: esclamarono in una i capi-officina; ma c'è qualche maledetto suo nemico che ha messo su quest'infame macchinazione.

– Ah! se lo potessi cogliere questo cotale: urlò a suo modo Bastiano, brandendo l'inseparabile suo randello.

 

Lo scoppio di voce del brav'uomo fece accorrere dalla stanza vicina Teresa vieppiù inquieta.

– Che cos'è? domandò essa aprendo il battente dell'uscio.

Ma nessuno ebbe tempo di farle una risposta. La funesta luce dell'incendio con rapidità spaventosa sviluppatosi le percosse gli occhi traverso i vetri della finestra. In fondo al cortile gli opificii ardevano oramai compiutamente. Era uno spettacolo di terribile, spaventosa bellezza. Le fiamme uscivano violente da ogni apertura, si strisciavano su per le pareti, lambivano il cornicione del fabbricato, cominciavano a mordere i capi dei travi del tetto, vi si appiccavano qua e colà, di passaggio soltanto dapprima, per divampare ed estinguersi, per isparire e tornare, come folletti aleggianti con bizzarro capriccio, che si conchiudeva poi in uno stabile dominio cui allargandosi prendeva l'incendio. Tratto tratto, come se qualcheduno si compiacesse a gettare in quel vasto focolare, che oramai occupava tutto il piano terreno, qualche ammasso di materie più infiammabili o di limature di ferro, le fiamme divampavano più brillanti e maggiori, od una colonna densa di scintilluccie accese, vivacissime, danzanti irrequiete, schioppettanti per l'aria, come un fuoco artificiale, si sollevava verso il cielo, illuminando d'un color di sangue tutte le cose circostanti, e la casa e le rimesse e le scuderie e i magazzini e la neve del cortile. Già s'udiva il rumore speciale dell'incendio, il crepitar delle fiamme, lo scroscio dei materiali che cadevano, e in mezzo a tutto questo gli urli efferati di quella turba di barbari e di iniqui. Le mogli e i bambini dei capioperai che abitavano il piano superiore della casa strillavano disperatamente.

– Gran Dio! Madonna Santa! esclamò Teresa a quella vista. Il fuoco! Siamo tutti persi.

Francesco dal suo letto udì queste tremende parole della madre. Per quanta impressione fosse la sua, lo sforzo fatto poco prima lo aveva talmente prostrato ch'egli non potè altro più che agitare sui cuscini la sua testa dolorante.

– Il fuoco, diss'egli con appena un soffio di voce sulle aride labbra: il fuoco! Ed io non posso far nulla nè per altri, nè per me! O mio Dio! O mio Dio!

Padre e madre accorsero presso di lui. A Giacomo la necessità di attenuare il pericolo alla mente del figliuolo, l'aver trovato delle anime devote e fedeli in que' cinque uomini che si consecravano anima e corpo alla loro difesa, avevano restituita tutta la sua primiera energia; si accostò al giacente la faccia sicura e parlò con voce tranquilla:

– È alla fabbrica che ne volevano quei scellerati; l'hanno invasa e vi appiccarono il fuoco. Ciò vuol dire che ora, contenti di sì bella impresa, noi ci lascieranno tranquilli… Quanto al danno della fabbrica gli è nulla, perchè quella benedetta assicurazione contro gl'incendi a cui siamo associati ci compenserà d'ogni cosa.

La sua tranquillità così ben simulata, riuscì a calmare alquanto l'ansia e lo spavento degli altri.

– Ma, disse ancora Francesco, guardando attentamente negli occhi suo padre; l'incendio non può egli avvolgerci nelle sue spire e consumarci prima che i soccorsi sieno giunti?

– Oibò: rispose con fermo viso il padre. Esso è nel centro degli opifizi; per fortuna non c'è buffo d'aria che spiri, e prima che arrivi a comunicarsi ai fabbricati laterali, da cui potrebbe poi arrivare sino a noi, ce ne vuole. D'altronde quella mano di scellerati non tarderà a fuggire essa stessa innanzi alle fiamme da lei suscitate, e potremo noi medesimi per mano alle nostre trombe idrauliche e in brev'ora, anche senza soccorsi, spegnere l'incendio.

Ma la sicurezza e le lusinghiere speranze, cui manifestava, Giacomo era ben lontano dall'avere realmente in cuor suo. Egli, con fondamento pur troppo, temeva che le fiamme, già così potenti fin da principio per essere stato il fuoco appiccato in più luoghi, non tardassero ad appigliarsi ai corpi di casa che fiancheggiavano il cortile, dove avrebbero trovato una troppa e funesta esca nel fieno e nella paglia che vi stavano in abbondanza raccolti; era men vero che non soffiasse aria in quell'ora, chè anzi un vivace e frizzante vento del nord curvava le fiamme nella direzione appunto della casa, le flagellava ed agitava a farle più impetuose e più vive; dell'usare le trombe idrauliche non era pur da pensarci, chè la presenza dei saccheggiatori noi consentiva a niun modo, e che questi si sarebbero ritratti abbastanza per tempo da lasciar agio agli abitanti di provvedere a tal bisogna non aveva egli pure la menoma speranza. E poi, fosse anche ciò avvenuto, che avrebbe provato l'opera di sei uomini contro la terribile potenza d'un incendio di tali proporzioni? E nemmanco era sincera in lui l'opinione cui Giacomo aveva con tanta sicurezza espressa, che i rivoltosi, contenti di porre a fuoco ed a ruba la fabbrica, non avrebbero nulla più tentato contro la famiglia del principale e rispettatone l'abitazione; ben sapeva come l'uomo, una volta avviato giù per la china del male, precipiti per essa con moto accelerato fino a tal grado che non avrebbe mai sognato dapprima, e che tanto più ciò avviene delle masse di plebe, le quali, uscite dall'ordine, niuno può dire a qual eccesso nel tumulto non sieno per arrivare.

E le sue paure avevano diffatti ragione, e compiutamente; perchè il fuoco incitato dalla brezza si piegava verso l'abitazione, e già guadagnava lentamente le travature dei letti degli edifizi laterali; e, camminando più frettolosamente dell'incendio, una frotta d'uomini dalle faccie malvagie, dall'aspetto spaventoso, anneriti dal fumo il volto e le mani, gli occhi ardenti dalla cupidigia, dall'ardore della ferocia, dalla passione del delitto, s'avviavano verso l'abitazione della famiglia Benda guidati dal rosso chiarore dell'incendio che rifletteva la sua luce spaventosa sulle pareti e sui cristalli delle finestre della casa. In questo gruppo di sciagurati erano primi, s'intende, Graffigna, Stracciaferro, Marcaccio, Tanasio, e il misero Andrea, che ubbriaco fradicio, il cervello vieppiù eccitato da quello spettacolo, dal calore dell'incendio, dal fragore, dallo schiamazzo degli urli, da quel parosismo di furore, ond'era stata invasa quella turba scatenata, veniva ripetendo con crescente violenza:

– Ah ah! il sig. Benda non mi ha più voluto accogliere nella sua fabbrica. Mi ha mandato a crepar di fame. Sta bene; ora l'aggiusto io, la sua fabbrica e lui!

Appena penetrati nelle officine col mezzo che abbiam visto, mentre la folla degli operai si dava a guastare vandalicamente macchine, attrezzi e locali, quelli fra gl'invasori che appartenevano alla cocca, duce ed ispiratore Graffigna, si affrettavano al luogo dove per mezzo di Tanasio sapevano essere la cassa, e coi più acconci stromenti che loro forniva la stessa officina, giovandosi della forza straordinaria di Stracciaferro, in poco di tempo l'ebbero infranta e s'impadronirono di quanto conteneva. La forza di quel Sansone da galera, alla cui opera si doveva un così sollecito risultamento, venne ancora adoperata dal furbo Graffigna, che era l'intelligenza la quale metteva in giuoco quella macchina potente di carne ed ossa, affine d'impedire lo sperpero del bottino, ed evitare i guai che furono sul punto di nascere per la distribuzione del medesimo. Appena vista la preda, tutti quegli uomini si erano lanciati avidamente colle mani fatte ad artiglio per arraffarne la maggior parte che potessero; ma Graffigna, ponendo innanzi Stracciaferro, aveva gridato l'alto là colla sua voce fessa e sottile, che in quel momento solenne aveva trovata tanta forza da farsi udire distintamente in mezzo a quel fracasso indemoniato che aveva luogo tutt'intorno.

– Che nessuno tocchi, aveva gridato, che nessuno si serva, giuraddio! Si faranno le parti secondo regola e giustizia a cose finite; e il primo che avanza una mano, il mio buon amico Stracciaferro è incaricato di rompergli il grugno.