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La plebe, parte III

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– Mi permette, signor marchese, ch'io osi contraddirla?

– Parli con tutta libertà.

– Ai miei occhi non è che la storia ci mostri l'umanità oscillante miseramente fra un limitato avanzamento insuperabile ed un inevitabil regresso; ed io non trovo da nessun valido argomento afforzata la teoria dei ricorsi di Vico. Sì, secondo me, la marcia dell'umanità è una spirale ascendente; ma il vero è che questa spirale ha dei giri di cui la parte inferiore scende più basso del livello a cui forse era sceso il giro precedente; ma il cammino non è interrotto, ma la forza ascensiva non è cessata, e da quella bassura, talvolta anche relativa soltanto, l'umanità si dovrà elevare ad un'altezza superiore a quelle che furono arrivate per l'innanzi. Certe razze e certi paesi giungeranno ad una grandezza di civiltà e poi ricadranno di nuovo nella barbarie; e ciò perchè essi avranno compita la parte loro assegnata nel gran disegno della Provvidenza; o perchè avranno falsato i principii che dovevano applicare e le loro conseguenze. Ma è da dirsi che il loro glorioso sfavillare d'un momento nella storia sia rimasto inutile; che soli passeggieri, dopo aver brillato un istante, si estinguano lasciando più densa intorno l'oscurità? Le grandi monarchie di Ninive e di Babilonia si sono estinte, ma chi può negare l'influsso di quella coltura, benchè mostruosamente applicata ed effettuata, in quel mondo orientale, a cui cotanto attinsero e l'Egitto e la Grecia, e Israele medesimo nel corto momento di suo splendore? La Grecia decade dopo avere raccolto in sè come in un foco tutti i conquisti dell'intelligenza umana ed aver tutto ammigliorato, ad ogni cosa dando l'impronta del suo genio puro, evidente, artistico, armoniosamente bello; ed ecco che Roma è già lì pronta ad accogliere la successione e spingere ad ulteriori conseguenze le ricevute, già sviluppate premesse. Il mondo pagano giunto ad un'altezza di coltura che pare il sommo arrivabile, devia nella più empia corruzione e precipita. Questa volta in presenza dell'invasione della nuova barbarie chi non direbbe avvenuto il regresso? chi non temerebbe almeno una soluzione di continuità in quella marcia ascendente? Ebbene no; il giro della spirale è disceso ad un bassissimo livello, ma la potenza di riscattar su non è tolta alla molla; in quella bassura temporanea prenderà nuova forza e nuovi elementi anzi per ispingersi a non ancora arrivate o nemmeno ancor sognate altezze; nella confusione del medio evo il cristianesimo matura la civiltà moderna che per tante ed importantissime cose sarà di tanto superiore all'antica. Ed è forse da credersi che i progressi della civiltà pagana sieno stati inutili all'assestamento di quella cristiana? Mai più. La letteratura e la scienza dell'antichità si scambiano ma proseguono nel mondo moderno; dànno la base, prestano il punto di partenza e le prime forze alle mosse del rinnovellato pensiero; il cristianesimo stesso non viene come un atto inaspettato senza radici nei precedenti, senza ragioni di conseguenze da cause anteriori, senza anteriori premesse. Nessun fatto accade di questa guisa nell'umanità. Il cristianesimo dà forma più elevata e più precisa, più pratica, direi quasi, e nello stesso tempo più pura a quelle aspirazioni che da assai tempo già si facevano strada di mezzo al politeismo e si manifestavano colla filosofia platonica e coll'umanitarismo, se così posso dire, della nuova commedia di Menandro e de' suoi. Come muoiono gl'individui e s'estinguono anche le razze, ma l'umanità non muore; così cadono le civiltà particolari di questo e quel luogo, ma non cade mai per l'affatto la civiltà umana; s'assopisce, sonnecchia, la fiamma s'abbassa e il fuoco si copre di ceneri, e poi ad un tratto soffia il vento, la si ridesta, le ceneri sono via portate e la luce ribrilla più splendida e maggiore. La fiaccola della civiltà è tenuta ora da questo or da quello fra le schiatte ed i popoli; ma quando l'uno inciampa o rovina ecco un altro o subito di lì a poco raccogliere la face e riprendere la via alla testa dell'umanità solidaria in ogni progresso de' suoi membri. L'opera provvidenziale s'interrompe, non cessa. L'ideale che si prosegue, anco inconsciamente dai più, non è nel passato, no: è là dinanzi a noi, nell'avvenire, in un avvenire che probabilmente non si raggiungerà mai, ma verso cui è legge costitutiva della nostra natura intellettuale anelar senza posa.

Un calore contenuto, sincero, pieno di persuasione epperò di efficacia aveva animato il discorso di Maurilio: la sua voce ordinariamente poco sonora, vibrava con simpatico vigore, il volto arrossatosi alquanto, gli occhi fatti più risplendenti davano alle sue sembianze una certa attrattiva quasi autorevole, che ispirava la considerazione per quella intelligenza ond'erano illuminati la fronte, lo sguardo, la parola del giovane.

Baldissero subì ancor egli l'influsso di codesta attrattiva: rivolse a Maurilio un sorriso assai benigno e gli disse con accento più amichevole che per l'innanzi:

– Ella mi ha confutato passo passo…

– Ah! non ho ancora finito: interruppe, ma in modo molto rispettoso, Maurilio. Mi resta di manifestare la discrepanza delle mie dalle sue idee intorno ad un punto importantissimo: quello che la religione cristiana condanni il concetto e la teorica del progresso. La religione cristiana ha bensì per suo dogma il decadimento della natura umana per il peccato, ma, secondo me, non limita gli effetti della redenzione alla parte spirituale dell'uomo caduto. Il Cristo è venuto ad arrecarci col sacrificio di sè, non solamente la salute eterna, ma anche la miglioria della vita terrena, mercè il lavoro, la virtù e la morale. La maledizione di Adamo non fu così distrutta nell'umanità che di botto ella tornasse allo stato primitivo di grazia e di felicità per l'anima e pel corpo condannati; ma la redenzione pose l'uomo individuo in grado di acquistarsi coll'opera sua particolare la salvezza eterna, l'uomo collettivo, il genere umano nella possibilità di venir migliorando sempre più le condizioni del suo vivere terreno. La fase grandiosa del progresso moderno incomincia dall'opera santissima del Cristo ed ha sua base nella buona novella annunziata all'umanità col Vangelo.

– Che cosa ne dice Lei, Don Venanzio? domandò il marchese ancora con quel suo benigno sorriso.

Il vecchio parroco ripetè il movimento che aveva fatto poco prima.

– Io non sono che un povero prete di campagna che ho studiato poco ed ho vissuto in una stretta cerchia di attinenze e d'idee. Può essere dunque facilissimo ch'io sbagli; ma mi pare che in tutto codesto non ci sia nulla di eterodosso.

– Per disgrazia, soggiunse il marchese, rivolgendosi di nuovo a Maurilio, il fatto, checchè Ella possa dire, sta lì a dar torto alle sue allegazioni. Scendiamo dalle generali per venire un po' più accosto alla realtà. Si tratta della società ch'ella dice e ch'io le accordo essere infelice, turbata, male in assetto; or bene guardiamo il passato: noi vediamo come prima che le empietà rivoluzionarie venissero a scuoterla dalle sue fondamenta e trarla fuori della sua base normale, prima che le passioni malvagie del materialismo e della irreligione venissero a sovvertire gli ordini stabiliti, e che avevano loro ragione di essere nella natura delle cose, nella tradizione e nel diritto storico; noi vediamo che la società posava più tranquilla, più sicura e quindi più felice. Ora noi vediamo sì un movimento, un funesto movimento di progresso; ma verso il peggio. Ogni giorno più noi sentiamo la società minacciata, scavato il terreno sotto le più sante istituzioni, sciolto d'un freno il popolo di cui si travia la mente e si eccitano i mali istinti col pretesto d'istruirlo. E la società non sarà salva e sicura finchè quelle triste passioni non si schiantino dalle masse, finchè quel soffio distruttore di libero esame e d'anarchia non sia compiutamente estinto. Sì, noi dobbiamo oggidì riformare la società, ma non andando verso un'ipotetica forma dell'avvenire che effettui le audacie delle sovvertitrici ambizioni plebee, sibbene tornando indietro al naturale, logico, storico stato sociale che le rivoluzioni di Francia hanno sciaguratamente distrutto.

– Ah signor marchese, disse allora Maurilio con un calore che tutta aveva superata la sua primitiva timidezza e toltogli l'impaccioso riserbo: io bene affermo che la società moderna ha molti mali ed è minacciata da molti pericoli, ma contesto che i rimedi a siffatti pericoli sieno da cercarsi nel regresso al passato, e che i mali presenti sieno maggiori di quelli della società dei secoli scorsi. Per quanto poco e insufficiente ancora, pur tuttavia un miglioramento s'è fatto; non c'è che da paragonare la plebe moderna agli schiavi dell'antichità, ai servi del medio evo, per vedere quanto acquisto abbia fatto anco nelle basse classi la personalità umana in punto a condizione economica ed in punto a dignità individuale.

– Miglioramenti fittizi ed anzi fatali: interruppe il marchese. La condizione economica?.. Ebben sì; voglio anche ammettere che la ricchezza pubblica siasi accresciuta, e che la plebe possa quindi averne maggior parte coll'aumento de' suoi salari; ma che cos'è ciò, a che approda, quando pel funesto spirito moderno i suoi bisogni ed i desiderii sono accresciuti molto più a dismisura e non trovano quindi nè anco la centesima parte di quella soddisfazione a cui anelano? La dignità individuale? Ma dove e come restava questa lesa in quel rispetto alla gerarchia sociale ch'è un riconoscimento delle superiorità stabilite dal Creatore medesimo per mezzo della natura e del diritto ereditario? Oggidì si chiama col nome di tal dignità lo spirito d'insubordinazione che tutto minaccia sovvertire, che tutti spinge fuori dei limiti di quella condizione in cui li ha posti la Provvidenza. Ma come, in fede mia, può uno spirito imparziale, paragonando questa nostra alla società dei secoli scorsi non riconoscere la superiorità di quest'ultima? Allora gli ordini erano fissati con precisione dalla nascita: ciascuno quindi stava a suo posto, senz'ambizione di uscirne e senza paura di scaderne: la comunità non era tormentata dagli sforzi disperati di costoro per ispingersi su, di quegli altri per mantenersi nei ranghi superiori. Oggidì tutto questo non è più fermo come prima. Gli ambiziosi del basso dànno l'assalto continuo ai posti delle classi che predominano: è una lotta ardente e continua per arrivare; nulla è più certo e sicuro, la tranquillità è bandita dall'animo di tutti. Mentre il giusto privilegio della nascita dato da Dio scade sempre più, che cosa vediamo noi sostituirglisi? Lo ingiusto prepotere della ricchezza data dall'industria, dall'avidità, e molte volte eziandio dalla frode dell'uomo. E il denaro, che così va innanzi a tutto, non è nobile, nè intelligente, nè pietoso alle pene altrui; è il trionfo del più materiale egoismo.

 

«E codesto succede in tutta la compage del corpo sociale: dall'alto al basso una lotta miserabile per soprammontarsi l'un l'altro. Per giungere al loro scopo alcuni prendono i tragitti più vergognosi, le sconcie protezioni, l'intrigo, l'adulazione; altro che la dignità individuale!

«Ella mi parla di progresso e di miglioramento? Le ho già detto anche circa il miglioramento delle condizioni materiali, come esso non fosse a gran pezza bastevole alle nuove cresciute esigenze, e perciò riesca relativamente a fare ancora maggiori le sofferenze di chi più volendo si accorge di essere destituito di maggior quantità di beni. Ma poi: che cosa serve un lieve miglioramento materiale, quando si ha pur troppo una degradazione così evidente e dolorosa nell'ordine della moralità e dell'intelligenza? Sì signore: quella caccia al successo ed al denaro smussa la delicatezza del sentimento e smaga la virtù. Cieco è chi non vede il livello morale essersi dolorosamente abbassato ed abbassarsi. Ed anche la parte intellettiva dell'umanità ne scade. È generale il lamento della decadenza delle arti e delle lettere nel mondo moderno. E qual n'è la precipua ragione? Quelle piante delicate hanno bisogno d'un ambiente propizio che le accolga e nutrichi e difenda: una classe superiore e privilegiata – diciamo la parola – un'aristocrazia soltanto può somministrar loro quest'atmosfera propizia…

S'interruppe da sè medesimo per riprender tosto con accento ancora più grave e di maggior convinzione:

– L'aristocrazia!.. È contro di lei che lo spirito moderno, raccogliendo ed ereditando gli odii e i sospetti del monarcato che tanto l'ha combattuta, volge i suoi più vivi assalti. Sconsigliati che non vedono l'aristocrazia essere un portato di diritto naturale, illustrazione, grandezza, e nel medesimo tempo guarentigia della società. Chi crede che l'elevarsi dell'aristocrazia debba attribuirsi alla prepotenza di taluni che si sono imposti altrui senza ragione e diritto, ignora la storia e disconosce la natura umana. L'aristocrazia è il risultamento necessario d'un fatto provvidenziale. L'umanità si divide per la natura medesima delle cose in deboli ed in forti – sia riguardo al vigor fisico che riguardo all'intelligenza, alla volontà, al coraggio, ad ogni dote dello spirito e del cuore; questa differenza fra individuo e individuo, questa supremazia di alcuni, posta dalla natura medesima, può dirsi effettivamente di diritto divino. Ciò posto (e nessuno lo può negare) ad aggiustare la società senza la fondazione d'un'aristocrazia non occorrono che due sistemi: o sottomettere tutti e forti e deboli, senza differenza di gradi, ad un potere unico e sovrano il quale imperi assolutamente su tutti; oppure decretare contro la natura delle cose un'uguaglianza assoluta fra tutti quegli elementi discordi e dar al maggior numero di essi la sovranità e il potere – dispotismo sempre o d'un solo o della moltitudine. L'antica società, contro cui insorse e vinse pur troppo la rivoluzione di Francia, aveva invece risolta la questione in modo più acconcio e più umano, riunendo i forti e i deboli coi legami reciproci e morali della protezione e della fedeltà. Il forte, per mantenere e proteggere il suo grado contro il dispotismo d'un solo, aveva avuto bisogno di raccogliere intorno a sè i deboli e li compensava del loro appoggio mercè la sua protezione; il debole aveva avuto mestieri del forte per essere difeso contro la violenza e gli pagava codesta difesa colla sua fedeltà. Ecco la società feudale così poco intesa e così calunniata!

«La natura aveva cementato quell'ordinamento, l'interesse comune lo assicurava, dalle classi superiori discendevano la beneficenza e la giustizia, da quelle inferiori salivano la devozione e la gratitudine. Un legame d'affetto comune aggiuntosi alla abitudine colle continuate attinenze addolciva i rapporti; sotto l'apparenza della disuguaglianza si aveva in realtà un'uguaglianza di cuore, quella che sola è possibile fra gli uomini, meglio che non quella ingiusta, arida ed assurda che vuole stabilire la legge. Epperò vedevansi allora i subalterni amare i loro superiori, rispettare il potere e l'autorità, i giovani tacere innanzi ai vecchi, i figliuoli obbedire ai genitori e nessuno tentar d'usurpare il posto altrui. Le famiglie formavano delle unità vive ed immortali in cui durava la tradizione, e gl'individui imparavano i pubblici doveri alla scuola dei doveri domestici; e su tutto questo la religione, venerata, accettata da tutti, spargeva la sua luce divina e la grazia delle sue consolazioni supreme9.

Il marchese si tacque e col suo contegno mostrò che attendeva da Maurilio una risposta, cui avrebbe ascoltata volentieri: e il giovane non la fece aspettare.

– Quella medesima religione, diss'egli, fu quella che più efficacemente valse a rovinare l'assetto aristocratico della società, appena fu essa meglio compresa dalle masse. Nulla vi ha di più democratico al mondo che la religione cristiana. Proclamando l'uguaglianza giuridica degli uomini, la legge moderna non ha fatto che applicare ai rapporti terreni quel precetto che Cristo predicò della uguaglianza delle anime innanzi al Padre Celeste; è un germe posto dal Cristianesimo nell'umanità con tanti altri della civiltà presente che fruttò da ultimo col trionfo della rivoluzione.

«Esaminata da lontano colle linee e coi colori che la sua parola, signor marchese, le ha saputo dare, certo l'antica società si presenta sotto uno specioso aspetto di ordine e di forza, di regolarità e di agevolezza nel suo funzionare: ma converrebbe esaminarla più da vicino, penetrare con occhio critico in essa per vederne i malanni, i disagi, gl'intimi dolori. Quando essa cadde, tutti – perfino i privilegiati – concorsero a darle la spinta, perchè tutti sentivano il malessere dalla medesima prodotto. Le rovine forse furono troppe e troppo rapidamente accumulate, e il sangue che fatalmente venne ad inaffiarle fece rinascere una pietà che parve simpatia e rimpianto delle cose perdute, ma ogni spirito acuto dovette accorgersi che tutto ciò ch'era caduto, da lungo tempo era corroso alle fondamenta e non poteva più reggere. Il consolidamento della razza umana in ordini ed in caste immutabili in tanto può reggere in quanto che sia di comune accordo da tutti accettato; dal momento che la disuguaglianza è considerata come un'ingiustizia, essa diventa intollerabile ad ogni cuor generoso.

«Nè la disuguaglianza naturale fra gli uomini legittima lo stabilimento d'una disuguaglianza sociale tra le famiglie. Hannovi sì i forti e i deboli anche nell'ordine dell'intelligenza e dell'anima; ma non è mai che questi così ben si dividano che ad una schiatta appartengano sempre i meglio dotati ad un'altra i meno. Nella famiglia la natura dà la tutela dei deboli, i bambini e le donne, ai più forti, i genitori ed i mariti; ma nella società non si vede in nessun modo una protezione istituita di questi su quelli dalla natura medesima delle cose: ogni supremazia proviene o dalle circostanze che hanno date all'uno delle forze superiori, o dal libero arbitrio del protettore e del protetto. La tutela dei deboli non deve dunque appartenere a questi od a quelli elevati in casta privilegiata, sibbene alla società intiera, val quanto dire alla legge. L'antico regime aveva dunque gran torto fissando arbitrariamente la forza in certe famiglie e la debolezza in altre, invece di lasciare che liberamente la forza e la debolezza si manifestassero là dove esistevano. Certo nel fatto i nobili erano allora i più forti – lo sono ancora appo noi oggidì per favore della monarchia – ma in ciò appunto sta l'ingiustizia, perchè, come si prova che questa supremazia la meritino realmente quando è l'azzardo della nascita che loro l'accorda?

– Maurilio! esclamò con tono d'ammonimento Don Venanzio, timoroso che il suo protetto offendesse il nobile suo ascoltatore.

Ma il marchese con un benigno sorriso e con un cenno rassicurante della mano disse amichevolmente:

– Lo lasci dire, caro Don Venanzio; e poi voltosi a Maurilio soggiunse: continui con tutta libertà, la prego.

– Nella natura vi sono delle distinzioni fra gli uomini, così continuò Maurilio; nella società conviene che vi sieno fra essi dei gradi e delle condizioni diverse: ma come fissare il grado e la condizione che deve spettare ad un uomo prima ancora ch'egli nasca? Il diritto ereditario, che è giustissimo quanto alla proprietà economica acquistata dal lavoro individuale coll'intento specialmente di trasmetterla ai figli od alle persone che ci son care, diventa d'una assurda ingiustizia quando lo si vuole applicare a quei vantaggi cui soltanto il merito personale deve acquistare, che alle virtù di chi li possiede, non a quelle de' suoi maggiori si devono concedere. Certo non si potrà mai eliminare l'influsso delle circostanze esteriori in mezzo a cui ciascuno sviluppa la propria individualità, e di queste circostanze n'è una capitalissima l'azzardo della nascita in queste piuttosto che in quelle condizioni; ma appunto perchè questa ragion della sorte accorda già a taluno sopra i suoi simili un sì considerevol vantaggio, non è necessario, è anzi contro la verità e la natura lo aggiungere a questa prima fatalità un'altra fatalità legale: ed anzi deve la società, per essere giusta, veder di riparare alla disuguaglianza delle condizioni esteriori, aprendo a tutti sempre meglio e facilitando le strade di elevarsi, di pervenire, di perfezionarsi coll'educazione e colla dottrina. Tra il figliuolo del ministro e quello dell'operaio, tutte le probabilità di star sempre innanzi sono già pel primo; perchè stabilire ancora per legge, che il secondo, foss'anche un genio, deve continuare nelle misere e limitate condizioni paterne?

«Sono codeste le ragioni per cui quell'assetto sociale delle caste ha eccitato odii cotanti, fu assalito con sì acceso accanimento e la sua caduta nell'uragano che finì il secolo scorso fu salutata dai popoli con universale applauso in tutto il mondo. La protezione data di diritto ai forti verso i deboli, di cui Ella dice, signor marchese, era degenerata in oppressione – e non poteva essere altrimenti, ned io intendo farne accusa alla classe privilegiata, codesto era nella natura umana; – colui al quale è data un'autorità speciale, duratura, inamovibile per difendervi, troppo facilmente è tratto ad abusarne; l'ineguaglianza stabilita dalla nascita, ammessa come di diritto naturale, ispira quasi inevitabilmente nei privilegiati un disprezzo per coloro che si trovano nei più bassi gradi della scala, e dalla diversità della classe fra gli uomini troppo agevole è il passo a conchiudere per la diversità della natura; troppo è difficile in chi non vi è uguale e che per decreto d'una provvidenza umana che si vuol far passare per destino della Provvidenza divina è condannato a non esservi uguale mai; troppo è difficile vedere un nostro simile. La fraternità umana Cristo l'aveva proclamata, ma restava una lettera morta nell'ordinamento sociale sotto l'impero del feudalismo; la rivoluzione dell'ottantanove l'ha introdotta nell'ordine dei fatti.

«Qual è insomma il bisogno dell'umanità nel suo organamento sociale? quale il dovere di questa società verso l'individuo cui nel suo ambito abbraccia e comprende? Il bisogno di svolgersi il più liberamente e il maggiormente possibile in tutte le sue facoltà: il dovere di proteggere e favorire il meglio che si possa questo sviluppo dell'attività individuale che dà la somma del progresso complessivo e solidario del genere umano. La società feudale, la società divisa per caste, e cristallizzata nei quadri fittizi di condizioni prestabilite, immutabili per l'individuo, non soddisfaceva a questo dovere, impediva si soddisfacesse a questo bisogno. La rivoluzione francese venne a proclamare l'idea del nuovo regime che tosto o tardi dovrà mettersi in atto dapertutto; ed eccone la formola: il maggiore possibile sviluppo della libertà individuale sotto tutte le sue forme, sotto l'impero della protezione sociale. Ogni uomo, quando è giunto nel pieno possesso della sua individualità, nel pieno sviluppo cioè delle sue facoltà fisiche ed intellettive, deve proteggersi da sè, lavorare di suo capo, pensare ciò che gli par vero, credere quanto la coscienza gli comanda, godere de' suoi beni secondo suo volere, in una parola non rispondere di sè che a sè stesso, fuori dei casi in cui osasse violare col fatto suo i diritti d'altrui; allora vi dev'essere la legge che interviene per farlo rientrare nei limiti concessi alla sua attività.

 

«Ma questa forma di società non è ancora effettuata, e mentre alcuni si sforzano di mettere insieme i rottami dell'antica e farli tener su come un edifizio solido, tuttavia la nuova società si viene lentamente e fra i contrasti costituendo; per dirla con una formola germanica viene diventando. Noi quindi siamo in un'epoca di transizione ed abbiamo tutti i mali, tutti i danni di quello che cade e di quello che spunta: ci troviamo in mezzo agli angoli di due ossature senza polpa, perchè dall'una questa si è già staccata, all'altra non è venuta ancora.

«Da questo stato di rivoluzione continuata nascono certi spostamenti e certi dolori inevitabili e fatali. Tutti gli antichi interessi che si vedono minacciati e lesi lottano con ogni forza e soffrono nel soccombere graduato a cui sottostanno a dispetto di tutto. Le influenze non si spostano senza danni materiali e morali: le abitudini nuove urtano le antiche e fan nascere molti conflitti più o meno dolorosi. I poveri medesimi, i derelitti non travedono ancora che oscuramente la terra promessa verso cui camminano, e da cui ostili interessi collegati li vorrebbero tener lungi. Cominciano ad avere la coscienza del loro diritto, presentono la possibilità di arrivare a soddisfarlo, e si arrabbiano e soffrono di vedersi ciò impedito. Questa situazione è gravida di mille pericoli cui tutti debbono applicarsi a scongiurare e più di tutti quelli della classe superiore che ci hanno maggior obbligo e maggior interesse.

«Io sono nemico della violenza: la abborrisco nella tirannia, la pavento nella rivoluzione. La violenza è una forza cieca che distrugge anche quello la cui distruzione può nuocere, e nulla edifica nè lascia edificare; ma pure alcune volte pur troppo, e quasi sempre per colpa e cecità degli uomini, essa è fatta necessaria, quando al cammino fatale del progresso si sono accumulati ostacoli tali cui null'altro più vale ad abbattere. Vorrei che questa cruda necessità non si verificasse: vorrei che, come lente e graduate si fanno nella natura le modificazioni geologiche, si facessero così a poco a poco, per via di naturale passaggio, gli ammiglioramenti sociali. Miglior mezzo da ciò credo quello che le classi superiori si facciano zelanti collaboratrici del destino, del disegno provvidenziale, nell'affrettare il divenire del futuro.

«E qui coloro che si credono i forti dovrebbero appunto esercitare, ma con altre forme, con altri intendimenti, quel patronato cui si allega posseder essi di diritto verso gl'infimi. Ho detto che l'uomo ha da avere esclusivamente la protezione di sè egli stesso, sotto quella generale della legge; ma questo non esclude il patronato doveroso della beneficenza o della carità. Finora i derelitti non hanno potuto giungere a quel massimo sviluppo possibile della loro individualità che deve farli capaci di provvedere in tutto e per tutto da sè: fino a che i grandi effetti che si devono aspettare dai nuovi fecondi principii non si sieno ottenuti coll'applicazione giusta e coscienziosa dei principii medesimi, bisognerà che i meno felici, i meno istrutti, e quindi, pur troppo, la maggior parte del popolo, sieno sostenuti, guidati, aiutati dal patronato dei felici, dei primi arrivati: da quello dei ricchi e degl'intelligenti, nobiltà o borghesia che si chiamino; ma ciò senza che menomamente ne sieno lesi i diritti e la libertà nè degli uni nè degli altri, ciò non per costrizione legislativa, ma per libera scelta di quelli che lo devono fare.»

Don Venanzio che aveva ascoltato con molta attenzione le parole di Maurilio e dava segni evidenti di provarne viva impressione ed interesse grandissimo, a questo punto saltò fuori con vivacità giovanile:

– Ma questa non è che l'applicazione d'una massima del Vangelo: «Fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi medesimo.» Chi figurandosi povero e derelitto non vorrebbe avere dal potente un aiuto a migliorare le sue condizioni?

– Vi sono certi aiuti, riprese Maurilio, che umiliano chi li riceve e non ottengono lo scopo. L'elemosina è di questi. Eccellente per rimediare a un danno temporaneo, ad una circostanza particolare, immediata, non conferisce per nulla al miglioramento nè particolare nè generale. La beneficenza che s'invoca, e ch'io intendo, dev'esser compresa in un più largo ed efficace significato…

Fu interrotto da un grattare all'uscio che era il solito cenno del domestico per domandar licenza di entrare.

Il marchese, che aveva prestato e prestava la più raccolta attenzione a quei discorsi, sorretta la fronte dalla palma della mano, il gomito appoggiato al bracciuolo del seggiolone; il marchese sollevò il capo e disse verso la porta:

– Entrate.

Il servo venne ad annunziargli che il sig. Benda chiedeva d'essere ricevuto.

– Venga, disse vivamente il marchese, poi volgendosi a Maurilio, soggiunse con un graziosissimo accento e con un benigno sorriso: questo discorso, se non le dispiace, lo riprenderemo altra volta; e per averne migliori e più facili occasioni voglio farle una proposta. Ho bisogno d'un segretario: vorrebb'ella assumere tale ufficio? Cento lire al mese, l'alloggio, la tavola, abbastanza di libertà per poter continuare nei suoi studii: ecco le mie condizioni.

Maurilio che, al pari di Don Venanzio, s'era alzato, fu assalito da un tremito di emozione, e non seppe rispondere altrimenti che con un inchino; ma rispose per lui Don Venanzio, che proruppe vivacemente:

– Le sono accettate… Accetto io e rispondo per lui; e spero che la non ne sarà malcontento, signor marchese.

Questi fece un cenno di accondiscendenza e soggiunse:

– L'aspetto dunque fino da domani, se non v'è nulla da parte sua che lo impedisca.

Fu ancora Don Venanzio che rispose sollecito:

– Non c'è nulla, assolutamente nulla, e domani verrò io stesso a menarlo qui prima di partirmene per la mia parrocchia.

Maurilio, confuso, commosso, quasi sbalordito fu condotto fuori dal vecchio parroco, senza che egli sapesse bene se sognava o vegliava, tanto l'idea di entrare in quella casa, di venir ad abitare lì sotto il medesimo tetto con lei lo aveva conturbato. Nell'uscire s'incontrarono col padre di Francesco, che entrava.

Giacomo Benda si precipitò con impeto nel salotto del marchese.

– Eccellenza, esclamò egli, la mi perdoni, se vengo una seconda volta di quest'oggi a disturbarla, ma non potevo assolutamente fare a meno. Bisogna ad ogni patto che io venga a ringraziarla per impulso del mio cuore, per quello ancora più della mia povera moglie, a cui Ella ha fatto restituire il figliuolo.

Baldissero, alzatosi da sedere, aveva fatto alcuni passi incontro all'industriale e colla sua squisita cortesia, rispondeva:

– Sono lieto d'aver potuto contribuire a toglier di pena una buona madre, e Lei, signor Benda, ma non mi si devono ringraziamenti di sorta, perchè non ho fatto altro più di ciò che credetti dover mio. Se Ella per codesto avvenimento ha alcuna gratitudine da nutrire verso qualcheduno, la rivolga a S. M. che ha tutto il merito della clemenza…

9V. Janet, Philosophie du bonheur, chap. IX.