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La plebe, parte III

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– Oh sì, oh sì: interruppe con vivacità Giacomo. Non ha bisogno di dirmelo, la creda! Io sono sempre stato un suddito fedele e devoto di S. M., e me ne vanto; ma d'ora innanzi poi!.. Cospetto! Non sarà a Giacomo Benda che si potrà parlar male del governo del Re.

Il marchese sorrise di quello zelo.

– Va benissimo, diss'egli: ma quanto a noi, signor Benda, io non ho ancora compito tutte le promesse che le feci questa mattina. Le ho detto che a suo figlio, il mio ed io stesso avremmo data una onorevole riparazione, esclusa quella assurda del duello.

– Ah, sì signore… sì Eccellenza… escludiamo questa brutta cosa.

– Che direbbe Ella se al signor avvocato Benda, in presenza di tutto quanto vi ha di più nobile e di più scelto nella società Torinese, io marchese di Baldissero e mio figlio il conte Ettore andassimo a porger la mano come ad uomo che non solo si stima e si apprezza, ma si ritiene e si vuole per amico? Non le parrebbe questa una sufficiente riparazione?

– Signor sì! signor sì! Esclamò l'industriale commosso. E le ripeto ciò che le dissi questa mattina, signor marchese, Eccellenza… che la sia benedetta!..

Il marchese con un cenno della mano pose freno a quell'entusiasmo di riconoscenza.

– Or bene: soggiuns'egli: ciò avverrà questa sera medesima, alla festa da ballo data dalla baronessa X. So che suo figlio è in relazione con quella casa: gli dica che non manchi, e colà, senza che abbia bisogno di farsi presentare a me che di persona non lo conosco ancora, sarò io che cercherò di lui.

Giacomo tornò a confondersi nelle proteste della sua riconoscenza e della maggior soddisfazione. Quando poi fu tornato a casa ed ebbe narrato al figliuolo ciò che era intravvenuto fra lui e il marchese, Francesco non fu lento nè svogliato ad assicurare che a quel ballo non sarebbe mancato: più del pensiero della onorevolissima riparazione promessagli, lo spingeva l'idea che colà avrebbe di nuovo veduto Virginia, potuto avvicinarla, parlarle, bearsi del suono della sua voce, di alcuni almeno de' sguardi suoi.

Il marchese a sua volta aveva ordinato a suo figlio, e con quel tono a cui bisognava assolutamente obbedire, che gli toccava recarsi a quella festa e in compagnia di suo padre andare a rivolgere la parola e porger la mano per primi a Francesco Benda. Ettore dopo resistito un poco, aveva dovuto cedere al comando paterno, ma colla bile in cuore e col celato proposito di ripagarsi poi alla prima occasione su quel borghesuccio medesimo del sacrificio, secondo lui, enorme, che doveva fare per allora il suo orgoglio.

La baronessa X era quella compagna di collegio ed amica di Virginia, la quale aveva a costei primamente fatto conoscere di persona Francesco: e verso le dieci della sera di quel giorno in cui abbiamo già visto compirsi tanti avvenimenti, nelle sale eleganti di quella giovine signora si trovavano radunati in mezzo ad una sceltissima accorrenza di invitati, il marchese e la marchesa di Baldissero, il loro figliuolo Ettore, la loro nipote Virginia e il borghese Francesco Benda.

Ma prima di introdurci in questo profumato e sfarzoso ambiente della ricchezza, dobbiamo recarci nella lurida taverna di Pelone e penetrare nel segreto stanzone del Cafarnao, dove ha luogo un grande ed importante convegno di tutti i capi della cocca.

CAPITOLO XII

In quella scellerata associazione che chiamavasi la cocca, erano tre gradi: cominciando dall'alto della gerarchia veniva primo un sinedrio ristretto di pochi caporioni che formava il Consiglio de' ministri del capo supremo, al quale era bensì concessa una grande autorità, non però senza temperamento di preventivo esame e di sindacato susseguente ai suoi atti principali: questo sinedrio radunavasi in Cafarnao; eravi poi una più numerosa assemblea che componevasi dei capi delle singole squadre ed a questa, a cui erano taciuti gli alti avvisi o i segreti intendimenti del Consiglio superiore, spettava determinare le imprese minori, scegliere questi o quei modi d'esecuzione, distribuire fra i varii attori le parti, assegnare a ciascuno dei cooperanti una quota del bottino; quest'assemblea sedeva nella riposta stanza dell'osteria di Pelone; e se tutti i componenti di essa conoscevano l'esistenza del segreto ricovero dove si nascondevano le prede e si trafugavano le traccie dei delitti, a pochi soltanto e i più fidati era stato concesso l'introdurvisi; nello stanzone poi dell'osteria erano raccolti i semplici gregarii e non tutti, – perchè il loro numero era troppo maggiore di quel che la taverna potesse contenere – ma i principali, a cui, dopo presa una decisione, venivano dati i cenni opportuni, il motto d'ordine, le istruzioni e i convegni fissati, con incarico di trasmetterli a quegli altri compagni assenti che fosse stimato necessario. Alle adunanze del primo di questi poco onorevoli consessi assisteva sempre il capo supremo eletto da questo consesso medesimo; ai convegni dei capi-squadra era egli presente il più spesso, e fu a quest'occasione che Maurilio dovette di trovare nella bettola di Pelone Gian-Luigi travestito da operaio: alla massa dei semplici gregarii difficil era che il medichino si immischiasse, e molti di essi lo conoscevano di nome e lo rispettavano ossequenti per fama senza nemmeno conoscerlo di persona.

Quella sera, come già sappiamo, tutte tre le categorie degli affigliati alla infame Società erano convocate: il sinedrio supremo per risolvere, l'assemblea mediana per scegliere i mezzi d'esecuzione, la infima classe per ricevere gli ordini. Sulle peste di Macobaro, il quale, camminando frettoloso per la notte è giunto alla bottega di Baciccia, introduciamoci anche noi nel misterioso ridotto.

Quando il padre di Ester vi giunse, il medichino non c'era ancora. La lampada che pendeva dalla vôlta illuminava del suo chiarore rossigno le faccie diverse, ma tutte caratteristiche, di cinque individui seduti intorno alla tavola che trovavasi in mezzo a quel vasto camerone ingombro di tanta roba. Una di queste faccie era il muso appuntato di Graffigna che già ben conosciamo; vicino a lui, cogli avambracci posati sul piano della tavola, stava un omaccione a forme grosse, quadre e robuste: una testa enorme gli pencolava come ad uomo preso dal sonno che di quando in quando cede all'assopimento; la faccia imbestialita non lasciava più scorgere traccia nessuna di sentimento fuorchè un basso istinto animale; l'occhio semispento aveva qualche cosa di stupido insieme e di feroce, le labbra grosse colore della feccia del vino, parevano incapaci ed indegne dell'attributo dell'uomo che di tanto lo separa dal resto dell'animalità: la parola; avreste detto non poter uscire da quella bocca degradata che un grugnito belluino. Pareva immerso in una specie di torpore dell'anima e del corpo; ma tratto tratto ne usciva un istante per mescere d'un liquore del color dell'acqua, di cui aveva una bottiglietta innanzi a sè, in un bicchierino, il cui contenuto poi tracannava d'un colpo con mossa del braccio concitata, quasi rabbiosa. Era acquarzente della più forte; ad ognuno di tali bicchierini e' si riscuoteva un poco, alcuna intelligenza pareva tornare in quel suo sguardo sanguigno: ma poi non tardava a riprenderlo quel torpido assonnamento. Il terzo individuo, paragonati i suoi abiti a quelli miseri e frusti de' suoi compagni, vestiva da signore. Era tutto in nero ed aveva le apparenze d'un leguleio o d'un uomo di affari; portava sul naso degli occhiali colle lenti azzurrigne e parlava, si muoveva, stava con una certa importanza di sè. Dirigeva una casa di commissioni per allogamento di persone di servizio, per pigionare quartieri in città, per vendita od affitto di beni rurali, per impiego di denari e simili; sapeva a menadito il Codice civile e quello penale, era il consultore legale della Società, e i suoi compagni lo trattavano col sor. Degli altri due non è il caso di occuparsi: ci basti sapere che erano arrivati ancor essi a quell'alto grado nella gerarchia per merito di audaci ed accorti delitti e di utili vistosi recati col senno e coll'opera alla Società.

Fra questi cinque individui non una parola si scambiava. Ciascuno pareva assorto nei suoi pensieri; tenevano il capo basso in aspetto meditabondo e non si guardavano neppure l'un l'altro. Avreste detto che rattenevano fin anco la loro respirazione per non turbare l'alto silenzio, che veniva rotto tratto tratto soltanto dal colpo con cui l'omaccione batteva la tavola deponendovi su il bicchierino dopo averlo vuotato.

All'entrare di Macobaro i cinque personaggi levarono la testa; e visto chi fosse non gli dissero, nè fecero cenno di sorta che paresse un saluto, ma tornarono nel loro primitivo raccoglimento: l'ebreo si venne inoltrando chetamente quasi con umile riverenza verso la tavola, prese una seggiola e vi sedette timidamente senza nè dire una parola neppur egli, nè fare un atto qualsiasi.

Si continuò per un poco ancora in quel silenzio; finalmente l'uomo dagli occhiali bleu fece un movimento, trasse di tasca l'orologio e guardandolo disse:

– Il medichino è in ritardo d'un quarto d'ora.

– È troppo: disse un altro.

– Quanto a me, saltò su con voce rauca l'omaccione, che aveva galvanizzata in quel punto la sua inerzia con un bicchierino di acquavite: quanto a me lo aspetto finchè qui dentro c'è una goccia di questa roba. Quando abbia finita questa fiaschetta me ne vado ai fatti miei, e il medichino il diavolo se lo porti.

Ma Graffigna gli diede sulla voce.

– Sta zitto, Stracciaferro. Bevi quel che hai dinanzi e non dir sciocchezze. Se il medichino non è qui ancora, è segno che ancora non ha potuto venirci; e quanto ai fatti tuoi, tu non hai altri che quei della cocca, e devi star qui appunto per essi.

Stracciaferro scosse la sua testa enorme; ma si tacque. Nè alcun altro aggiunse più parola.

 

Pochi minuti dopo si udì un passo franco nel piccolo camerino che precedeva l'ingresso al Cafarnao, ed entrò un uomo di alta statura, avvolto in uno scuro mantello che tuttavia non nascondeva la prestanza delle sue forme, la dignitosa leggiadria delle sue mosse. Era il medichino.

Mentre al sopraggiungere di ogni altro nessuno di quelli che già si trovavan colà erasi mosso, all'entrare di codestui, appena l'ebbero scorto, s'alzarono tutti in piedi con certa attitudine di rispetto, come per un taciturno saluto: tutti meno uno, che era Stracciaferro, il quale aveva scossa di nuovo la sua grossa testa ed aveva mandato una specie di grugnito che pareva quasi un'espressione di protesta contro quell'atto riverente degli altri.

Ad alzarsi primo di tutti era stato Macobaro, e il suo capo si curvò in umilissimo inchino, mentre il giovane capo della cocca fece scorrere di passata il suo vivido sguardo sulle infinite rughe della raggrinzita di lui faccia; ma chi avesse notato lo sguardo pieno d'odio implacabile che aveva guizzato a tutta prima verso Gian-Luigi dalle palpebre floscie ed ingiallite del vecchio, non avrebbe esitato a credere quest'uomo capace d'ogni più fiero proposito contro colui che così umilmente inchinava.

Il medichino s'inoltrò colla sua andatura fiera e la mossa naturalmente superba, senza sciorsi dal mantello onde si avvolgeva. I suoi occhi che erano corsi sulle faccie di tutti i presenti, si fermarono sulla figura grossolana e bestiale di Stracciaferro e la saettarono di sguardi che parevano di fuoco.

L'omaccione volle resistere col suo e lottare contro quello sguardo del giovane; ma nol potè a lungo; le sue pupille quasi a forza dovettero chinarsi, ed egli manifestò il malessere che quello sguardo gli cagionava e il dispetto che di ciò sentiva, con un altro dei suoi grugniti quasi bestiali.

In Gian-Luigi per l'intensità di quella fisa guardatura, le vene della fronte si gonfiavano a poco a poco, e, le sopracciglia aggrottandosi lentamente, veniva disegnandosi ed incavandosi sempre più quella ruga caratteristica che noi gli conosciamo.

– Perchè non vi siete levato in piedi, Stracciaferro? domandò il medichino con voce severa, ma calma e posata.

Stracciaferro fece un atto pieno d'irriverenza; ma non osò levare gli occhi sulla faccia del giovane.

– Perchè, rispose colla sua voce rauca ed ebriosa, perchè non ne ho punto voglia.

Gian-Luigi tirò giù lentamente la falda del mantello che aveva gettata sulla spalla sinistra, e dalle pieghe del panno cascante sprigionò il braccio destro e la sua mano fine e sottile, accuratamente inguantata.

– Qui non siete per fare le vostre voglie: disse con una pacatezza che era più minacciosa che l'accento della collera: qui conviene che compiate i doveri che avete verso la cocca e verso me che ne sono il capo. Quando ci avvenga di incontrarci come semplici individui qui o fuori di qui, che voi badiate o non a me, poco m'importa: aspetterò a darvi una lezione allora solamente che mi manchiate di rispetto; ma in queste adunanze, qui, adesso, voi siete innanzi a me in qualità di subalterno innanzi al suo superiore, ed io esigo che voi mi rendiate quelle onoranze che sono stabilite dai nostri accordi, che sono nel mio diritto di pretendere, e di cui anzi penso dovere della mia carica il mantenere intatta l'osservanza. Con voglia o senza, voi vi dovete alzare, e vi alzerete.

Fece una pausa. Stracciaferro non si mosse; allora con voce vibrata di comando, il medichino gli intimò:

– Alzatevi!

I presenti a quella scena stavano muti ed immobili; ma l'espressione della loro fisionomia era ben diversa. Graffigna pareva seccato di quest'incidente che faceva perder tempo e si vedeva non approvar egli niente affatto la condotta del suo compagno; il direttore della casa di commissioni, guardava con occhio indifferente come uno spettacolo qualunque che gli si presentasse; il ferravecchi ebreo aveva nell'aspetto un maligno interessamento affatto ostile al medichino; gli altri due sembravano meravigliati della temerità di Stracciaferro, ma non parevano alieni del tutto a schierarsi dalla parte del ribelle, quando egli avesse saputo vincerla; come i più, insomma, erano inclinati senza dubbio nessuno a dar poi ragione al più forte.

A quel riciso comando, Stracciaferro parve dapprima voler cedere; fece un movimento come per obbedire, ma poi piantando le sue manaccie sulla tavola, quasi ci si volesse attaccare, disse risolutamente:

– Ebben no… non lo voglio.

– Gli occhi di Gian-Luigi lampeggiarono più fieramente e la ruga che gli solcava il mezzo della fronte apparve più spiccata e profonda; tuttavia aveva egli ancora il dominio della sua volontà e padroneggiava la collera che gli sobbolliva nell'anima. Non era la prima volta che delle velleità di ribellione al suo potere si manifestavano in quell'uomo audacissimo e robustissimo. Fra le nature di quei due individui, l'una elegante, distinta, aristocratica, l'altra grossolana, volgare, bassamente plebea, si sarebbe detto corresse un'antipatia quasi necessaria, domabile soltanto dall'impero della forza, a benefizio di chi avesse questa forza da parte sua. Stracciaferro che di certo non ragionava sulle sue impressioni, ma agiva per istinto, s'era sdegnato di vedere il suo vigore, il suo ardimento, la sua ferocia sottomessi alla supremazia d'un giovane che per quell'empia strada in cui essi camminavano, gli pareva indegno del tutto d'andargli innanzi; e questo sentimento nato confusamente nel suo spirito offuscato dalla grossolanità della materia, dalla continua ebrietà, veniva in lui spiegandosi a poco a poco e manifestandosi via via con qualche atto da prima lievissimo, finchè quella sera l'acquavita gli aveva dato la risolutezza di palesarsi in quel modo che abbiamo visto.

Il medichino da parte sua teneva ognor presente che quel suo primato confertogli dalla scelta de' suoi compagni, egli doveva conservarselo o per dir meglio conquistarselo ancora ad ogni volta mercè l'audacia in una sempre continua lotta contro le ambizioni, le invidie, i sospetti, le malevolenze dei suoi scellerati subalterni; e sapeva che la prima volta in cui egli avesse avuto il di sotto, la sua autorità di colpo sarebbe stata affatto perduta. Andava egli quindi preparato sempre ad ogni evento; e non era uomo da evitare nessun pericolo nè sottrarsi a nessun cimento.

Prima di riprendere a parlare a Stracciaferro, dopo la insolente risposta di costui, Gian-Luigi si tolse il mantello dalle spalle e lo gettò lontano da sè, si sguantò le mani, e ponendo la sinistra in tasca, la destra appoggiò alla tavola che tramezzava fra lui e l'avversario il cui contegno era per lui una sfida.

– Facciamo ad intenderci: diss'egli con un sorriso alle labbra cui rendevano terribile il fuoco degli sguardi e l'aggrottamento della fronte. La vostra condotta e le vostre parole meritano un'esemplare punizione, Stracciaferro…

– Una punizione a me? ruggì quel Sansone avvinazzato digrignando i denti.

Ma il medichino parlando di forza con quell'accento che la natura pareva avergli dato apposta per comandare altrui:

– Non m'interrompete: gridò; risponderete quando io abbia finito di dire.

Stracciaferro borbottò confusamente qualche improperio e tracannò un altro bicchierino d'acquavita. Gian-Luigi continuava:

– Prima di darvi questa punizione però desidero sapere le ragioni che vi han mosso a trasgredire quel dovere di rispetto che avete pel vostro capo, per sapere appunto misurare a queste ragioni la gravità della pena. Or dunque che cosa vi ci ha mosso? Avete qualche rimprovero da farmi? Vi è sembrato scorgere in me qualche cosa che mi rendesse men degno del mio grado? parlate.

Stracciaferro, esordendo per un'orribile bestemmia, parlò colla più brutale franchezza.

– Il suo grado!.. Io non so perchè Lei abbia da tenerlo il suo grado… ecco!.. È forse dei nostri Lei? Ha lavorato come noi di mano e di persona? Ha frustato la vita nelle galere, trascinando la catena al piede come hanno fatto i nostri noi?.. Noi affrontiamo il capestro e Lei si pappa il meglio dei nostri guadagni… Noi a trascinar una vitaccia sciagurata, inseguiti dalla canèa dei poliziotti; Lei a scialarla con cavalli e carrozze in abiti da moscardino e prendersi una satolla d'ogni piacere. Ora domando io se è giusto codesto; e domando che cosa dà diritto a Lei di godersela in questa guisa… Perchè Lei e non noi?.. Se si ha da guardare al merito, non ho più meriti io di cui tutti conoscono le imprese, e il cui nome è un terrore a tutta la gente ed alla polizia medesima? Se gli è la forza che deve primeggiare, non sono io il più forte?

E terminando con una bestemmia pari a quella con cui aveva incominciato, tese innanzi la sua grossa mano nera, villosa, muscolosa, serrata a pugno, e battè un colpo sulla tavola che parve battuto da un maglio di ferro.

Il medichino diede una ratta sguardata all'espressione delle faccie di quel ristretto pubblico che era presente alla scena. Graffigna appariva più impaziente che mai, l'uomo dagli occhiali mostrava un curioso interessamento che però sembrava propendere di meglio verso il capo della cocca; Macobaro s'era riparato dietro una maschera impenetrabile di indifferenza; gli altri due avevano una certa esitazione che accennava una tendenza a schierarsi dalla parte di Stracciaferro. Gian-Luigi capì che gli conveniva con un colpo decisivo domare senza indugio quelle velleità di ribellione.

Graffigna credette bene d'intervenire, e saltò in mezzo colla sua stridula voce dicendo:

– Queste le sono tutte scempiaggini, Stracciaferro, mio caro amico, che ti venga un accidente… Tu ci fai perdere tempo e non altro.

– Tacete! intimò fieramente il medichino fulminando l'interrompitore con una terribile occhiata: chi vi ha dato il diritto di parlare?

Graffigna rinsaccò la testa fra le spalle, e fece un atto che voleva dire:

– Non vada in collera con me: non me ne immischio dell'altro.

Gian-Luigi si volse a Stracciaferro e parlò con voce vibrante ma contenuta, autorevole e sempre calma.

– Alle vostre parole non dovrei fare manco l'onore d'una risposta e punirvi senz'altro, ma prima mi piace mostrarvi eziandio l'assurdità delle vostre impertinenti pretese, poi più pesante ancora si abbasserà su di voi la mia mano punitrice.

Stracciaferro tirò indietro dalla tavola la sua seggiola, e come disponendosi fin d'allora a sostenere un assalto, pose sulle sue grosse ginocchia le manaccie ossee, ronchiose, che facevano certi pugni da impaurire qualunque.

– La staremo a vedere! diss'egli bofonchiando fra i denti.

Gian-Luigi continuava col medesimo tono:

– Poichè voi osate istituire una gara di meriti e di titoli a questo primato che la scelta della cocca mi ha concesso e che voglio mantenermi intiero e in tutta la sua estensione e con tutti i suoi privilegi, per Dio; vi dirò che avere l'audacia di paragonar voi a me è lo stesso come paragonare lo stupido bue che tira l'aratro al coltivatore che lo guida e lo corregge. Voi siete una forza bruta, io sono l'intelligenza. Voi avete eseguito materialmente molto arditi fatti, ma chi li ha immaginati? Chi vi ha suggeriti i mezzi e condotti con sicura previdenza e con infallibile abilità al successo? Poichè io vi comando guardate quanta prosperità e come incessante abbia accompagnata la nostra associazione! Ella non fu mai così felice e gloriosa. E non è nulla ancora appetto all'avvenire al quale intendo e mi sento la forza di condurla. Cotale avvenire, questa sera appunto voi siete adunati per udirmi a svelarvelo, per udirmi proporvi le più importanti misure, per ricevere da me i più precisi ordini onde cominciarne l'effettuazione. Siamo alla vigilia d'un giorno che voi non avete osato sognar nemmanco pur mai: quello in cui la nostra società, noi, abbiamo in nostro potere la città tutta, ed apertamente dettiamo noi la legge altrui e di quelle armi che ora ci combattono possiamo servirci a far eseguire i nostri desiderii. Finora ci siamo contentati di togliere colla rapina, avvolgendoci delle ombre notturne, ai ricchi una parte piccolissima dei loro averi: io vi guiderò invece a tal punto che potrete, alla luce del sole, spogliare i ricchi d'ogni aver loro a beneficio di voi e dei vostri. E codesto a chi si dovrà? A quel pensiero che ha sede qui nel mio cervello, e che voi, bruto con forme d'uomo, nel vostro capo ottuso non sapete manco che cosa sia. Ecco già una buona ragione – e la migliore – pel mio predominio. Ma voi contate eziandio la forza fisica e il coraggio: e di queste qualità dovreste già sapere che io non vi sto indietro: e che anzi vi sopravvanzo anche in esse, vengo a darvene la prova sull'istante.

 

Camminò risolutamente verso Stracciaferro, facendo il giro della tavola che stava tra loro, la mano sinistra sempre in tasca, la sua destra bianca, affilata e gentile dondolante con abbandono lungo il corpo.

L'omaccione, vedendolo accostarsi, sorse in piedi e si fermò sulle sue gambe alquanto oscillanti. Lo sguardo torvo, feroce, quasi sanguigno di Stracciaferro seguiva le mosse del medichino come quello d'una belva fa alla preda che aspetta all'agguato. Ma ad un tratto Gian-Luigi fece un balzo: mentre il suo avversario piantato pesantemente sulla base dei suoi grossi piedi lo attendeva di facciata, egli con una mossa più ratta del baleno, più agile di quella d'una tigre fu addosso all'omaccione sopra il suo fianco destro, e prima che avesse tempo a voltarsi e porsi in alcun modo in difesa, a parare comecchesiasi il colpo, gli scaraventava alla tempia un pugno di tal forza che Stracciaferro barcollò e cadde stramazzoni, come bue colpito in mezzo al capo dal maglio del beccaio. Il suo avversario non aveva ancora toccato la terra, che il medichino era già rimbalzato indietro di due passi, e postosi in attitudine difensiva appuntando innanzi a sè colla mano sinistra una pistola a due bocche trattasi vivamente di tasca, pronto a far saltare le cervella al nemico quando quel primo colpo non l'avesse abbattuto.

Ma Stracciaferro non poteva pur pensare a muovere un assalto, nè manco ad altra cosa al mondo, abbandonato qual era, privo di sensi, per terra, come se morto. Il medichino prese lentamente la mossa naturale e tranquilla d'un uomo che non ha nulla per cui stare in guardia, ripose in tasca l'arma, come se niente fosse, e fece scorrere sui testimonii di quella scena uno sguardo nè trionfante, nè superbo, ma osservativo e imponente. Tutte le teste gli s'inchinarono dinanzi: quella di Macobaro s'inchinò più di tutte.

– Ora veniamo a noi, diss'egli colla voce così piana e tranquilla come se nulla fosse avvenuto, e facciamo a guadagnare il tempo che quell'animale ci ha fatto perdere.

Prese una seggiola ed andò a sedersi a capo della tavola, facendo invito agli altri ed accordando licenza con un gesto da sovrano di sedere ancor essi. Il corpo di Stracciaferro giacente era un impaccio per alcuni.

– Graffigna, comandò Gian-Luigi, guarda un po' se questa c… vuole star lungo tempo coi ferri per aria; e se sì, tirala colà in un canto che non ci dia altro imbarazzo.

Graffigna si curvò sopra il vecchio suo compagno di delitti e d'infamia. Stracciaferro apriva gli occhi; ma il suo sguardo torbido ed appannato dinotava come al suo cervello intronato non fosse ancora tornata la funzione di quell'intelligenza cui la natura già gli aveva data in sì scarsa proporzione, e cui la continuata ubbriachezza aveva ancora ottusa di tanto.

– Eh! non sarà nulla, disse Graffigna chino sull'omaccione, e' comincia a rifar l'occhiolino. Suvvia, soggiunse parlando al caduto, e scuotendolo per le spalle, animo, mio caro amico che tu possa crepare; non farci delle smorfie da femminetta e levati sulle piote, pendaglio da forca, mio degno compagno.

Stracciaferro trasse un grosso e profondo sospiro, e messosi con gran pena a sedere girò intorno uno sguardo da trasognato.

– A me, a me, riprese l'omiciattolo dalla faccia di faina. So ben io che cosa ci vuole a questo maccaco, nostro benemerito socio, per fargli tornare l'anima in corpo.

Prese sulla tavola il fiaschetto dell'acquarzente e ne mescette un colmo bicchierino, che venne a porre a contatto delle labbra spesse e tumide di Stracciaferro.

– Orsù, gli disse, bevi codesto, e lesto in gamba, che ti carezzi il piede di Gasperino10.

Con un moto puramente animale Stracciaferro ingoiò il contenuto del bicchierino, e parve in verità che ciò gli ridonasse gli spiriti, perchè un qualche raggio di luce venne a brillare nei suoi occhi.

– Olà, non l'abbiamo ancora finita? Gridò allora la voce imperiosa ed impaziente del medichino.

Il vecchio galeotto tutto si riscosse; volse a quella parte ond'era venuta la voce, i suoi occhi rossi di sangue ed infossati nelle livide occhiaie, e incontrò lo sguardo superbo di supremazia disdegnosa, e vide l'aspetto imponente di quel giovane dall'alta fronte orgogliosa, a cui la sorte aveva tutto accordato: bellezza, intelligenza, coraggio, fermezza e perfino la forza muscolare. Che cosa si passò egli nell'animo di quello sciagurato la cui bassa natura confinava colla cieca animalità? Quello sguardo e quello aspetto lo vinsero più ancora della forza di quel colpo materiale che lo aveva atterrato: fece come una fiera in gabbia che ha voluto ribellarsi al suo domatore e che questi col dolore delle percosse e colla forza magnetica dell'occhio fascinatore, fa rientrare nella timorosa soggezione.

– Alzati ed accostati: gli comandò breve ed asciutto il medichino.

Stracciaferro si alzò non senza stento e venne accostandosi al capo della cocca con passo tuttavia mal sicuro.

– Sei persuaso ora d'aver torto? gli chiese bruscamente Gian-Luigi.

L'omaccione mandò uno de' suoi grugniti che poteva passare per un'esclamazione affermativa.

– Sta bene… Una severa punizione l'hai meritata; ma per questa volta, mi contento di quel poco di correzione che hai preso… Per questa volta, intendi?.. Ad un'altra, al menomo cenno d'insubordinazione, al menomo contrasto alla mia volontà, ti faccio saltar le cervella, com'è vero che io qui sono… E così di qualunque altro che osasse imitare il tuo esempio. Ciascuno se lo tenga per detto.

Fece scorrere di nuovo sulle faccie dei presenti il suo sguardo lento, pacato e severo; e più di prima ancora, non trovò che fronti chine ed umilmente sommesse.

– Ora non se ne parli più: continuava col tono di generosa clemenza d'un Tito. Siedi costà e impiega tutto quel po' di cervello che ti resta a tentar di comprendere ciò che sto per dire ed ordinare.

I componenti il supremo Consiglio della cocca erano adunque tutti seduti intorno alla tavola a cui capo stava il medichino e con vivissima curiosità ed attenzione aspettavano le comunicazioni per cui erano stati colà raccolti.

Gian-Luigi così cominciò a parlare:

– Fin da principio che io assunsi quest'importantissimo ufficio che voi m'avete voluto affidare, fu mio proposito chiamare la nostra associazione a ben più alti destini di quelli a cui l'avessero spinta, cui avessero pur anco sognato soltanto tutti i miei predecessori. Noi per un'ingiustizia fatale siamo privi dei beni della sorte e con quello che la comune chiama delitti cerchiamo riparare a questa ingiustizia; ma gli effetti dei nostri atti non sono che temporanei, non riescono che a successi parziali, in una menoma parte soltanto dell'immenso complesso dei beni umani, non giovano che a pochi individui, per poco tempo, lasciando definitivamente nelle medesime condizioni la nostra classe, tutti quelli che come noi non hanno nulla, i poveri, gli umili, i derelitti e calpestati dai potenti – la plebe!

Graffigna fece un atto che significava chiaramente com'egli degli altri se ne curasse meno d'un mozzicone di sigaro e che contentavasi affatto di que' certi successi parziali che facevano entrare qualche buona manciata di monete nelle sue tasche. Ma il medichino volse per azzardo gli occhi verso di lui, ed egli, rinsaccato ancora il capo in mezzo alle spalle, chiuse gli occhi, come per assorbire di meglio le parole del suo superiore e meditarvi su con più attenzione.

Gian-Luigi continuava:

– Ma intorno a noi, contro di noi, a legarci in ogni nostra mossa, ad impedirci ogni atto, a reprimere ogni nostro conato, a rendere impossibile ogni miglioramento della nostra sorte, che cosa troviamo noi? La legge, che è fatta dai nostri nemici; tutto un ordinamento, un edifizio di istituzioni e di uffici, di costumi e di autorità, organato direttamente a nostro danno ed a nostra repressione. È chiara e facile la conseguenza da dedursi: abbattiamo questo edificio, stracciamo questo iniquo patto di legge a cui noi non abbiamo acconsentito. La nostra parte ha la potenza del numero; ma pur tuttavia è debole ed impotente per mancanza d'unione e d'accordo, d'intendimenti e di guida, d'una forza di pensiero e di volontà che la informi, d'un centro intorno a cui la si agglomeri e che le indichi e cominci l'azione, e ve la spinga e capitaneggi. Quest'uffizio ho pensato che poteva adempiere la nostra segreta associazione così vasta e fondata, che, ignota anche ai più di quelli che la servono, pure diffonde così largamente le sue radici, che può di tanti mezzi disporre, che vanta a sè arruolati tanti coraggi, tanti animi risoluti e pronti ad ogni cosa. La nostra associazione, mi sono detto, può raccogliere in una massa le scontentezze, le ire, le disperazioni dei derelitti, far precipitare questa irrefrenabile valanga sul presente edificio, abbatterlo come la vera valanga schiaccia il villaggio che incontra nel suo cammino; e sulle rovine di ciò che ora esiste, può la nostra misteriosa cocca rimanere solo corpo organato che sopravanzi, ed impadronirsi della somma delle cose.

10Nome che questa razza di gente suol dare al carnefice.