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La plebe, parte I

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«La mia oscitanza e il mio imbarazzo apparvero certamente a quel bravo sig. Defasi (chè così chiamavasi) la timidità naturale e la pena impacciosa di un giovanetto che si trova con tali condizioni infelici nel mondo; epperò, compassionatomi assai e confortatomi a sperar bene nell'avvenire e nell'aiuto della Provvidenza, mi domandò che cosa volessi fare e quali progetti più mi arridessero. Risposi che ero fermo nella volontà di guadagnarmi la vita con qualunque sorta di lavoro anche il più umile, purchè onesto; ed egli, lodatomi assai di queste buone intenzioni, mi disse che tornassi poscia il domani da lui che avrebbe pensato ad alcun modo di darmi intanto qualche occupazione, e datomi, del piccolo servigio che gli avevo reso, un largo compenso che potesse bastare ad ogni mio bisogno per quella giornata, mi congedò con affettuose parole.

«Il primo mio pensiero, uscendo dalla bottega del sig. Defasi, fu quello di rifocillare il mio povero corpo affamato. Entrare in un'osteria un po' ammodo, con quei panni addosso, non osavo; più fiate passai e ripassai innanzi alle lucenti invetrate su cui stava scritto in caratteri d'oro restaurant, e la eleganza di quelle sale, che a me pareva allora la più sontuosa del mondo, mi toglieva ogni coraggio di pure approssimarmi a quelle tavole di marmo, a cui vedevo, traverso i cristalli, seduti signori riccamente vestiti.

«Mi ricordai ad un punto che non molto lontano dalla casa di Nariccia, nelle strette vie della parte più antica della città, eravi una bettola, della quale le apparenze, gli accorrenti e tutto erano in quelle più umili condizioni che alle mie si convenissero; e mi diressi allora con passo deciso a quella volta. Quella brutta e sporca bettolaccia – sporca moralmente e fisicamente – rividi stassera dopo assai tempo. Là dentro condussi a sfamarsi, come sei anni sono c'ero entrato io, quel povero bambino che ti ho detto aver trovato colà, in quelle luride viuzze, sul fango del lordo selciato. Al momento di porre di nuovo il piede in quel covo, uno strano superstizioso timore mi assalse. Fra quel tempo di cui ora ti narro e questo in cui vivo circondato dalla vostra amicizia mi pare sia avvenuta fortunatamente una soluzione di continuità. La tua carità, salvandomi dal suicidio, la vostra carità di tutti, facendomi intorno quasi un ambiente di famiglia, hanno scavato sto per dire un abisso tra quelle prime prove della vita e queste che attualmente mi toccano. Entrando in quella povera e sconcia osteria, mi sembrò per un momento ch'io movessi incontro a quel destino che oso sperare mi abbia abbandonato e mi esponessi al pericolo ch'esso mi riafferrasse. Dovetti superare una istintiva ripugnanza, quasi ammonimento di minacciante sventura.

«Quella bettolaccia, che ora ritrovai tal quale, era frequentata dalla peggiore ciurmaglia in cui si reclutano i ribelli all'ordine sociale, ladri ed assassini. I miei cenci non erano in disaccordo colla povertà del luogo e colla qualità degli avventori. Alla miseria ed all'ambiente di essa ero ausato quant'altri mai, perchè mi trovassi colà come a mio posto. Per pochi soldi ebbero ristoro i miei bisogni. Per più tempo di seguito presi poscia colà i miei pasti, finchè un giorno mi si fece innanzi in quella fetida, fumosa atmosfera, la faccia maliziosa e malvagia di Graffigna. Egli riprese da capo le solite insinuazioni sarcastiche e le tentazioni. Risposi seccamente che avevo trovato onesto lavoro ed onesto guadagno; abbandonai issofatto quel lurido antro, e da quel giorno non ci entrai più.

«L'onesto lavoro e l'onesto guadagno l'avevo trovato per davvero in casa del signor Defasi. La fortuna questa volta mi aveva sorriso, e dalla casa di Nariccia conducendomi a quella del libraio aveva cambiato la mia vita in tal guisa, che gli era come avermi fatto passare dai rigori i più crudi d'un triste inverno alla mite e soave temperie d'una fiorente primavera.

«Tornato dal sig. Defasi, com'egli mi aveva detto di fare, il giorno dopo quel nostro incontro, io n'era stato accolto con ancora maggiore umanità. In breve egli aveva assestato fra noi le cose a mio sommo vantaggio. La buona piega presa dal suo avviato commercio gli consentiva di avere un commesso, e mi proponeva di esser quello. Ragionevole era lo stipendio; e per mettermi in grado di provvedere alle mie prime necessità, ebbi una conveniente anticipazione di alcune mesate del medesimo. Egli non poteva prendermi seco ad abitare. Dovetti adunque cercarmi un alloggio, che trovai in quelle vicinanze in un'allegra soffitta, contro i vetri della quale veniva sollecitamente a percuotere coi suoi raggi dorati il sol nascente. Là vivevo solo, ma non sentivo la solitudine, imperocchè quasi tutte le ore del giorno passassi nel fondaco, e in quelle poche della sera e della mattina avessi meco la compagnia de' più alti spiriti che furono nell'umanità, i quali, i portati della loro immaginazione, della scienza, fecero concreti nelle pagine di libri immortali…

«Ah! che felice tempo fu quello ch'io passai nella bottega del libraio e nella mia povera soffitta! La mia intelligenza si aprì allora a tutti i più severi ammaestramenti, e con quell'ardore che possiede la mia natura si gettò sopra tutte le parti del sapere e in ognuna fece bottino, confusamente, incompiuto, disordinato, ma con tanto trasporto dell'anima!.. Oh! le sere ch'io passava studiando al lume della lucernetta, sere beate, in cui pareva che nel mio pensiero si ripercotesse tutto il pensiero dell'umanità, che innanzi alla mia mente venissero a schierarsi tutte le idee che sono e furono e saranno patrimonio dell'intelligenza di questa audace stirpe d'Adamo! Oh le mattinate che io stavo meditando in faccia al sole sorgente nella sua aureola dorata, con sotto i piedi le miserie della città sonnecchiante, sopra il capo l'infinito! Chi me le rende quelle ore? Chi può dirne la soavità e la bellezza?

«Coll'erudizione qua e là afferrata, senza metodo e senza logica distribuzione accatastata nel mio cervello, sobbolliva pure, non soffocata, ma forse anco fatta più viva, una potente fiamma di poesia; quella fiamma che avevo sentito desta fin dai primi giorni, innanzi ai meravigliosi spettacoli della natura; quella fiamma che non aspettava se non la forza meravigliosa d'un affetto divino per diventar luce raggiante ed illuminare i misteri del mio cuore, i segreti della vita, le tenebre dell'universo…

«O poesia! Come t'amai e come t'amo, figliuola divina, che sei il sole morale nell'universo infinito delle intelligenze! E quanto ti debbo di gioie tremende, di superbi conati onde l'anima s'innalza, di voluttà supreme nella vita mentale! Ben disse un poeta che tu sei un elisire, di cui basta una goccia nel sangue d'un uomo a dargli più devozione alla patria, più amore alla sua donna, maggior grandezza all'esistenza. Coloro che entro le vene ne hanno due goccie, sono i forti nella sfera politica, regnano nell'eloquenza, e dettano le ammirevoli pagine della miglior prosa; ma quegli in cui questo elisire è il liquore stesso della vita, quegli è il re del pensiero nel primo dei linguaggi.

«Poesia ed amore!.. Due termini della grandezza dell'anima umana!..»

Qui Maurilio s'interruppe; nascose un istante il volto fra le palme, e quando lo rialzò mostrò all'amico i tratti sconvolti e le guancie pallide più che non fossero prima.

– Ed ora, diss'egli, ho da svelarti il mio più caro e più importante segreto… Ma debbo io svelartelo?

Giovanni gli prese una mano e gli disse con molto affetto.

– L'ho indovinato, il tuo segreto. Tu ami! Maurilio fu riscosso da un subito tremito, quasi convulso.

– Sì: rispose curvando il capo.

– Parla, dimmi tutto…

– No… non ancora… Sono stanco, ho bisogno di rifletterci, lascia che io raccolga ancora le mie idee… La notte è passata… Questa sera ripiglierò il mio racconto, e ti dirò ogni cosa.

Un orologio suonò in quella con lenti rintocchi le sette ore.

Giovanni balzò con impeto giù del letto.

– Già le sette! E Francesco mi attende! Per fortuna ho buone gambe e, quantunque la sua casa sia così lontana, in due minuti sono da lui.

Corse fuori di casa. Mario era partito. Maurilio, rimasto solo nella stanza, appoggiò la testa alla sponda del letto e chiuse gli occhi, come dormisse. Ed era un sogno diffatti quello che si svolgeva nel suo eccitato cervello, ma un sogno da sveglio.

CAPITOLO XXII

Noi ci siamo riservato il diritto (se vi ricorda) di introdurci nella sontuosa festa da ballo che aveva luogo nelle sale dell'Accademia Filarmonica, quella notte appunto in cui Mario Tiburzio raccoglieva i fili della congiura per affrettarne lo scoppio in rivoluzione, in cui Maurilio raccontava a Giovanni Selva una gran parte dei casi della sua vita.

Se non vi dispiace, venite, ascendiamo anche noi l'illuminato scalone, entriamo nell'ampia, vastissima sala che sta prima nell'appartamento signorile che occupa quella eletta società in cui concorre la parte più ricca della borghesia torinese.

Le sfarzose sale fanno risplendere le infinite loro dorature alle fiammelle di migliaia di doppieri. Dalla tribuna dell'orchestra nel gran salone, piovono onde d'armonia suscitate da quanti meglio valenti artisti conta la città. In faccia all'orchestra, sopra un palco tutto coperto di tappeti di velluto con frangie d'oro, sorge il trono per le LL. MM., ed ai lati i seggi dorati per le persone della Real Famiglia e della Real Corte, dalla presenza delle quali, dietro supplicazione dei soci, la festa dell'Accademia viene onorata. Nel salone e nelle sale circostanti si accalca una folla elegante, fra gli abiti neri della quale spiccano brillantemente le decorazioni che ingemmano gli stomachi impettiti degli uomini d'importanza, i ricami indorati e inargentati degli abiti di Corte, gli spallini, i bottoni e le armi delle divise militari, e i diamanti e gli ori e le splendide acconciature delle dame.

 

Nello slargo che in mezzo al gran salone si è fatto fra la siepe fitta dei riguardanti si avvolgono in ispire concitatamente le coppie dei danzatori, cui, come sferza che flagella la trottola, sospinge ed incita il ritmo balzante della musica da ballo; mentre nelle sale vicine si allunga e si contorce come un serpente in riposo la coda di quelle coppie che lasciano ansimando affannosamente la danza e il salone da una porta, per rientrare, dopo il lento progredire traverso il cammino segnato da cordoni di seta, da un'altra porta e precipitarsi con nuova foga in quella voragine, in quel turbine della danza.

Nelle sale più lontane la folla meno densa consente ai gruppi degl'invitati di assettarsi sopra i soffici sedili e godere quel gran diletto del mondo che è il mormorare, in conversazione cui accompagna il suono travelato della musica. Colà esercita il suo impero sovrano la critica malignamente urbana, armata di malvagie insinuazioni e di più malvagie apologie; le donne passano colà al crivello le assettature di tutte le altre donne, fanno il conto addosso alle trine, alle sete, a quelle nebbie che sono le stoffe d'un abito di danza, ai gioielli, alle grazie, alla bellezza, allo spirito delle loro rivali. Ogni donna che mette il piede in una simil festa è rivale a tutte ed ha per rivale ogni altra che vi si trova. Colà si susurrano all'orecchio con sorrisi che dicon troppo le spiegazioni del lusso misterioso della tale e della tal altra; fiorisce l'aneddoto calunnioso su quelle labbra color di corallo, si lacerano con motti arguti le rinomanze di donne, da bellimbusti e da vecchi celibi che la pretendono allo spirito e che si fanno un giuoco dell'onore delle famiglie. S'incrociano, si emulano, corrono il palio, per vincere la più ingegnosamente crudele, quelle maledette ciarle che con tanta leggerezza assassinano la fama altrui.

Più in là, in una sala meglio appartata, stanno i tavolieri da giuoco. In paragone allo splendore delle altre stanze questa la troverete oscura. Sopra il tappeto verde d'ogni tavolino riflettono la luce delle candele accesevi i coprilumi bianchi all'interno, verdi al di fuori. Intorno a quei tavolieri siedono giovani e vecchi con quell'uniformità di vestire che forma, direi quasi, la livrea della gente elegante; e nascondono sotto un'urbanità ostentata ed un'indifferenza d'accatto la gioia di guadagnare e il dispetto di perdere. Fra quanti sono giuocatori in quella sala piacemi additarvene uno, la cui figura, in verità non è tale da confondersi colla massa delle fisionomie volgari.

È un uomo di età inoltrata, sulle cui sembianze un osservatore riconoscerebbe tosto che i vizi e gli abusi della vita e dei piaceri materiali andarono a gara cogli anni a togliere ogni fiore di giovinezza, ogni soavità d'espressione, ogni mostra di affettuoso sentimento. La sua fronte è calva, del colore dell'avorio antico, l'occhio grifagno, il naso adunco; un sogghigno permanente, pieno di scherno e d'ironia piega le pallide, sottili labbra tirate. Ha voce fioca e bassa, parola maligna, arguta, crudamente epigrammatica. Un egoismo che non si dissimula, un'aridità di cuore apertamente confessata con un cinismo, che per l'audacia e l'ingegnosità della forma ne impone altrui. Udendo parlare il scetticismo di quell'uomo, un'anima debole, tutto sbalordita, si prende a dubitare di ogni cosa ancor essa, e si domanda se non è una gran giunteria la virtù, se la filosofia della vita e la legge ultima dei rapporti sociali, non sono quell'egoismo di vizio avviluppato in forme eleganti, che colla vernice dell'urbanità la più squisita ride di tutto e non si dà un pensiero serio di nulla. Veste con eleganza inappuntabile secondo le leggi della moda e del gusto, senza smancerie da giovinotto che stonerebbero colla sua età, col suo stomaco curvo e colla calvizie della sua fronte. La beltà che gli è rimasta è quella d'una mano fina, ben fatta, per dirla in una parola, aristocratica, e come si usa dire e credere, vero indizio di razza.

Giuoca con ardore coperto da quella continua attenzione agli atti ed alle parole che ha un uomo in guardia contro le sue impressioni.

L'indifferenza abituale e beffarda della sua fisionomia, direste ora un po' simulata nell'atto con cui prende ed esaminar le carte da giuoco, dal valore delle quali dipende la sorte di quelle somme vistose in oro ed in argento che stanno in monete accumulate innanzi a ciascuno dei giuocatori. Dal suo occhio grigio e vivacissimo, l'unica parte del suo viso che conservi alcuna apparenza di gioventù, quasi direi di vitalità, partono a tratti a tratti lampi accesi, veri getti di fiamme, cui tosto s'abbassano a spegnere ed a velare le palpebre. Il mucchio di denari ch'egli tiene sul tappeto verde là al suo destro lato, è maggiore di quelli che stanno presso gli altri giuocatori. La sua mano affilata e bianca giuocherella sbadatamente colle monete; e soltanto alcuna rarissima volta si potrebbe notare in quella mano alcun movimento più secco, più convulso, come determinato da un sussulto, da un raggrinzamento di nervi. Un osservatore potrebbe, dopo sottile investigazione, conchiuderne che in quell'essere fatto apatico ad ogni cosa, una sola può tuttavia farne vibrare una fibra, che in quell'animo spento ad ogni passione, una ancora vi rimane e si suscita, ed è quella del giuoco. Quando perde, vede con volto inalterato passare i cumuli d'oro dalla sua alla parte dell'avversario; quando guadagna gli è con una superba freddezza che le sue dita sottili tirano le vinte monete verso il mucchio che gli sta davanti: ma gli è nel prendere le carte che la sua mano ha quelle certe lievissime contrazioni, gli è quando l'avversario le batte che il suo occhio, affissandosi su di lui, mandano quelle cotali faville.

Per sua ordinaria abitudine, ogni qual volta parla con qualcheduno, egli serra le ciglia ed usa guardare il suo interlocutore «come vecchio sartor fa nella cruna,» se non che a questo suo stringer degli occhi egli sa dare le più varie e diverse espressioni; ora di una specie di bonarietà fiduciosa, ora di una ironia profonda, ora, ed è il più frequente, d'un orgoglio che tocca l'impertinenza. Adesso ch'egli giuoca, codesto sogguardare è più intenso, direi quasi, e più maligno che mai. Da quelle sue ciglia socchiuse pare che scocchino vere puntine sottili d'acciaio a ferire gli occhi entro cui si piantano.

Questo personaggio si chiama Amedeo Filiberto Langosco conte di Staffarda; ed a quanti aveste a quel tempo chiesto di lui in Torino, tutti vi avrebbero risposto che era il più perfetto e il miglior gentiluomo che vi fosse.

Nato quando appunto era incominciata la rivoluzione francese che doveva abbattere i privilegi di casta, egli apparteneva ad una delle più antiche famiglie della più privilegiata aristocrazia piemontese. La sua stirpe feudale aveva conservato di primogenitura in primogenitura la maggior parte delle vaste tenute che erano state concesse in beneficio ai suoi antenati nella divisione delle terre fatta colla legge del più forte dai nordici invasori, a cui appartenevano. L'asse patrimoniale era stato accresciuto dalle graziose concessioni dei sovrani, alla causa dei quali essi erano stati dei primi a disposare la loro, dai vistosi stipendi goduti, dalle commende acquistate pei servigi resi allo Stato, per le arti cortigianesche presso il principe.

Il padre di Amedeo Filiberto possedeva due o tre villaggi e tre o quattro cariche di Corte. Il palazzo dei conti di Staffarda, fabbricato nuovo in uno dei quartieri nuovi della città rinnovellata dopo la pace d'Utrecht, con disegno del celebre Juvara, sta uno dei pochi monumenti di vera arte architettonica del secolo scorso che esistano in Torino. La grandiosa sontuosità di esso – forse troppo solenne – non è superata da nessun'altra, per quanto signorile, fra le abitazioni dei privati. Alla magnificenza delle forme esteriori corrisponde intieramente lo sfarzo degl'interni ornamenti ed addobbi, dipinti, intagli in legno, dorature, arazzi e tappeti; ma anche tutto questo ha un'aria solenne, a cui aggiungendosi ora la vetustà, ne riesce un'apparenza melanconiosa più che non si potrebbe dire. Sotto le ampie volte di quelle sale fatte scuriccie dalle pesanti cortine, innanzi a quelle preziose antiche tappezzerie d'alto liccio a gran personaggi ed a grandi fiorami, in cospetto a quelle forme di mobili che appartengono ad un secolo spento, uno si trova rimpiccinito, quasi perduto, come fuor di luogo, e gli pare che la sua personalità, le foggie del suo vestire, le idee che sono nella sua testa stonino affatto con quell'ambiente che là si trova.

Un inesplicabile fastidio, un'uggiosa tristezza direste che emanino da quelle pareti, che regnino sovrani in quel cortile quadrato colle finestre a cartocci di genere rococò, sotto gli alti archi di quelle gallerie, come in volto ai ritratti polverosi degli antenati, che si schierano a costa l'un dell'altro, contando la storia di dieci secoli nelle date scritte sulle cornici dalla doratura annerita dei loro quadri.

Gli era in questa temperie che Amedeo Filiberto aveva passata la più triste e noiosa infanzia che possa toccare a creatura umana.

Suo padre, ciambellano di Corte, non pensava che ai suoi cavalli, alle sue partite di caccia, ai suoi uffici di cortigiano, alle sue belle, che con iscandalo manteneva spendiosamente; la madre era tutta presa dalla galanteria, che dalla Francia di Luigi XV aveva passate le Alpi ed aveva finito per piantarsi dominatrice anche intorno l'onesta Corte di Savoia; per l'uno e per l'altra l'ultimo soggetto della loro preoccupazione era il figliuolo che il più spesso riuscivano ad obliare, come appunto era lor desiderio.

Amedeo cresceva abbandonato alle cure d'un prete zotico ed ignorante, che lo annoiava di latino mettendo tutta la sua cura a insegnargli niente, egli che con la sua prosopopea non sapeva di niente. Sotto la cotta del prete c'era il villano rifatto che era gonfio di orgoglio coi suoi pari sopra cui credeva essersi innalzato, ed umile piaggiatore verso i titolati che gli davano il pane; un che di mezzo fra il domestico e il parassita, impertinenza da questa, servilità da quella parte, la crassa ignoranza su tutto.

Il padre e la madre, il bambino sapeva appena che esistessero. Se non li avesse visti una volta alla settimana, il mattino della domenica, avrebbe potuto avere di loro la stessa idea confusa che gli davano di Dio i barocchi insegnamenti del precettore. Quel momento in cui veniva introdotto alla presenza dei genitori, era per Amedeo un momento solenne che gli destava nessuna impressione di gioia, nessun movimento d'affetto, si invece un sentimento di soggezione, quasi di paura.

Gli era nel gran salone dell'appartamento da ricevere dove stavano il conte e la contessa; questa ordinariamente seduta sopra il seggiolone, dura stecchita nel suo busto, pettinata ed incipriata in grande acconciatura, con uno specchio in mano a guardarsi il bell'effetto seducente dei finti nèi sparsi con arte sulla sua faccia imbellettata, il marito dritto per solito presso la finestra fischiando fra i denti un'aria di caccia che accompagnava col tamburinar delle dita sui vetri.

Il bambino veniva introdotto, tenuto, quasi tirato per mano dal prete. Ci entrava con una segreta riluttanza che non osava manifestarsi, ma che gli faceva sembrare sempre più fastidioso e più grave quel momento. Se lo avessero lasciato fare e' sarebbe scappato le mille miglia lontano.

– Siete qui Amedeo? Diceva con sussiego la madre, staccando per un momento lo sguardo dallo specchietto affine di volgerlo sul figliuolo. Dio! com'egli cresce giorno per giorno questo disgraziato!

Tendeva con atto solenne e di protezione le dita della sua mano sovraccariche di anelli verso il piccino, il quale deponeva un timido bacio su quelle falangi che uscivano fuori del mezzo guanto.

– È egli buono il vostro allievo, Don Tabusso? Domandava la contessa col tono indifferente di chi chiede ad alcuno le novelle del suo cagnuolo, alzando un momento i suoi occhi brillanti in faccia al prete che si profondava in una riverenza.

– Buonissimo.

Il padre lasciava la sua finestra e s'accostava a passo lento.

– Che cosa gli fate studiare al contino? Diceva svogliatamente. Il Mandosio?.. Non rompetegli di troppo la testa. Capite bene ch'egli di tutte le vostre bazzecole non ne avrà da far nulla mai.

Poneva la sua mano sul capo del figliuolo e soggiungeva:

– Ti piacerebbe più imparare la scherma e andare a cavallo, non è vero? Sta buono che fra pochi anni ti metterò il fioretto in mano, ti comprerò un cavallino e ti darò per aio un cavallerizzo.

La madre gli pizzicava la guancia destra, facendogli alcune ammonizioni a mezzo labbro; il padre piroettava sui suoi talloni da agile ballerino di minuetto ch'egli era, e il bambino veniva – sempre per mano del prete – ricondotto al fastidio grave e continuo della sua solitudine.

 

Quantunque a lui la Provvidenza avesse dato ricchezza e una famiglia, ben potevasi tuttavia ascrivere alla infelice schiera dei derelitti, in quanto che, scevrato d'ogni affetto, vivesse solo, senza compagni, in mezzo alla poco nobile compagnia d'un corrotto e oziante servitorame.

Il destino gli avesse almeno conceduto dei fratelli! Ma no: solo a quell'ostico studio, solo al sollazzo, solo in quel vasto palagio pieno di ombra e di silenzio.

Ad interrompere quella uggiosa monotonia venne il terremoto, un compiuto cataclisma – la rivoluzione francese, che come la lava d'un vulcano in eruzione si sparse per tutta Europa.

La contessa che aveva fatto strette relazioni con alcuni emigrati francesi nel tempo ch'essi erano rimasti alla Corte di Torino, fuggì con loro in Germania; il conte, uomo coraggioso, si pose alla testa d'una di quelle bande che uccidevano i francesi sbandati e i giacobini isolati per amore del re legittimo e della religione cattolica; e la durò finchè un giorno, sorpreso in una forra egli ed i suoi uomini da un drappello di truppa repubblicana, piuttosto che arrendersi, lasciò che una palla gli spaccasse la testa. I beni della famiglia furono sequestrati; dall'alto della facciata del palazzo fu atterrato lo stemma dei conti di Staffarda; in quelle belle sale venne a crogiuolarsi la democrazia d'un commissario francese qualunque.

E Amedeo Filiberto?

Preso da un parente lontano, che viveva in provincia, passò da una solitudine ad un'altra, da una uggia ad una peggiore. Quando fu in caso di portar le armi, e' si partì ed andò a sostenere il grado di sottotenente nei reggimenti stranieri di cui allora si serviva l'esercito inglese. Visse qua e colà la vita scioperata dei campi e delle guarnigioni, senza amare, senz'essere amato, senza provare menomamente il bisogno d'un affetto. A forza d'essere privo d'ogni amore, il suo cuore ne aveva perduto ogni bisogno, come ogni stimolo. Una specie di atrofia l'aveva inaridito. Le forze della giovinezza che cercano e trovano solamente sfogo nella passione, sviate da tutto ciò che è sentimento, si volsero precipitose e prepotenti a tutto quanto è vizio. L'ardore della voluttà, le ansie del giuoco, gli eccitamenti dell'ebbrezza la più volgare tennero luogo in lui dei diletti soavi e dei trasporti dell'amore. A 26 anni, nel 1814, succeduta la ristaurazione, e' gettò via l'uniforme rossa e tornò in patria, logoro, disgustato, bacato nell'anima ed affralito di corpo. Si trovò in faccia con uno spettro imbellettato, un vero revenant del secolo spento, sua madre, cogli stessi sentimenti, cogli stessi nèi finti sulle guancie, cogli stessi modi, colle stesse abitudini, ma colle rughe in più sulla faccia e con diciasette anni di vantaggio sulle spalle. Si guardarono stupiti come una spiegazione ridicola d'un enimma di cui si fu lungo tempo curiosi. Nel petto loro non sentirono battere l'un per l'altro a vicenda, nemmanco un'apparenza di cuore. La madre si sgomentò di trovarsi innanzi un figliuolo così vecchio: il conte ebbe difficoltà a reprimere un sorriso nel vedere gli atti e l'aspetto di quella poppatola vecchia, imbellettata e mascherata da giovane. Fra di loro nessuna corrente di simpatia, nessun legame di fiducia, nessuna comunanza di sentimenti. Vissero come estranei, vedendosi raramente, quantunque abitatori del medesimo palazzo, finchè la contessa andò ad abitare il monumento sepolcrale della famiglia nella chiesa dell'antico feudo, restituito dalla ristaurata monarchia, monumento cui la fittizia pietà del figliuolo ornò di due statue e di una epigrafe latina di più in onore della memoria materna.

Amedeo Filiberto era proprio solo nel mondo. Non aveva amici, perchè il suo carattere non era simpatico a nessuno. Anche in amicizia è vera la profonda massima scritta in una sua novella dal Boccaccio: se vuoi essere amato, ama. E chi amava egli il giovane profondamente blasé, se non appena se stesso? Ebbe compagnia di parassiti, di mezzani, di cozzoni, di cortigiani, di complici nelle orgie; non ebbe nè amante, nè amico. Al matrimonio ci pensò – ma per giudicarlo una catena e un giogo che non avrebbe mai voluto portare.

Il giuoco e i soverchi dispendi gli avrebbero consumato il patrimonio, se il re non glie lo avesse salvato con un biglietto regio, per cui s'imponeva ai creditori di non molestarlo oltre, e di contentarsi di essere pagati a centellini del capitale, perdendo gl'interessi11.

Sei anni prima del giorno in cui lo vediamo introdotto nel nostro racconto, egli aveva fatto strabiliare tutta la elegante società torinese, e massimamente coloro che lo conoscevano più davvicino, annunziando il suo matrimonio con una delle più belle ragazze della città, madamigella Candida, figliuola del ricco barone La Cappa.

Il conte di Staffarda aveva 52 anni e ne mostrava 60; la sua sposa ne aveva 18 e compariva di 16. Egli era pieno di debiti, ed ella recava un mezzo milione di dote allo stringer del contratto, forse più di due milioni d'eredità alla morte del padre.

La spiegazione di questo mistero era la seguente:

Anatolio La Cappa era un nobile di fresca data che avrebbe sacrificato la metà della sua ricchezza (la quale eragli pure la cosa la più cara del mondo) affine di poter vantare senza menzogna di compilatori d'alberi genealogici un lungo ordine d'avi illustri con sangue azzurro di centinaia di generazioni. Egli aveva bensì una galleria di ritratti di antenati, ma suo padre – primo a portare il titolo di barone (ed era stato barone dell'impero) – li aveva comperati belli e fatti e polverosi da un rigattiere. La fantasia di un araldista aveva inventato per ciascuno di essi un nome, una qualità, una carica ed una data. L'avolo dell'attuale barone era stato commerciante, e la tradizione di ciò – il che scottava tremendamente al padre di Candida – non si era ancor affatto perduta in Torino. Il padre aveva incominciato ad innalzarsi col favore appunto delle ricchezze ammassate dal commercio dell'antenato. Il figliuolo del bottegaio era entrato nella magistratura, divenuto presidente o che so io, ed insignito del titolo di barone, cui ristaurata la Casa di Savoia, ottenne per gran ventura di avere riconfermato al suo nome. Il figliuolo era entrato nell'amministrazione, si era spinto su, parte per merito, parte per protezioni, che sapeva accortissimamente procurarsi e sfruttare, alle prime cariche dello Stato, si era coperto il petto di croci d'ogni ordine cavalleresco, aveva acquistata un'autorità, un'influenza delle prime ed aveva inoltre avuto il talento di saper accrescere ancora il patrimonio raccolto dall'avo, già aumentato dal padre.

La fortuna, in ciò solo avversa, gli aveva negato un figliuolo maschio. La sua Candida avrebbe adunato in sè tutte le glorie e tutti i denari dei La Cappa. Il padre, ambiziosissimo per sè e per lei, voleva ad ogni modo imbrancarla con una delle più antiche e delle più illustri prosapie della nobiltà torinese.

Il conte Langosco s'incontrò col barone e con sua figlia, un autunno, alla villa d'un comune conoscente. La fresca gioventù di Candida, rincalzata da una pura ingenuità di modi, di sembiante, di parole, accese un ultimo ardore stantio nel sangue corrotto del vecchio libertino.

A trent'anni, quando aveva l'audacia e la spensieratezza di Don Giovanni, avrebbe tentato sedurla. A cinquanta, con qualche reumatismo nelle ossa, fiacco della persona e poco acconcio ormai alle scalate dei balconi ed alle frasi incendiarie, sentì una certa tal quale lusinga del suo egoismo nel pensare ad una brava donnina che facesse da curatrice amorosa alle sue infermità, e che rallegrasse l'ora dell'addormentarsi ed il momento dello svegliarsi la mattina con un visino color di rosa, assai più gradevole a vedersi, che non la faccia senza garbo di un domestico.

11Queste cose, che ora sembrano incredibili, succedevano allora nel nostro paese. Quando un nobile era troppo perseguitato dai suoi creditori, il sovrano lo traeva dalle peste in siffatta guisa, ma bisognava che egli fosse proprio nobile di tutti i quarti. Così rispettavasi a quel tempo la giustizia civile!