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La plebe, parte III

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CAPITOLO XV

Fra le più belle e splendide cose onde s'adorna l'immensità della creazione divina, va delle prime e delle più care un puro amore in cuore di vergine. Sovr'esso deve con ineffabile compiacenza rivolgersi lo sguardo stesso di Dio; è il più dolcemente sublime degli affetti concessi alla natura umana; è il più prezioso fiore dell'ideale che sboccia nella fervida primavera della vita; è l'astro di più mite luce che allieti l'orizzonte delle passioni terrene; è uno scampolo delle tenerezze celesti onde hanno gioia le angeliche esistenze, lasciato, a memoria forse, a preavviso, ad argomento delle nostre sorti superiori, in questa corporea transizione della vita immortale dell'anima. Il cuore della vergine è il mistico fiore, e n'è l'amore il soavissimo profumo: è un'arpa dalle corde d'oro, e l'angiolo del puro affetto ne suscita la divina armonia.

Quest'armonia e questo profumo aleggiavano più eletti, più sublimi che mai intorno al cuore di Virginia di Castelletto.

La nobile e leggiadra figura di questa ragazza, appena è se l'abbiamo veduta finora attraversare come una luminosa apparizione le tenebrose e complicate vicende del nostro racconto che si esplicano traverso tutti gli strati sociali: tempo è che c'indugiamo alquanto intorno ad essa, la virtù e la grazia personificate, la quale con pochi compagni sta nella schiera dei nostri personaggi a rappresentare quella parte di eccelso e di divino che Dio volle concessa e frammista alle bassezze ed alle turpitudini della natura umana.

In mezzo alle grandezze ed agli splendori della sua condizione, Virginia non poteva dirsi essere stata fino allora felice, e alla sua leggiadra fronte non era sconosciuta la mestizia e sul suo leggiadrissimo labbro non era frequente il sorriso. Le era toccata una delle peggiori disgrazie che possano capitare in sui primi passi della vita. Orbata in età affatto infantile di ambidue i genitori, non aveva conosciuta mai la soavità delle carezze materne. Bene ricordava ella con ineffabile, intima tenerezza d'una leggiadra figura di donna che appassionatamente la stringeva bambina al suo seno, che la baciava con caldi baci e mormorando soavi parole ch'ella non aveva capito, di cui ella non ricordava manco una, ma delle quali pure il suono le era stato impresso come una dolce melodia nell'anima; ed impressi del paro erano stati in lei gli sguardi lunghi, amorosi, carezzevoli degli occhi miti, benigni ma sempre melanconici di quella donna; tanto melanconici che Virginia si ricordava come non di rado si stemprassero in pianto. Le avevano detto – glie lo dicevano tuttavia – che quella donna era stata sua madre; essa ciò sentiva in se medesima ed adorava quella memoria divotamente raccolta in cuor suo, come un segreto Dio in un segreto santuario. Poco diverso da ciò che avveniva a Maurilio (il quale però non aveva ricordo alcuno d'averla vista pur mai) il pensiero di sua madre rimaneva di continuo nella mente di Virginia, e intorno all'anima sua quasi sentiva ella incessante un influsso, un effluvio dell'anima della madre. Ma questo pensiero d'una morta aveva dato una gravità singolare alla giovinezza della sensitiva fanciulla, aveva circondata d'una nube di tristezza l'espansione dell'affetto in quell'anima ad ogni nobile sentimento dischiusa.

Talvolta, per fare in se stessa più concreta e precisa l'immagine della madre, ella si fermava a contemplarne il ritratto che pendeva nella sua camera in faccia al suo letto, e stava lungo tempo a scrutarne le dipinte fattezze, a tenere fissi i suoi vivi negli occhi immobili raffigurati in quella tela; ma la sua memoria, le sue intime permanenti impressioni contrastavano con quella realtà dipinta. Questa le rappresentava una giovine donna nello sfoggio della bellezza e dell'abbigliamento, il fior della salute nello incarnatino delle guancie, l'allegria festosa della gioventù negli occhi e nel sorriso; e invece l'immagine che Virginia adorava nel suo cuore era di donna sofferente e smunta nelle pallide guancie, d'una beltà fatta severa, ma forse anco maggiore, dallo stampo d'una profonda irrimediabile mestizia.

Ed era infatti così. Sopra la cuna di questa fanciulla nata in mezzo al fasto, alle ricchezze, ad ogni prestigio di titoli e di onori, si era incurvato il più vivo ed immenso dolore che animo di donna abbia potuto sopportar mai, tanto vivo, tanto grande che in vero la pover'anima che n'era stata oppressa aveva condotta ad immaturo uscir della vita terrena.

Lo zio di Virginia, accolta presso sè l'orfana fanciulla, avevala circondata non che di tutto l'amore, ma di tutta la tenerezza ond'era capace la sua anima d'uomo: ma quale eziandio fra le donne può sostituire una madre? Meno acconcia del marchese a codesto era ancora la zia, essere superbo, di arido cuore, la natia bontà (se pur c'era) guasta e soffocata da stupidi orgogli e da ostinati pregiudizi di casta. Virginia in presenza di questa donna sentiva la sua anima chiudersi ed una specie di gelo circondarla: quelle due creature troppo diverse stavano a contatto, ma non poteva aver luogo fra loro nessuna vera comunicazione; si parlavano, ma non erano fatte per intendersi.

Tutto ciò fece che Virginia, quando per le altre giovanette corre il tempo della maggiore espansione di quell'intimo essere che si viene svolgendo ed affermando, del pari che si viene formando il suo corporeo involucro, dovette invece recarsi sopra se stessa, racchiudere nel suo segreto e dibattere seco stessa le nuove impressioni della vita, affrontare colla sola sua ragione i problemi che già le si accennavano della sua esistenza di donna. Dalla mestizia del dolore materno pareva ella già aver ereditato la riflessiva gravità del suo riserbo temperata da seducentissima gentilezza; codesto suo concentrarsi di volontà, di sentimenti, di riflessioni e di affetti conferì a rafforzarne insieme la tempra dell'animo ed a dare alla sua giovinezza appena incominciata una inattesa maturanza.

Della storia di sua madre i congiunti non le avevano parlato mai; ed ella aveva trovato sempre nello zio, ogniqualvolta aveva tentato interrogarnelo, una risposta evasiva così fredda e improntata di tanta ripugnanza, che aveva perso affatto il coraggio di ritornare all'assalto; ma pur tuttavia, senza conoscerne alcun particolare (e pochi erano che conoscessero quella dolorosa storia, la famiglia Baldissero avendola gelosamente sottratta alla curiosità della gente) ella, per qualche lieve parola sorpresa, quasi direi per un segreto impulso di istinto figliale, per un'ispirazione che altri potrebbe chiamare seconda vista, aveva indovinato che quella di sua madre era la storia d'un infelice amore.

Amore! Questa parola, il cui senso racchiude un mondo, fu d'allora in poi quella intorno alla quale più si travagliassero nel segreto meditare la ragione, l'immaginativa e la riflessione insieme della virtuosa giovane. Del mondo aveva ella visto poco, ma aveva letto di molto e meditato più assai. La sua intelligenza più elevata, il suo cuore più ricco che non avvenga alla comune, erano fatti per comprendere ogni grandezza e quella tanto più dei nobili affetti. Il suo istinto muliebre, purificato, nobilitato, direi, dal sano ambiente della sua anima eletta, si converse in quello che il nostro maggior poeta chiama «intelletto d'amore» e ne fa una dote essenzialmente donnesca. Tutto l'esser suo era invasato d'amore, prima assai che a farlo concreto, a dargli corpo e sostanza sorgesse sull'orizzonte della sua anima l'immagine d'un uomo; il suo amore abbracciava tutto il creato, a lei ne parlava tutto l'universo; il Dio le si faceva sentire in un panteismo indefinito, prima che prendesse persona e s'affermasse nell'esclusivo affetto d'un solo.

Questo solo era stato Francesco Benda. Perchè lo aveva essa amato? Perchè alla sua anima avevano parlato il linguaggio delle più dolci cose e dei più nobili affetti le meste e gentili melodie del giovane compositore di musica, perchè le sembianze di lui avevano ai suoi occhi effettuato quell'ideale d'essere umano che nella fantasia ella era venutasi rappresentando come espressione della superiorità intellettiva, della bellezza morale e fisica dell'uomo. Non combattè la simpatia potente che volgeva la sua verso l'anima di lui; non contrastò a quell'influsso magnetico che attraeva i suoi occhi verso gli occhi di lui pieni d'adorazione, sulla fronte di lui sulla quale pareva risplendere insieme colla bellezza la sincerità e l'onore; non lottò contro quell'amore onde si sentì penetrare, e di subito, e tutta, e con autorità, quasi direi con violenza dolcissima: lo accettò come un naturalissimo e necessario risultamento dello svolgersi della sua personalità: amò santamente, di quel casto amor verginale onde sorridono lieti ed ammiranti gli angioli stessi del cielo.

Ella, fornita d'un nome illustre, appartenente ad una famiglia del più puro e superbo patriziato, con entro le vene il sangue più aristocratico che vantar si potesse, non pensò neppure che il giovane, la cui vista aveva parlato al suo cuore, non aveva al nome onoratissimo congiunto un titolo trasmessogli da parecchie generazioni di avi; ch'egli apparteneva ad una classe che i suoi, ed ella stessa allevata in quell'ambiente, erano avvezzi a considerare come inferiore. A dispetto dei pregiudizi della sua casta, a dispetto della educazione ch'ella aveva ricevuta al Sacro Cuore, fatta apposta per ribadire gli errori delle superbie aristocratiche, Virginia aveva pure in sè, naturalmente, un più giusto concetto della vera nobiltà, da vedere quest'essa nei meriti dell'ingegno, nel valore della persona, oltre che nella sonorità d'un titolo dato ciecamente alcuna volta dall'azzardo della nascita. Il vero è ch'ella a di codeste considerazioni non si fermò neppure; nè forse ci avrebbe pensato di poi, se un discorso avvenuto un dì fra sua zia e suo cugino Ettore non avesse rivolta la sua attenzione su cotale argomento.

 

Si era nel salotto, dopo il pranzo, prendendo il caffè. Il marchese padre sedeva al suo solito posto sulla poltrona presso il camino; la marchesa gli stava di faccia, impettita orgogliosamente nella sua orgogliosa positura immutabile; Ettore si consolava della privazione di fumare impostagli nel salotto dal severo divieto paterno, rotolando voluttuosamente colle dita un pizzico di foglie di Latachia in un pezzetto di carta senza gomma, per farne un sigaretto; Virginia seduta ad una tavola su cui una lampada accesa, sfogliava un album elegante con mano sbadata, e ne guardava con occhio distratto le immagini.

– Ha Ella sentita la novità? cominciò Ettore: la figliuola del marchese R… sposa il conte B…

La zia di Virginia fece un'alzata di testa d'una espressione superbamente sprezzosa.

– Conte, conte, diss'ella: bel conte ma foi! Suo padre faceva l'avvocato o il procuratore, o qualche cosa di simile.

– Era dapprima avvocato patrocinante, si fece immensamente ricco…

La marchesa crollò il capo.

– Eh! si sa che bei modi ci hanno questa brava gente.

– Allora volle se désencanailler, passò nella magistratura, pervenne per non so qual cammino alla toga rossa da senatore, costituì un maggiorasco ed ottenne dal Re il titolo di conte.

La marchesa mandò un sospiro.

– Carlo Felice non ne faceva di queste… Mi stupisce che il marchese R… si sia lasciato éblouir dalle ricchezze di questo parvenu e gli dia la sua figliuola.

– Sicuro! Ella ha ragione, mamma. Il torto è nostro di accettare come di nostra razza questi intrusi della borghesia.

– Ah mon Dieu! esclamò la marchesa con tono di desolazione e di sdegno; de mon temps non succedeva così. Prima di quel fatale ventuno, quando tanti dei nostri hanno smarrito il senno, dopo tornati i nostri Principi, e la società si era riordinata sulle sue vere basi e dietro i buoni principii, la nobiltà non avrebbe lasciato se fourrer parmi elle il primo venuto, per la ragione che avesse dei denari. Fi donc!… Quanto a me, amerei meglio qualunque cosa che una mésalliance nella nostra famiglia; e se avessi una figliuola la vorrei monaca piuttosto che vederla degradarsi con un matrimonio indegno di lei e di noi… Non è questo pure il vostro avviso, marchese?

Questi, che pareva ascoltare siffatto discorso con una certa mala voglia, fece pur tuttavia un cenno affermativo colla testa, senza disserrare le labbra.

La madre di Ettore continuava ridrizzando con mossa ancora più orgogliosa la sua persona imponente:

– Ah! i Baldissero non sono tolleranti su questo argomento; il mio suocero sopratutto, il nobile mio suocero n'entendait pas raillerie su quel proposito lì; e la storia di vostra sorella Aurora, marchese…

Il marito la interruppe con una vivacità che non gli era abituale e con un'espressione di malcontento, qual egli raramente lasciava scorgere:

– Vi ho già pregata parecchie volte, marchesa, di non parlarmi di codesto mai più.

Successe un silenzio impaccioso: la marchesa prese un parafuoco sulla pietra del camino e si mise a giuocare con esso, in aspetto per metà corrucciato; Ettore seguitava ad avvolgere fra le dita il suo sigaretto; Virginia che aveva prestato a questo dialogo una sollecita attenzione, all'udire il nome di sua madre, alzò dalle pagine dell'album i suoi grandi, puri e limpidi occhi e li volse sulla zia dapprima, sullo zio di poi, curiosi, ansiosi, interrogativi, e quindi li chinò lentamente di bel nuovo sopra i dipinti di quell'album ch'ella guardava senza vedere.

Tacque ancor essa; ma una folla di pensieri le aveva invasa la mente. Pensò della propria sorte, pensò di quella di sua madre: capì a quel punto che fra quei due destini c'era una certa rassomiglianza. Con più forte impulso le venne alle labbra la domanda che già tante volte le era venuta instantemente e ch'ella avea ricacciata addietro pur sempre: – »Qual è questa storia di mia madre? Debbo conoscerla ancor io una volta!» Ma vide nel sembiante dello zio che quello era momento più inopportuno che mai, e represse le imprudenti parole. Per un istante non s'udì altro nel salotto che il fruscio dei fogli che la mano di Virginia voltava macchinalmente, e il rumore del parafuoco con cui la marchesa batteva dei piccoli colpi sul bracciuolo della sua poltrona.

Dopo un poco Virginia chiuse il suo album, si alzò ed attraversato lentamente il salotto ne uscì per ridursi nella sua camera. Aveva bisogno di esser sola affine di poter liberamente divisar seco stessa i tanti e sì varii suoi pensamenti. Non crediate già ch'ella disapprovasse le idee della zia e si attentasse pure a ribellarsi seco stessa contro la condanna così assolutamente data dalla marchesa di Baldissero, di ciò ch'ella chiamava una mésalliance; allevata in quel modo con cui si allevavano – e si allevano tuttavia – i figliuoli della nobiltà piemontese, ella, non ostante la superiorità della sua natura, non poteva a meno di attribuire ancor essa un valore di sostanza alla vanità delle distinzioni di casta; capiva che al suo matrimonio con un borghese la sua famiglia non avrebbe acconsentito, e non le dava torto, ed era così pronta a rassegnarsi, per quanto grande fosse il suo dolore, che, se anco per impossibile supposizione, i suoi l'avessero lasciata libera di fare a suo senno, ella non avrebbe osato stringer quel nodo. Il suo errore era stato di non aver pensato a ciò fin allora. L'amore l'aveva presa alla sprovveduta; o per dir più giusto l'amore l'aveva assalita con arma sì potente che quand'anche ella fosse stata in sull'avviso per opporgli subito, anche a tutta prima, l'insuperabile ostacolo di quella differenza di condizioni a cui non c'era rimedio, l'avrebbe vinta pur tuttavia. Uno sterminato, inesprimibile dolore la prese. Erale piombata addosso la certezza che l'amor suo non avrebbe corona di felice successo giammai! Pure non si propose tuttavia di combatterlo nel suo seno, di scancellarlo dal suo cuore; sentì che ciò era impossibile, lo credette anzi un delitto; si giurò di nasconderlo a tutti, ed a chi n'era l'oggetto il primo; ma sarebbe morta con quell'amore, con quel puro, quel santo, quell'unico amore nell'anima. Di lui ella non avrebbe potuto esser mai; e non sarebbe stata d'altri neppure. Le tornarono alla mente le parole della zia di poc'anzi, come una sua figlia piuttosto vorrebbe veder monaca che degradata in simil matrimonio; ebbene quella sarebbe la sua sorte: di nessun uomo a questo mondo; avrebbe ella seppellito nella pace di un chiostro il segreto del suo cuore.

Sua madre, pensava allora Virginia, aveva dovuto passare per le medesime angoscie, provare quei medesimi sentimenti. Ella si diceva che all'anima di sua madre doveva rassomigliare l'anima che soffriva in lei: che perciò come la stessa fase recata dagli avvenimenti, quell'anima santa e venerata aveva dovuto avere le medesime risoluzioni. Ma pure Aurora di Baldissero aveva data la mano di poi ad uno della sua casta, ad un amico di suo fratello, il conte di Castelletto, che era stato padre di lei, Virginia. Oh certo non aveva ciò fatto Aurora di sua libera scelta. Virginia aveva abbastanza inteso del carattere fiero e violento, della volontà ferma ed incrollabile dell'avolo per poter arguire che la misera Aurora, anche con un altro amore nel seno, avesse dovuto sottostare al comando di suo padre che le imponeva quel maritaggio. Quanto la ne avesse sofferto, lo diceva alla figliuola il ricordo che serbava tuttavia di quella pallida, smunta, addolorata figura che aveva veduto curvarsi e piangere sopra la sua culla, glie l'affermava la morte immatura che all'infelice aveva recata forse l'incomportabile martirio.

Ma di sè, Virginia si affermava con risolutezza che nessuno l'avrebbe potuta forzare a tanto sacrifizio; ella non aveva più il padre che colla possa della sua autorità valesse a costringervela; chi quest'autorità verso di lei rappresentava era lo zio, il quale troppo era amorevole per volerla a forza piegare a cosa che a lei recasse l'infelicità di tutta la sua vita, al quale, se mai codesto volesse tentare, ella avrebbe pure avuto il diritto e si sentiva il coraggio di resistere.

Come per distrarre i suoi pensieri. Virginia andò a sedersi al suo gravicembalo, e le mani agili e delicate corsero rapidamente sui tasti. Cominciò ella per alcuni accordi gravi e pieni di mestizia; poi di mezzo a questi ecco sorgere una dolce, dolce melodia espressa con affetto infinito, la quale pareva gemere e palpitare soavemente sulle corde commosse; era il canto della romanza di Francesco, il Crepuscolo. Questa dolcezza di suono parve dare una maggior tenerezza all'emozione dell'anima della fanciulla. Le sembrò che per essa lo spirito di Francesco parlasse direttamente al suo spirito, e le parlasse dell'amor suo, di quell'amore ch'ella aveva letto negli sguardi del giovane, e glie ne parlasse non col volgare linguaggio dell'eloquio umano, ma con quello sovraterreno, eccelso, purissimo delle incorporee intelligenze. E in questo angelico linguaggio ella credeva sentirsi a dire: «Noi saremo su questa terra divisi; ma oltre questo soggiorno di prove e di miserie avremo una splendida vita immortale di luce e d'amore nell'eterno azzurro della beatitudine infinita. Colà, dove non disgiunge più le anime sorelle barriera nessuna di umane istituzioni, potremo liberi assembrarci e confonderci nella suprema gioia d'un palpito comune in un santo legame indissolubile.»

Un immenso desiderio di questo sognato avvenire, una potente aspirazione a quella splendida, vagheggiata meraviglia d'ideale prese l'anima della fanciulla innamorata; le sue mani quasi inavvertitamente dalla melodia della romanza di Francesco passarono ad esprimere con inarrivabil potenza di passione quella sì dolce nella sua mestizia, così piena di sentimento nel vago delle sue note, così palpitante nel suo ritmo d'ogni tenero affetto, la quale va conosciuta sotto il nome di Dernière pensée de Weber. Era quella composizione musicale una delle predilette di Virginia. In essa trovavano in parte espressione e sfogo i tanti, indefiniti, inesprimibili a parole, complessi affetti e sentimenti dell'anima sua; per essa si elevavano al mondo superiore, al regno dell'ideale, al cielo, più dolci, più illuminate da un raggio di speranza, più consolate direi quasi le aspirazioni del suo cuore.

Ella ripetè parecchie volte al suo spirito la carezza di quelle melodiche frasi; e le parve che ne venisse circondata come da un più tepido ambiente soavissimo. La tenerezza dell'anima le inumidì un istante le ciglia; mentre sotto le sue dita che si muovevano ora lente, quasi stanche, moriva la melodia come un'eco lontana che si estingue con ultime leggere vibrazioni nell'aria, due lagrime le colavano giù silenziose per le belle guancie; ma due lagrime sole! Aveva ella troppo nobile orgoglio per concedersi, anche in faccia a sè stessa solamente, la debolezza del pianto: si asciugò bruscamente il viso, s'alzò risoluta, e colla sua faccia calma e serena tornò nel salotto. Nessuno avrebbe potuto indovinare in lei la crisi a cui era stata in preda l'anima sua.

Il contegno di Virginia verso Francesco non mutò dopo questo in nessun modo: la stessa graziosa urbanità che dinotava la stima, che non escludeva la simpatia, ma che non lasciava sperare, fuorchè forse ad un fatuo impertinente, nessun più prezioso sentimento. Ma talvolta, pur tuttavia, tradivano il segreto della ragazza gli sguardi suoi. Ella bene si riprometteva, quando avesse da incontrarsi in Francesco, di non fare a lui più attenzione che alla massa degl'indifferenti il meno del mondo: ma lo era questa una promessa più facile a farsi che a mantenersi. Per un misterioso istinto, di cui non si meraviglieranno tutti quelli che hanno amato, ella presentiva fin dapprima, dove, come e quando egli sarebbe comparso agli occhi suoi; e non vi stupirò di certo dicendovi che con assai più svogliatezza Virginia si recava in que' luoghi dove sapeva ch'egli non si sarebbe trovato. Non di rado ella aveva voluto mancare a quelle concorrenze dov'era certa che Francesco interverrebbe, ma pure non glie ne era bastata la forza. Perchè negarsi il solo bene che dall'amor suo potesse attingere: quello di vederlo? Di questo poco bene aveva bisogno l'anima sua. Tanto e tanto l'immagine di lui stava senza cessa presente al suo pensiero: e quella veduta immaginaria ne accresceva il desio come inasprisce la sete all'assetato il pensiero delle limpide sorgenti a cui non può accostare le labbra. Entrando in un luogo qualunque, ella sentiva tosto s'egli vi era o no, e se sì in qual punto preciso si trovasse; quando sopraggiungeva, senza volgersi a guardare, ella lo avvertiva, e tosto che gli azzurri occhi di Francesco erano fissati su di lei, Virginia sentiva penetrare in sè il loro sguardo come un caldo raggio. Allora non sempre poteva ella resistere all'intimo impulso del cuore; conveniva che di mezzo alle lunghe finissime ciglia, anche i suoi occhi saettassero a quella volta uno sguardo: le loro occhiate s'incontravano come due correnti elettriche e suscitavano un scintillio che vagamente illuminava di gioia e di amore i lor giovanili sembianti: era un ratto momento, ma era un momento di supremo diletto che arrestava il palpito del loro cuore, che sospendeva nel loro petto il respiro, che apriva alla loro mente con un fugace sbarbaglio tutto un paradiso di tenerezze ineffabili.

 

Dove si vedevano più sovente i due giovani si era al teatro; colà stesso dove il povero Maurilio accorreva per ammirare, nascosto umilmente dietro un pilastro del loggione, ignorato e palpitante, la divina bellezza di quella nobile ragazza, colà Virginia e Francesco scambiavano sguardi che erano nuovi e carissimi nodi al legame che avvinceva le anime loro. Egli sedeva abitualmente in una poltrona riservata di platea, e i suoi sguardi non avevano attenzione allo spettacolo della scena, nè al resto degli spettatori, ma soltanto per quel palchetto, dove appariva così modestamente sicura, così mite nella sua superba dignità, così leggiadra nel buon gusto del suo abbigliamento la giovane madamigella di Castelletto, alla quale Francesco volgeva, con quella frequenza che la convenienza permettesse, il suo omaggio di ammirazione, colle lucide lenti del suo cannocchiale. Quelle sere ambedue, partendosi dal teatro dove nella musica avevano sentito quasi confondersi gli spiriti loro, portavano seco un tesoro di segreti, inesprimibili affetti onde fatta era beata l'anima amante.

Povero Maurilio! Anch'egli, il più delle volte, in quelle sere medesime, rubandone i mezzi al suo scarso alimento, aveva comperato colla polizza d'entrata al loggione, il diritto di palpitare contemplando le belle sembianze della fanciulla adorata; anch'egli, quando il canto dell'opera fremeva in una melodia d'amore, e sopra il susurrio degli spettatori disattenti e chiacchieranti mandava sino a lui un'onda di passione, anch'egli sentiva tutto l'esser suo volare, precipitarsi con impeto ardentissimo, con tutta la forza d'una potentissima attrazione, verso l'anima di quella creatura di sublime bellezza, e volerla circondare in un abbraccio ideale del caldo effluvio dell'infuocato amor suo: di quell'amore, di cui ella ignorava ed avrebbe ignorato pur sempre fin l'esistenza!

Nel ballo in casa la sua amica la baronessa X, Virginia sapeva che avrebbe incontrato Francesco, e ciò desiderava ella quella sera più ch'ogni altra volta, perchè nella generosa bontà e giustizia dell'anima sua sentiva tutta, la gravità del torto che verso il giovane avvocato aveva il cugino Ettore, e parevale essere suo dovere eziandio di compensare alquanto l'oltraggiato con alcun suo maggior riguardo, con una parola più benevola, non fosse che con un atto, e perchè, inoltre, dopo ciò che era intravvenuto quel giorno, dopo i pericoli corsi dal giovane e le segrete ansietà ch'ella ne aveva provate, il bisogno di vederlo erasi nell'innamorata fanciulla notevolmente accresciuto.

Quando Virginia entrò nelle sale eleganti della baronessa e la sua beltà ci venne accolta dalla stipata folla degli invitati col più lusinghiero mormorio d'ammirazione, benchè il suo volto non esprimesse che la solita calma dignità ond'era per nuovo pregio adorna la sua tanta avvenenza, il cuore pur tuttavia le batteva più concitato. Quel presentimento ond'io parlai, le annunziava che quella sera sarebbe stata un avvenimento importantissimo nella storia dell'amor suo, e, senza saper menomamente quale, ella era persuasa che fra lei e Francesco qualche vicenda aveva da succedere, di cui gravi gli effetti nella loro sorte avvenire. Quel che decidesse il destino ella non voleva affrettare camminandogli incontro, ma non pensava neppure dovere sfuggire; aspettava gli eventi con animo franco, sicuro, valorosamente disposto alla sincerità come alla forza di adempir tutto ciò che credeva dover suo.

La prima persona ch'ella vide nel gran salone, in quel gran chiarore abbagliante che piovevano le mille facelle delle lumiere, fu la bella figura di Francesco Benda. Discorreva egli colla padrona di casa in una rispettosa famigliarità: il suo contegno era modesto con una sicurezza piena di cortesia, indizio d'un valor personale che non si ostenta, ma si conosce; quale si addice a chi non ha la superbia d'essere superiore altrui, ma sa che non è inferiore per animo a nessuno; egli portava con disinvolta semplicità il peso dell'avventura della giornata di cui era stato l'eroe, ed affrontava senza sfida come senza debolezza la curiosità susurrona della gente; si presentava coll'aspetto d'un uomo che in ogni caso voleva ed avrebbe saputo farsi rispettare.

Come Virginia tostamente vide lui, ed egli, al primo entrare della fanciulla, sentì la sua presenza e volse gli occhi a quella parte dove nello sfoggio meraviglioso della sua bellezza, ella si avanzava, come Dea dell'Olimpo circondata da un'aureola di luce. Non fu egli tanto padrone di sè che un leggier sussulto non gli scuotesse le membra, e un subito rossore non gli corresse alle guancie: ma chi ebbe a notare codesto potè supporre ne fosse cagione in lui la vista del suo nemico, il marchesino Ettore, il quale insieme col padre, colla madre e colla cugina si avanzava a quella volta, un sorriso un po' forzato sulle labbra, un'ironia contenuta nello sguardo.

La baronessa X, appena ebbe veduto fa famiglia di Baldissero, lasciò lì Francesco e le mosse all'incontro colle mostre della maggiore affettuosità.