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La plebe, parte I

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Il conte s'inchinò con ironica galanteria verso la moglie.

– Avete ragione: diss'egli. A certuni non basta l'esser nati di nobil sangue per aver nobili modi, come del pari, ai più non basta l'aver acquistato dei titoli per aver preso addirittura con essi la vera nobiltà.

Candida sentì l'aspra botta tirata contro suo padre e si morse le labbra.

– Ad ogni modo: diss'ella vivacemente di ripicco; quando uno ha del merito personale, per piacermi nella sua compagnia, io non istò a domandargli il suo albero genealogico.

Amedeo Filiberto tornò ad inchinarsi come prima.

– E voi fate molto bene. Ma il mondo è più curioso e più esigente di voi, e quando vede un cotale mettersi innanzi sulla scena del mondo vuol sapere d'ordinario d'onde venga, che cosa faccia, di dove tragga i mezzi delle spese che non va risparmiando. E allorchè si viene a scoprire – imperocchè badate bene contessa che tosto o tardi quel benedetto mondo riesce a scoprir tutto, e se trova troppa difficoltà a scoprire il vero, inventa, che è peggio, ed inventando anche, molte volte indovina; – allorchè si viene a scoprire che il brillante giovane di cui si comincia ad occupare l'attenzione del pubblico non ha famiglia di sorta, è capitato non si sa di dove, come un fungo sorto improvviso di terra, non ha capitali nè tenute da dargli la rendita che spende, giuoca come un disperato…

– Anche voi giuocate, signor conte: interruppe con vibrato accento la moglie.

Il conte si tirò su della persona colla più superba mossa del mondo.

– Vi prego di non offendermi con siffatti confronti. Io dietro la mia passione del giuoco posso mettere il patrimonio degli Staffarda…

– E quello di vostra moglie: disse Candida vivamente scoccandogli un'occhiata più maliziosa ancora della interruzione.

Fu la volta del conte di mordersi le labbra. Stette un poco, e poi riprese a dire senza rilevare la frecciata:

– Quando, dicevo, un giovane senza mezzi di fortuna la sciala da ricco, vivendo in una intimità poco onorevole con una donna cui per rispetto alle vostre orecchie non voglio qui qualificare…

La contessa sussultò come riscossa da una violenta offesa. Si drizzò della persona che teneva abbandonata sul seggiolone, ed esclamò vivacemente:

– Non è vero, non è vero; questa è un'infame calunnia.

Il conte con una impertinente placidità le fe' cenno colla mano di calmarsi, e poi disse con accento tranquillamente sardonico:

– Pour Dieu! contessa, voi prendete fuoco più d'un zolfino. Ora io vi prego di due cose: prima di ascoltarmi con un po' di pazienza e non interrompermi, se volete che più presto io ne venga a capo; secondo di ritener bene che un conte Langosco non si fa mai eco d'una infame calunnia, per ripetere la vostra non troppo misurata espressione.

Candida si lasciò ricadere contro lo schienale della poltrona, come rassegnata ad udire le parole del marito.

– Or dunque, continuò questi, avevo l'onore di dirvi che il mondo curioso, pettegolo, mormoratore, maledico, anche calunniatore so volete, vedendo di queste cose e sentendole e ripetendole, si fa troppo agevolmente il concetto che quel cotale in siffatte condizioni si guadagni le sue rendite colla protezione della donna perduta, che piuma i merli ricchi in favore dell'amico povero…

Candida non disse nulla, ma il parafuoco aveva dei movimenti convulsi nelle sue mani, e il suo piedino batteva con febbrile agitazione sui fiori del ricco tappeto.

Il marito si curvò verso di lei con una cortesia ed un'amenità che le tornavano più irritanti di qualunque altra cosa.

– Ritenete bene, contessa, che io qui ora non affermo nè contesto nulla di nulla. Ripeto quello che dice il mondo e non altro.

La contessa non si contenne oltre.

– Il mondo, interruppe ella con voce che invano voleva render calma: il mondo dice altresì che fra quei merli di cui lamentavate poc'anzi la sorte d'esser piumati da quella donna, si trova eziandio il conte Amedeo Filiberto.

Ed egli a rispondere con cinica tranquillità:

– Voi spostate la quistione, cara contessa. È possibile che il mondo, dicendo ciò che voi avete ripetuto adesso, non dica nemmanco una bugia. Ma siete troppo intelligente per non capire come in questa commedia la parte onorevole sia di chi lascia le proprie spoglie, non di chi vive delle altrui…

– Io non so vederci nulla d'onorevole per nessuno: disse seccamente la giovine donna.

Il marito s'inchinò di nuovo a suo modo.

– Soit!… Ma, se vi piace, non divaghiamo oltre, per non prolungare fino al mattino questo colloquio che è per me un favore, ma che dubito possa essere per voi di molto divertimento. Quando adunque il mondo vede un giovane come quello di cui abbiamo detto, usare con troppa frequenza intorno ad una dama che è uno dei più begli ornamenti d'una sfera sociale a cui egli non appartiene, il mondo incomincia a domandarsi che razza di attinenze possa aver luogo fra quei due, poi biasima l'imprudenza della donna che si mette a repentaglio di voci maligne per causa di una relazione che non è degna di lei, poi ride del marito che la permette.

Candida era divenuta color del fuoco, ma lo sdegno e l'amore davano forza e coraggio al suo animo. Ebbe l'ardimento di guardar bene in faccia suo marito e gli disse con voce ferma e vibrata:

– Voi volete dire che mi sono compromessa?

– Il cielo me ne guardi! Per chi mi prendete voi, madama? La moglie del conte di Staffarda non può essere compromessa mai! Sapete bene che vi copre il mio blasone – e la mia spada.

Fu la volta di Candida d'inchinarsi leggermente.

– Ma, continuava il conte, non voglio, palsambleu! che si rida di me. Vi ricordate, contessa, il colloquio che avemmo insieme in quel fortunato giorno che voi consentiste ad essere mia moglie? Io vi dissi: libertà intera per tuttedue, ma guardiamoci dalle ignobili catastrofi del mondo borghese, rispettiamo il nostro nome a vicenda…

La contessa proruppe con impeto sotto l'impressione del traboccante sdegno:

– E l'avete voi rispettato, signor conte? Vi rispondano le vostre ballerine, le vostre mantenute, le vostre orgie notturne, in cui gettate non solo le vostre, ma anche le mie sostanze – quelle sostanze per cui unicamente mi avete fatto regalo del vostro nome.

– Ah contessa: esclamò egli colla solita calma: voi uscite di misura. Questi emportemens non sono da voi. Badate che correte rischio di cadere in una discussione da bottegaio…

Ma la donna sempre sotto l'impulso di quella concitazione:

– Eh! che cosa m'importa la roba mia? Quel che mi cale è la mia libertà. Non sono io più padrona di accogliere chi mi pare e piace? Vorreste voi far delle esclusioni nel mio salotto e impormi la presenza o l'assenza di questi o di quelli?

Il conte levò in alto una delle sue belle mani affilate in atto di protesta.

– Dio mi guardi! Diss'egli.

– Ed io vi dico, seguitava la contessa, che ciò non vorrei tollerare a niun patto… A niun patto, capite?

S'alzò in piedi quasi di balzo, e piantandosi in faccia al marito in atto pieno di risoluzione, soggiunse:

– Oh volete che vi parli affatto schietto? Quella libertà che mi avete promessa mi è più cara di quelle fortune che vi ho recate in dote; queste vi lascio manomettere senza opposizione, ma la prima non lo permetterò mai. Alla conoscenza, alla relazione, all'amicizia di quel giovane ci tengo più che a tutto il resto, e non sono disposta a rinunciarvi nè per farvi piacere, nè dietro vostro ordine. A me non salta neppure in mente d'imporre a voi di simili sacrifizi; lasciatemi quindi fare anche me a modo mio. In ogni caso, ve lo dichiaro apertamente, sono disposta a spingere le cose a qualunque estremo – anche ad una separazione.

– Tudieu! contessa, esclamò il marito colla sua cinica freddezza, come vi scaldate! Queste cose potreste dirle senza incollerirvi come una bourgeoise. E poi che smania è la vostra di ficcarvi sempre in mezzo la quistione del danaro? Fi donc! Non è degno di voi codesto… Una separazione fra di noi! Mai più affediddio! Sapete qual è l'intesa delle mie parole? Quella di trovar modo insieme noi due, da buoni amici, di evitare ogni scandalo. Io sono venuto qui, l'anima piena di pacifiche intenzioni per darvi qualche buon consiglio in proposito. Pensatevi se vorrei mandare la cosa ad un punto in cui lo scandalo avverrebbe il massimo possibile ed irrimediabile. No, no, signora contessa. Voi siete sotto la protezione del nome di Langosco, e non voglio che la perdiate, non voglio che mi priviate del vantaggio che ora posseggo di dare un bravo colpo di spada al primo cialtrone che osasse pronunciare una parola men che misurata sul vostro conto… Ma voi, benedette donnine, non avete mai la prudenza più necessaria: prudenza nello scegliere bene, prudenza nel regolarvi.

La contessa fece un atto come se volesse interrompere; ma egli non le lasciò dire.

– Capisco, soggiunse: quanto alla scelta non c'è più da parlarne; è troppo tardi. Lasciamola lì. Ma quanto al modo di fare, ah contessa, permettete ch'io vi dica che vi siete mostrata d'una ingenuità affatto puerile. Quel cotale accoglietelo quanto vi piace a huis clos, ma non trascinatevelo dietro a farne mostra nel mondo, que diable!

– Che cosa ne vorreste conchiudere? Domandò Candida guardando sempre risolutamente in faccia il marito.

– Voglio conchiuderne che allora provvederete di meglio a voi medesima ed alla mia dignità, quando farete che il signor dottore – si docteur il y a – conversi con voi così sovente come vi piace, in segreto, ma il mondo non vi vegga mai più insieme, e ch'e' non si trovi mai sul mio passaggio, nè nel vostro salotto, nè altrove.

La contessa tacque alquanto sotto l'evidente effetto d'un po' di mortificazione.

– Signore, diss'ella poi, dopo un poco: le spiegazioni della mia condotta…

 

Il marito l'interruppe con quel suo atto della destra, di cui pareva compiacersi perchè metteva in mostra tutta la bellezza della sua mano.

– Ah! non ne voglio avere nessuna. Che cosa mi credete? Un marito da moderno dramma francese? Salvate le apparenze, io non vi domando altro. Avrei potuto prima darvi quel consiglio che ho accennato poc'anzi: ma ora…

Si curvò nelle spalle ed allargò tuttedue le braccia come per dire: è fatta e pazienza!

– Enfin, continuò egli, possano le cose volgere il meglio possibile a seconda del vostro capriccio, senza che mi mettiate nella necessità di farvi vedova di me – o di lui.

Candida si sentì l'anima offesa assai più da quel cinismo che non sarebbe stata dai più crudeli rimbrotti. Una profonda amarezza l'invase. Guardò alla sfuggita il sogghigno di quell'uomo corrotto a cui la Chiesa e la legge avevano unito tutta la sua vita, e le parve non che attenuata, ma quasi legittimata la sua colpa.

Ella tornò a sedere con una scioltezza quale avrebbe potuto avere in un colloquio indifferente colla persona che meno le ispirasse soggezione; ed aggiustandosi le sottane, disse al marito con accento di leggerezza in cui non avrebbe avuto torto chi avesse creduto scorgervi una tinta di disprezzo:

– E gli è per dirmi tutte queste belle cose da sermone che voi siete venuto in un'ora così insolita ad invadere il mio boudoir?

– No: rispose il conte: precisamente non è per questo. L'occasione ha mosse le mie parole. Certo non è ch'io non creda quell'argomento abbastanza di rilievo per dar ragione alla mia insolita comparsa; ma il vero è che io veniva per un'altra bisogna di cui mi occorre parlarvi.

– Ah ah! Esclamò la contessa guardando fisso il marito, mentre questi pareva tutto intento a scacciare colla punta affilata delle sue dita dalla rivoltura ricamata del panciotto nero qualche grano di polvere che non c'era. Che cos'è questa bisogna?.. Ma volete voi star lì dritto come un piuolo tutta notte? Sedetevi una volta.

Il conte tirò presso al fuoco una poltroncina e vi si gettò su abbandonatamente.

– Come volete, contessa. Già, gli è una cosa spiegata in due parole. Sedendomi temevo di ispirarvi la paura d'una lunga conferenza; rassicuratevi, non è per tutta la notte che avrò l'onore di trattenervi, ma durante cinque soli minuti. Ecco di che si tratta. Il nostro intendente è il più onesto degl'intendenti. Quando si caccia in capo di rendermi i suoi conti mi annoia per un'ora con cifre interminabili alle quali io non capisco nulla. Questo benedett'uomo mi è venuto testè a far tanto di capo per certe faccende che io non so spiegarvi e che son certo, ancorchè ve le spiegassi, voi non sapreste capire. Non siamo di quel legno di cui si fanno i computisti, noi. Bref! conchiuse, dopo avermi fatto sbadigliare senza pietà, che occorre un certo atto per aver certi capitali a pagare certe partite, sotto il qual atto è necessaria, non che la mia, anche la vostra firma. Quell'originale mi proponeva di venire egli stesso da voi a dimostrarvi la qualità dell'affare e la necessità del medesimo. Vi ho voluto risparmiare tanto fastidio. Allons donc! gli dissi: queste son cose in cui non si ha da intromettere nessuno fra il conte e la contessa. Ed ecco il perchè io son qua. Ho domandato all'intendente: – Senza tante chiacchere, voi mi affermate in parola di galantuomo che codesto è necessario e che gl'interessi della contessa non ne sono menomamente lesi? – Egli me l'affermò. – Bene, io soggiunsi allora, quando sulla fede della vostra parola avrò ancora io affermato il medesimo alla contessa, ella mi crederà del pari, e sarà un affar finito. E voilà!

Tacque e si diede a lisciarsi e ripulirsi le unghie con un piccolo ferruccio che trasse dal taschino del panciotto. La contessa rimase un istante senza rispondere. Era evidente che la sottoscrizione di quella carta da parte sua equivaleva ad un qualche sacrificio di sue sostanze per trovare nuovo modo di procurar denari alla prodigalità del conte. Ella ebbe un momento il pensiero di non far così ad occhi chiusi; di mettere in campo la sua ignoranza degli affari per proporre al marito spiegasse la cosa al barone La Cappa, e dire ch'essa allora soltanto avrebbe firmato, quando il padre vi consentisse. Ma non osò. Ebbe paura prima del sogghigno con cui il conte le avrebbe fatto capire che quello era un diportarsi, come diceva egli, da bourgeois: poi rapidamente avvisò come quella domanda inchiudeva quasi un tacito patto che il conte veniva proponendole: di accordarle maggiore ancora quella libertà ch'essa invocava dietro il compenso della sua firma. Come ardire di rifiutarsi a quella domanda dopo ciò che era avvenuto e che s'era detto poc'anzi fra loro due?

Dopo due minuti di silenzio Candida disse bruscamente:

– E voi avete lì quella carta?

Il conte s'inchinò in segno affermativo.

– Date qui. Prese il foglio che il marito le porse ed andò ad un piccolo tavoliere elegantemente intarsiato, su cui c'erano un bellissimo buvard ed un calamaio lucente d'oro.

– Dove ho da firmare? Domandò essa, senza gettare neppure un'occhiata su quanto era scritto in quella carta.

– Lì al fondo: rispose il conte alzandosi egli pure e venendo presso a lei. Così va bene.

Candida gli restituì il foglio aperto, colla sua firma; il marito lo prese e lo accostò al fuoco per farvi asciugare l'inchiostro.

– Or dunque, diss'egli, non mi resta più che tornare a domandarvi perdono dell'avervi recato sì inopportuno disturbo.

Ripiegò il foglio e se lo mise in tasca, poscia prese la mano di Candida e glie la baciò con fredda galanteria.

– Buona notte, contessa: e ricordatevi sempre che in ogni qualunque caso vi occorra il consiglio o l'aiuto d'un amico, io sarò sempre tutto per voi.

Girò sui suoi talloni e se ne partì, senza che Candida, la quale gli aveva abbandonato la sua mano affatto passivamente, pensasse pure a rispondergli, nè dirgli una parola.

Quando fu sola, la contessa si lasciò ricadere su quella poltrona su cui era seduta prima. Aveva l'anima confusa e turbata, ed insieme un vuoto tremendo in essa. Non si sentiva appoggiata da nessuna parte, non sentiva appo nessuno il caldo d'un vero affetto. Fra quell'amante e quel marito si trovava in mezzo a due egoismi che la sfruttavano. Una profonda melanconia l'assalse; si conosceva isolata nella vita, delusa in ogni sua aspettazione.

Il conte rientrò nel suo appartamento, lieto di avere dalla firma di sua moglie nuovo mezzo a fare rovinosi imprestiti, che a lui troppo oramai oberato, e colla inalienabilità del suo patrimonio, non si volevano più accordare da nessun usuraio.

Il domani Gian-Luigi riceveva il seguente bigliettino scritto dalla contessa in francese:

«Non venite stassera al teatro Regio. Ho il dolor di capo, ci vado di cattivo umore; sono persuasa che la mia acconciatura mi starà male. Vi vedrò al solito luogo, all'ora solita, domani».

Il medichino spiegazzò quella cartolina profumata fra le mani e lasciò sfuggire una espressione di contrarietà che andava sino alla collera. Candida aveva ceduto alla volontà del conte che le aveva imposto questo sfratto del giovane borghese dal palchetto frequentato dal fiore il più sopraffino dell'aristocrazia? Questo sfratto era egli il precursore d'un altro più grave ancora dal superbo palazzo degli Staffarda? La contessa si era ella indotta a rinunciare pubblicamente all'attinenza d'un amico non titolato per non compromettere l'orgoglio nobiliare della schiatta, contenta di abbandonarsi pienamente in segreto nelle braccia d'un amante plebeo? Se ciò era, la cosa non conveniva niente affatto al nostro eroe. Egli, per certi suoi calcoli, ci teneva non solo ad essere, ma a comparire l'amante di una delle prime dame della città; ad aver libera entrata nelle sale aristocratiche d'una famiglia fra le più illustri ed antiche e godervi d'un trattamento di pari a pari – o poco meno – con tutti i superbi blasonati che premevano coi piedi i tappeti di quelle sale. Ciò avrebbe messo suggezione alla curiosità ed alle ipotesi della gente; avrebbe dato a lui ed alle sue cose una onorabilità indiscutibile e posto in iscacco persino quell'Argo cieco molte volte in gran parte de' suoi occhi, ma pur tuttavia sempre più curioso d'ogni curiosità femminile, voglio dire la polizia.

Ma s'egli si lasciava allontanare così di piano, e chiudere l'uscio della sala in faccia da quella stessa mano che gli apriva l'usciolo segreto del boudoir, questo suo intento era irremissibilmente perduto. Inoltre non voleva Gian-Luigi che il conte potesse pur pensare ch'egli si fosse tenuto lontano per paura o suggezione di lui. Gli veniva in mente il sogghigno che avrebbe fatto il marito della contessa quando non avesse visto a comparire di tutta sera quel giovane ch'egli il giorno prima aveva già fatto partire dallo stanzino della moglie, e Gian-Luigi sentiva il suo sangue, più orgoglioso d'ogni altro mai, rimescolarglisi addosso. Egli aveva concepito l'audace disegno d'imporsi anche al conte, e mentre già parevagli per lo addietro essere bene progredito per quella via, ecco che ad un tratto e' se ne sarebbe lasciato sopraffare.

Si vestì con aggraziata eleganza e nel pomeriggio si recò al palazzo Langosco un po' prima dell'ora in cui la contessa soleva aprire il suo salotto alle visite. Il domestico a cui si presentò gli disse che la contessa, poco bene di salute, quel giorno non avrebbe accolto nessuno. Gian-Luigi non si mostrò nè stupito, nè offeso il meno del mondo. Chiese vedere la cameriera della contessa per sapere più esatte le notizia della preziosa salute della padrona. La fante – che era sempre quella medesima – fu chiamata, ed essa e il medichino si raccolsero a parlar sotto voce nella strombatura d'una finestra.

– Dimmi il vero, cominciò Gian-Luigi, l'ordine di non ricevere, riguarda me soltanto.

– No: rispose la cameriera, la quale colla famigliarità del suo contegno ben mostrava come fosse in intima attinenza col giovane: riguarda tutti.

– Quest'ordine è stato il conte a darlo, oppure la contessa?

– La contessa. Il conte non s'immischia mai in quanto fa o non fa sua moglie.

– E il motivo di quest'ordine?

– Non so. Veramente la contessa sta poco bene. È ancora in letto, e di tutto il giorno non ha preso che un consumato.

– Sai tu s'ella vada al teatro questa sera?

– Credo che non lo sappia ancora nemmanco ella stessa. La sarta le ha portato l'abito e la modista gli ornamenti della pettinatura. S'è fatto mettere innanzi ogni cosa e la sta guardandoli, senza aver detto ancora nulla di ciò che voglia fare.

– Bisogna che tu la spinga per quanto più potrai ad andarci. E se ci riesci mi farai piacere. Domattina poi, quando ella ci sia stata, conviene che tu venga da me a dirmi con qual umore essa è tornata a casa, che ha detto, che ha fatto, se alcuna cosa è successo fra lei e suo marito.

La cameriera guardò con occhio sfavillante Gian-Luigi e disse con maliziosa modestia:

– Avrò da andare a casa sua, soltanto se la contessa sarà stata a teatro?

Il giovane sorrise.

– Ah biricchina! Vienci ad ogni modo. E siccome può essere che più per tempo io abbia qualche occupazione, fa di venirci verso le dieci che io procurerò d'esser libero affatto per poterti dare un'udienza come ti piace.

E in ciò dire fece scivolare uno scudo nella mano grassetta della giovane, la quale sorrise tutto lieta e della mancia e più ancora delle parole del bel medichino.

Questi uscì, si recò al tiro di pistola, dove si esercitò per un'ora, fu al caffè Fiorio dove mostrò al bigliardo una valentìa maggiore ancora del solito, andò a pranzo da Trombetta, e fece meravigliare i commensali della tavola da pasto della vivacità e dell'allegria del suo umore e del suo ingegno; poscia, fumato un sigaro d'Avana passeggiando lentamente fra la calca dei portici, andò a casa a vestirsi coll'abito nero, ed entrò verso le nove co' suoi guanti paglierini freschi freschi alle mani nel caldo ambiente della platea del Teatro Regio.

Un timore aveva egli nell'animo: quello che Candida non fosse andata al teatro. Ma questo timore fu dileguato di subito. Gettò egli tosto un'occhiata al palco di second'ordine che apparteneva alla contessa, e la vide abbagliante di bellezza e di gioie, in tutta la pompa d'una sfarzosissima acconciatura.

Candida vide tosto ancor essa, appena giunto, il suo amante nella platea. Gli occhi di lei si volgevano spesso alla porta d'entrata; ella avea scritto a Luigi di non venire, e pur non sapeva se in quel momento le fosse più caro ch'egli obbedisse a quel cenno o meno. La disobbedienza non sarebb'ella stata un segno del vivo desiderio di vederla, e quindi un segno d'amore? Forse, dov'egli non si fosse mostrato, questo sentimento sarebbe stato quello che avrebbe finito di predominare nell'animo della contessa, la quale avrebbe preso il facile rassegnarsi di lui per prova d'una quasi indifferenza; eppure al momento in cui i suoi occhi furono come per influsso magnetico chiamati alla platea dalla presenza di lui, Candida provò una viva contrarietà. I suoi lineamenti si atteggiarono rapidamente ad una espressione di dispetto e gli occhi lanciarono una fiamma di rimprovero al sopraggiunto per volgersi quindi altrove, mentre nell'aspetto e nelle parole essa si metteva ad ostentare un'allegria che non aveva prima, e degnava di sorrisi e risatine, che non meritavano punto, i discorsi dei visitatori del suo palco.

 

Gian-Luigi non apparve niente affatto mortificato di questa poco lusinghiera accoglienza; fece un suo superbo sorriso, e ripulito ben bene da ogni appannatura i cristalli del suo elegante cannocchiale che aveva preso, salendo la scala, dal custode che li tiene in guardia a comodo degli abbonati, si diede con attenzione ad esaminare la sala.

Il teatro era affollato da uno di quei pubblici eleganti che ora ci si vedono raramente, ma che allora, sotto il regno di Carlo Alberto, era il pubblico solito agli spettacoli di quella massima scena torinese. I due primi ordini di loggie erano riservati solamente all'aristocrazia, la quale mandava in gran pompa le sue dame cariche di titoli, di quarti e di diamanti; al terzo ordine cominciava a potersi insinuare la borghesia, quella più ricca e che avesse uno zampino nelle cariche dello Stato, magistratura o ministeri; nel quarto e quinto potevano introdursi, non senza stento il commercio e l'industria, cedendo il passo però all'ozio ed alla nullità ammantati sotto il comodo titolo d'avvocato, comprato con una facile laurea. Occhi belli e brutti, gioie ed ori, colori smaglianti e spalle nude, fiori artificiali e guancie imbellettate brillavano da tutte parti. Le regine della moda e della bellezza attiravano su di sè maggiormente l'attenzione, e gli abiti neri e le spalline lucenti della platea se le additavano a vicenda dicendo il nome. Alle bellezze nobiliari dei primi ordini faceva però quella sera concorrenza assai potente una strana bellezza che sfoggiava uno sfarzo impertinente in una mossa piena d'audacia nelle alte sfere del quarto ordine, e molti erano i cannocchiali che si appuntavano sino a quel rimoto cielo a contemplare quell'astro non ordinario di tali plaghe, che ci si mostrava come una stravagante cometa.

Era una donna giovane, sola, con apparenza tutt'altro che di modestia. Aveva una massa enorme di capelli d'un biondo che tirava sul rosso i quali facevano intorno al suo volto non brutto, ma più provocante che bello, un'aureola d'oro; aveva certi occhi di colore indefinibile, che ora ti parevano azzurri e limpidi come un cielo sereno, ora d'uno scuro verzigno come un mare commosso. Aveva forme voluttuose che si vedeva compiacersi ella di mettere in mostra con procace atteggio. Le labbra carnose, rosse del color di sangue che spiccia fresco dalla vena, spiravano una voluttà che quasi direi feroce e potevano essere indizio ad un osservatore per giudicar male degli istinti di quella creatura. Si vedeva insomma che essa apparteneva a quella razza di donne-vampiri, che, senza ispirar mai un vero amore, pur tuttavia s'impadroniscono del senso, dell'anima, del cervello di quanti uomini sono troppo deboli e troppo incauti per non romper tosto la prima maglia della rete gettata su di loro, e fisicamente e moralmente li depauperano, li spogliano, come d'ogni avere, così d'ogni generoso affetto, d'ogni virtù; Dalile che fanno un debole e vile d'ogni più vigoroso Sansone.

Il contegno di questa donna era tutto una provocazione ai sensi e dirò anzi ai vizi degli uomini, una sfida all'onestà delle donne, in una calma che si sarebbe potuta dire cinismo; una calma da paragonarsi a quella d'una tigre in riposo, pronta a balzare al primo svegliarsi d'un istinto di sangue. Sotto alla pioggia di luce del lampadario che gettava i raggi delle sue fiammelle su quelle forme da etaira greca, le carni sode, leggermente abbrunate della sirena avevano dei riflessi, che quasi direi metallici, pieni d'incanto inesplicabile. Vestita d'un color di fiamma viva, ella spiccava sulla doratura monotona di tutto il teatro, come una nota acuta in un canto grave e solenne. Era, per dir così, una piacevole disarmonia. L'acconciatura di lei appariva come il portato d'un'arte selvaggia, istintiva, ma tanto più efficace; ed aveva intanto il merito rarissimo di uscir fuori dello stampo comune. Possibile che non piacesse, ma impossibile che su di lei non si fermasse l'attenzione di chicchessia.

Il medichino che seguendo la direzione dei cannocchiali della platea scoprì ancor egli la bizzarra, brillante figura di quella donna, la quale sporgeva fuori del parapetto il suo busto audacemente scollacciato, fece un moto di contentezza e schiuse le labbra ad un sorriso. Aveva riconosciuto la Leggera.

Ella vide pure Gian-Luigi in platea; i loro due cannocchiali s'incontrarono e si scambiarono un saluto da intimi amici ed un segno d'intelligenza. La Leggera fece un cenno che invitava a salire da lei il medichino, e questi rispose con un leggero atto di acconsentimento.

Ora la contessa, quantunque guardasse in apparenza in tutt'altra parte, per uno di quei meravigliosi sguardi delle donne che vedono ciò appunto a cui non volgono gli occhi, la contessa si accorse di questo scambio di segni e ne sentì una penosa puntura al cuore. I suoi sospetti intorno alle relazioni fra Luigi e quella donna non erano punto svaniti; ed ecco quei semplici cenni, ad un tratto confermarglieli ed afforzarglieli. Un dubbio crudele subitamente l'assalse; non era per lei che Luigi era venuto al teatro; era per quella donna ch'essa sentiva fatale al suo destino. Vide tosto dopo Luigi partirsi dalla platea, e pochi minuti di poi la Leggera rivolgersi all'interno del suo palchetto, dare un saluto e una stretta di mano a qualcuno, e rimanere colle spalle voltate al pubblico per confabulare vivamente con chi era entrato e stava indietro nella loggia affine di non esser visto. Candida non dubitò punto che Luigi trovavasi colà. Senza comprenderne il perchè i visitatori della contessa s'accorsero che l'umore di lei diventava più bizzarro e più forzata la sua falsa allegria.

– Che? Tu qui! Disse Gian-Luigi, entrando nel palchetto della Leggera. E non s'avvisa nemmanco la gente, di guisa che se un azzardo non mi avesse menato in teatro io non ne avrei saputo nulla!

La Leggera guardò il giovane bene in faccia con que' suoi occhi color di mare.

– Ebbene? E con ciò?

– Con ciò voglio dire che se avessi avuto bisogno di vederti non avrei saputo dove prenderti.

– Il bisogno di vedermi, tu ce l'hai quando io ho da esserti utile a qualche cosa.

Il medichino prese la mano inguantata della donna e la strinse, mentre i suoi occhi mandavano sulle giovanili, seducenti attrattive di lei l'omaggio di accesi desiderii.

– Oibò! oibò! Diss'egli in tono di galanteria. Possibile che mi giudichi così male! Ho bisogno di vederti quando mi occorre ricrearmi l'animo nell'amor tuo.

La Leggera scosse l'abbondante sua fulva capelliera.

– Ah! ti conosco, bel mobile: soggiunse. Amore tu per una donna? Eh via! Cerchi in noi povere creature uno spasso od uno stromento, a seconda, ma del resto…

Con una crollatina di spalle espresse, meglio che non avrebbe fatto colle parole, la fine della sua frase.

– Ah Zoe! Tu fai le parti alla rovescia e attribuisci a me colle donne ciò che tu usi fare degli uomini.

I loro occhi s'incontrarono, e sorrisero in quella ambedue come riconoscendosi e confessandosi pari.

– Lasciamola lì: rispose Zoe, aggiustandosi al seno proeminente l'orlo della veste scollacciata. Forse gli è appunto perchè sei tale che mi piaci… Imperocchè, brutto mostro che sei, tu mi piaci.