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Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire

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Un problema che tutti i nostri ricchi agricoltori sono chiamati a risolvere, e che dà loro molto da pensare, si è quello della educazione dei figli.

Alcuni fra i padri di famiglia vogliono arricchire i figli del bene di una educazione cittadina, e si preparano dei successori dottori in legge o in medicina, che hanno imparato molte cose, ma nessuna di quelle a cui sono destinati ad attendere. Altri padri al contrario si sdegnano al solo pensiero che i figli loro abbiano da sapere ciò ch'essi ignorano, e trasmettono loro esattamente la somma di cognizioni che ricevettero dai padri loro.

Codeste educazioni hanno i peggiori risultati. L'ignoranza ch'era pressochè innocua nei padri, perchè posti in un'atmosfera in armonia con quella, diviene deplorabile e direi quasi mostruosa nel figlio, quando esso trovasi in contatto con cose e con individui di troppo a lui superiori. Ogni passo ch'esso muove, ogni via ch'esso tenta, lo rende l'oggetto del pubblico scherno. Esso non sa difendere sè medesimo, nè i propri interessi, se non coll'astuzia, colla bugia; e non potendo misurare la propria inferiorità, nè giudicare accuratamente il valore delle sue risorse, le adopera tutte, persuaso che danneggiando altrui, giova a sè stesso.

Mi sono trattenuta così a lungo sulla classe dei nostri ricchi agricoltori, perchè essa forma realmente uno degli strumenti principali della nazionale prosperità; l'industria agricola essendo la sola che possa sostenere il confronto colle industrie straniere, e trovandosi essa assolutamente abbandonata alla classe dei ricchi agricoltori. Non è superfluo che il paese, e la classe dei possidenti in particolare, sappia su chi riposa la ricchezza della nazione.

Quando la nuova legge comunale italiana fu promulgata ed attivata nelle nostre campagne, alcuni dei nostri affittaiuoli si accinsero ad una ambiziosa intrapresa. Un certo numero di essi concepì il pensiero di impadronirsi delle autorità che lo Statuto concedeva alle classi popolari rurali. In molte località i voti dei contadini furono o comperati o strappati con minaccie, ed andarono a favorire l'affittaiuolo più ardito, più ambizioso del luogo. Volevano gli affittaiuoli occupare tutti i sindacati, riempire i consigli comunali di creature ad essi ligie e divote, imporre a loro capriccio i comuni, impedire le riforme e i progressi della pubblica istruzione, la costruzione di nuove strade che favoriscono le relazioni fra le varie provincie italiane, farsi eleggere deputati, nutrire ed invigorire il goffo malcontento dei contadini, mantenendoli oppressi sotto il triplice flagello della miseria, della ignoranza e della superstizione, e preparare il ritorno della dominazione straniera, ch'essi desiderano, non per altro se non perchè considerano gli austriaci come i nemici della classe dei possidenti.

Queste avare, ambiziose, e poco oneste mire non ebbero sin qui effetto per varie ragioni. In qualche località furono tacitamente combattute da alcuni uomini dabbene, che svelarono al popolo le trame ordite, e li protessero contro le minacciate conseguenze della loro ribellione. Ma nel maggior numero dei casi le congiure andarono a vuoto, perchè concepite senza prudenza nè abilità di sorta. Il più vivo desiderio degli agricoltori ambiziosi era il farsi eleggere deputati. Ciò credevano di conseguire trascinando al collegio elettorale la maggioranza dei voti del loro comune, maggioranza che si trasformava in una impercettibile minoranza quando trovavasi a fronte dei votanti dell'intero collegio.

Il perno dell'ambizione del nostro contadino arricchito essendo appunto la deputazione, lo scacco toccatogli nelle elezioni gli tarpò le ali. Ma questo sgomento non si perpetuerà; ed il ricco agricoltore, risoluto di rappresentare al parlamento gli interessi agricoli, tesserà nuove trame per rendersi gradito agli elettori. Se un certo numero di codesti ambiziosi si fa strada nel parlamento, gli interessi agricoli della nazione (interessi interamente estranei ai possidenti fondiari) verranno presentati sotto falsi colori al pubblico e all'assemblea; i pretesi rappresentanti di questi interessi acquisteranno una notevole influenza sui loro colleghi, perchè saranno da essi considerati a priori come i soli che bene li conoscano, e che abbiano ragione di volerli protetti. Nessuno sognerà che l'agricoltore voglia arricchirsi rovinando l'agricoltura e il paese; e ciò non accadrebbe diffatto, se la ignoranza e la malignità del contadino arricchito non fossero del pari grandissime, e se la noncuranza dei possidenti non le uguagliasse.

Importa assai che mentre le cose sono ancora in questo stato, i possidenti prendano cognizione della condizione delle loro terre e dell'agricoltura, dei trattamenti a cui soggiacciono i loro contadini, delle conquiste operate nelle scienze naturali dalle vicine nazioni e dei loro effetti sull'agricoltura, delle leggi economiche e finanziarie, alle quali deve uniformarsi una nazione che voglia prosperare e non sentirsi inferiore alle altre. In una parola il possidente deve assumere per conto proprio quella parte della società agricola che l'agricoltore tenta di usurpare per fini suoi privati e dannosi. Perchè permettere che fra il contadino ed il signore, fra il popolo e la classe dei cittadini colti, direi volontieri tra il padre e il figlio, sorga un intruso, il cui intento è di seminar zizzania fra questo e quello, di presentare l'uno all'altro sotto falsi e calunniosi colori, per rovinare il ricco e per dominare il povero, e ciò perchè vittime anch'essi della più profonda ignoranza e delle perverse passioni generate da questa, credono (ed a torto il credono), di potersi innalzare sulle universali rovine?

Facciamo tutti ed ognuno di noi il nostro dovere. Ricordiamoci che in un paese libero, governato dalla nazione stessa per mezzo de' suoi rappresentanti, ogni uomo, per grande o per infima che sia la condizione sua propria, è un servitore del pubblico, e non v'ha colpa o sciagura nazionale di cui non debba sentire anch'esso rimorso e danno. L'oppressione, sotto cui abbiamo troppo a lungo trascinata la vita, ne ha insegnato a considerare il riposo come il degno oggetto delle nostre legittime aspirazioni.

Fatale errore è quello che trova nella nostra costituzione fisica, come popoli meridionali, un deplorabile ausiliario. Nessuno ha il diritto di riposare, mentre la nazione sta componendosi ed ha bisogno di aiuto. Gli infingardi sogliono giustificare la infingardaggine loro dicendo, che v'hanno braccia sufficienti per compiere le opere incominciate, e per portare il peso delle pubbliche faccende. Tale asserzione è falsa. Il cittadino che non deve alla patria una parte delle sue facoltà, non può essere che un uomo privo affatto di facoltà; ma colui che è capace di operare qualche bene, non può rifiutare alla sua patria una parte de' suoi talenti, della sua operosità, delle sue forze. Nè la nazione, nè il governo non sono esseri distinti e divisi dal singolo cittadino, chè il cittadino forma parte integrante dell'una e dell'altro. I governi despotici hanno un'esistenza indipendente da quella della nazione governata, e per conseguenza da quella degli individui di cui questa si compone. Vi è quasi sempre un latente antagonismo fra il governo despotico e la nazione governata dispoticamente; ma tale antagonismo non si manifesta se non per accessi intermittenti, e negli intervalli di calma l'osservatore superficiale può figurarsi che il governo e la nazione altra relazione non abbiano oltre quella del padrone col servo. – Ma in un paese libero, che si governa da sè medesimo, mediante i suoi rappresentanti, non vi è atto governativo, non vi è vicenda nazionale a cui un cittadino possa rimanere estraneo ed indifferente. Ognuno porta la parte sua della responsabilità delle risoluzioni governative, siccome ognuno divide e risente le conseguenze delle sciagure nazionali e dei nazionali vantaggi.

Questo è quello che molti fra gli italiani ignorano, o fingono d'ignorare, per non essere costretti dalla loro stessa coscienza ad abbandonare le dolcezze dell'ozio ed arruolarsi fra gli operosi.

Pur troppo v'hanno fra noi molti giovani nati da illustri e cospicue famiglie, educati a tutte le eleganti delicatezze della vita civile, che menano vanto della loro inerzia e della loro indifferenza per le pubbliche cose, che si dichiarano spettatori neutri dello svolgimento nazionale, e credono di dar prova della superiore natura dell'ingegno loro, criticando e deridendo tutto ciò che nel paese e dal paese si opera. Non sanno essi forse che deridendo l'Italia e chi la rappresenta, deridono sè stessi? E come possono essere rispettati dallo straniero, se gli insegnano a sprezzare l'Italia? Se ad essi sembra che i rappresentanti del paese nostro non lo rappresentano degnamente, lo dichiarino schiettamente, ed espongano ad un tempo come dovrebbe essere rappresentato, si dispongano a rappresentarlo, e facciano ogni sforzo per mostrarsi più saggi e più benefici di chi li precedeva. Ma starsene colle mani alla cintola, pavoneggiandosi della propria inerzia, e contenti di versare biasimo, sospetto e ridicolo sopra coloro che alla patria e al dovere hanno consacrato la vita e le facoltà, è questo un contegno così odioso, che la innata generosità della giovinezza dovrebbe bastare a preservarne la crescente generazione.

Quella tendenza al biasimare e al volgere in ridicolo qualsiasi cosa o persona che a noi si presenti con aspetto grave, è una delle piaghe d'Italia.

L'uomo educato e colto non sa frenare la vena sarcastica, e crede far prova d'ingegno fino ed accorto, lasciandole libero il corso. Il popolano che vede il nobile, il ricco, il potente trattare ogni cosa con ischerno e leggerezza, impara a tenere in poco o nessun conto le cose così derise. Quando venne pubblicato il nuovo codice italiano, non vi fu legge o capitolo di esso che potesse sottrarsi alla sferza, non dirò dei giureconsulti, ma di tutti coloro che sanno o che non sanno che cosa sia un codice. I giornali criticavano ogni espressione del nuovo libro, e la critica loro non era già la critica grave e ragionata che si conveniva al soggetto; era la critica esagerata e contorta del Pasquino e Marforio, ed era ripetuta da gran parte dei lettori, non perchè giusta, vera e coraggiosa, ma perchè atta a promuovere le risa. Che cosa ne risultò? Ne risultò questa deplorabile conseguenza, che una gran parte del popolo non ha per la legge del suo paese quel rispetto, nè quella cieca obbedienza, senza la quale il buon ordine e la moralità pubblica sono impossibili. Mi si dirà forse, che se il popolo non rispetta la legge, ciò avviene perchè gli esecutori della stessa non sanno farla rispettare, o perchè la legge medesima non è rispettabile. – Vane asserzioni. Il popolo non è in grado di giudicare del merito della legge, e non dovrebbe creder lecito il tentarlo. Quanto alla taccia che si appone agli esecutori di essa, l'accusa è facilmente rintuzzata; poichè se gli esecutori della legge non la impongono con sufficiente autorità e fermezza, ciò proviene dal disprezzo con cui la vedono accolta da coloro che dovrebbero ciecamente seguirla. Se gli esecutori della nostra legge meritano la taccia di debolezza, nessuno sapeva che essi la meriterebbero, quando appunto fu pubblicato il codice, e la derisione della legge non aspettò per manifestarsi che tale debolezza fosse conosciuta. Se il popolo non si cura della legge, si è perchè vide i suoi maggiori deriderla e farne soggetto dei loro motteggi. Se il buon senso nazionale non pone rimedio a questa malaugurata condizione di cose, verrà un giorno che il disprezzo popolare della legge produrrà delitti e disordini infiniti; e la colpa di questi peserà sul cuore e sulla coscienza dei beffeggiatori spensierati e frivoli, che non sanno por freno alla sbrigliata loro lingua. – Lo stesso accadde per le nuove imposte. Ella era cosa generalmente intesa e conosciuta che il peso delle imposte, cadendo tutto intero ed esclusivamente sulla possidenza fondiaria, era un'enorme ingiustizia, e rendeva impossibile il progresso dell'agricoltura. La tassa sulla ricchezza mobile, cioè sui capitali e sulle professioni, era desiderata e acclamata da tutti coloro che possedevano le prime nozioni della pubblica economia, e considerata come un futuro sollievo per la possidenza fondiaria, che è quanto dire per l'agricoltura. Eppure non appena fu promulgata la legge che imponeva la ricchezza mobile, ecco levarsi da ogni banda un coro di lamenti e d'invettive, come se la nuova tassa fosse destinata a rovinare l'intero paese, e giungesse improvvisa ed a tutti inaspettata. Egli è vero che la legge era male concepita in alcune sue parti, e che il regolamento per l'applicazione di essa, aggiungeva altri errori a quelli contenuti nella legge stessa. Egli è vero, a cagion d'esempio, che il minimum della rendita tassabile, fu stabilito troppo basso, poichè colui che guadagna col lavoro delle sue mani 400 franchi all'anno, ed ha una famiglia da mantenere, non può sottrarre una parte anche minima dal suo meschino guadagno per soddisfare l'esattore, senza risentirne un grave danno. Egli è vero altresì che i poveri non sono mai stati esonerati dal pagamento delle imposte; che ogni capo di famiglia, per povero ch'ei fosse, pagava altre volte il così detto testatico, ossia tassa personale, dalla quale erano esclusi i soli mendicanti, e che il testatico ammontava ad una somma pressochè tripla della tassa sul minimum della rendita, tassa che non giunge a due franchi annui. – Ma chi riflette a queste cose? La tassa sulla ricchezza mobile era nuovamente imposta; e d'altra parte nessuno ama di spendere il suo denaro altrimenti che per l'uso suo proprio. Dunque la nuova tassa spiacque a tutti quelli che vi soggiacquero; e perchè spiaceva loro, non si volle riconoscerne nè la giustizia nè la necessità, e si gridò contro il governo come tiranno e spogliatore. La tassa era stata stanziata dai rappresentanti della nazione; che importa? al solo governo fu imputata, e chi avesse giudicato secondo quanto si vociferava nelle conversazioni, sulle piazze e nei caffè, avrebbe concluso che il governo aveva ordinata arbitrariamente questa nuova imposta per arricchire sè stesso, e non per mettere il paese in condizioni tali che si potesse mantenere libero ed indipendente. – La nazione italiana attraversa ora una difficile prova, per acquistare e consolidare la sua libertà. Questa libertà, essa la possiede, e ne gode così pienamente, che non potrebbe oltrepassarla, senza cadere nel disordine e nell'anarchia. Ma l'acquisto di tanta libertà le costò caro, ed ora essa ne sta pagando il prezzo. – Nulla v'ha di più naturale, di più inevitabile. In sei anni abbiamo dovuto raggiungere sulla via della civiltà tutte le nazioni che vi camminavano da secoli, mentre noi eravamo rimasti immobili nelle tenebre dell'ignoranza e della servitù, in cui ci tenne il dispotismo straniero. Se gli italiani riflettessero freddamente, intenderebbero senza fatica che le conquiste operate debbono costare sagrifizi ingenti, ed avendo risoluto di operare tali conquiste, ne pagherebbero il costo senza lagnarsi e senza accusare alcuno. Ma gli italiani, per quanto appare, non sanno riflettere freddamente, e si consolano delle loro angustie, imputandole ora a questo ed ora a quello. Somigliano in ciò i bambini, che urtando in qualche mobile, si adirano contro lo stesso, e lo battono fieramente, o per castigarlo o per dare sfogo all'ira loro e al loro dispetto. Si direbbe che nessuno o quasi nessuno in Italia avesse preveduto di dover comperare e pagare la sospirata libertà e l'indipendenza, altrimenti che con pochi giorni di combattimento e di entusiasmo. Occorrono invece lunghi e numerosi sacrifizi; e chi non sa incontrarli con animo sereno e tranquillo, non è degno di quei sommi beni, che sono la libertà e l'indipendenza. Ed è appunto la perpetua ribellione contro la necessità di tali sacrifizi che li rende più gravi e meno fecondi. La tassa sulla ricchezza mobile non era soltanto un atto di giustizia e di convenienza; era altresì e principalmente un atto di necessità, poichè senza un aumento determinato della rendita pubblica, il paese era esposto ad un disonorevole fallimento. La commissione pel riparto dell'imposta doveva raccogliere la somma voluta; ma essa non poteva regolarne la distribuzione se non fondandosi sulle dichiarazioni dei possessori di ricchezze mobili. Se questi avessero tutti operato onestamente, dichiarando senza menzogna i capitali da essi posseduti, o la rendita prodotta tanto dai capitali quanto dall'industria loro, la tassa sarebbe caduta su quelli ch'erano atti a portarla, e che appena ne avrebbero sentito il peso. Ma, cosa dolorosa e vergognosa a dirsi, pochi furono quelli che non ricorsero alla menzogna. Persone che spendono una grossa rendita, ne dichiarano la terza o la quarta parte. Molti possessori di carte pubbliche si astennero dal dichiararle, e menarono vanto di questa loro simulazione. Eppure la somma totale prefissa doveva trovarsi, perchè necessaria alla conservazione del credito pubblico; e molti di coloro ch'erano in grado e in obbligo di pagarla, essendosi disonestamente sottratti all'adempimento del loro dovere, i poveri si trovarono naturalmente assai più gravati che non dovevano esserlo. Quindi lagnanze, malcontento ed accuse contro il governo spogliatore, che levava il pane di bocca ai miseri. Chi diceva loro che il governo non avea parte nella distribuzione della tassa, che le menzogne dei ricchi e non la crudeltà del governo, erano la cagione dei loro patimenti, non era ascoltato, e taluni cadevano in sospetto di intendersela col governo, per ingannarli e spogliarli impunemente.

 

Nelle campagne abbandonate all'influenza dei contadini arricchiti, vi fu di peggio. Gli affittaiuoli riescirono facilmente a farsi nominare membri delle commissioni di riparto, dai consigli comunali che loro obbediscono ciecamente; ed una volta in possesso della tassa, essi trattarono sè medesimi e gli amici loro con tale indulgenza e predilezione, che non pochi fra i poveri artigiani o mercantucci di contado, infelici che non arriverebbero a mantenere le loro famiglie, se la carità del padrone non venisse loro in aiuto, si videro tassati di maggior somma che gli stessi ricchi agricoltori membri della commissione. La nequizia di tale distribuzione era evidente, e doveva essere imputata agli autori di essa, cioè ai membri delle commissioni; ma questi insinuarono ai contadini che le vessazioni di cui erano le vittime emanavano dal governo; e siccome il contadino sa di poter maledire il governo impunemente, e teme di porsi in ostilità colla classe degli affittaiuoli, perciò credette o finse di credere alle menzogne dei commissari, e proruppe contro il governo in improperi e in minacce, sapendo altresì che così facendo otteneva il favore del suo clero. Il governo italiano rispetta la libertà del cittadino, direi quasi con troppo scrupoloso rigore, e non si prende la libertà d'intervenire nelle faccende che la costituzione ha riservate al cittadino, e che al cittadino spetterebbero giustamente, quando esso fosse onesto, sensato ed illuminato. Ma simili cittadini sono in picciol numero fra di noi. Il cittadino, a cui viene affidata tanta parte del governo nazionale, commette errori o colpe, o è vittima di accorti raggiratori; e quando ha rovinato sè stesso e le cose a lui affidate, accusa il governo dell'universale rovina, e biasimando amaramente quello, si dispensa dal biasimare e dal correggere sè stesso.

Così accadde pure in proposito della emissione dei biglietti di banca a corso forzoso. Simili misure, che pur troppo sono talvolta necessarie, traggono sempre dietro di sè molti guai e molti disastri. Spetta ad ogni cittadino di scemare la gravità di quelle tristi conseguenze, accettando la propria parte nel danno comune, ed evitando di far pesare sugli altri più di quanto deve agli altri toccare. Se tutti sentissero la necessità di tal dovere, il danno prodotto dall'emissione della carta moneta non sarebbe intollerabile per nessuno. Ciò che costituisce la ricchezza dei facoltosi, non è il valore intrinseco del denaro ch'essi posseggono; bensì il valore convenzionale che al denaro viene attribuito. Sì fatto valore può essere trasportato ed applicato ad altri oggetti, senza cagionare direttamente un gran turbamento nella condizione finanziaria degli individui. Ciò che rende codeste misure pericolose, si è il discredito che nasce dalle medesime, mentre tutti sanno che nessun governo si appiglia ad esse se non per mancanza di altre risorse. E questo gli nuoce ne' suoi negozi colle banche straniere, e conseguentemente può arenare il commercio e l'industria. Ma quanto agli effetti immediati della carta moneta sul ben essere dell'individuo cittadino, questi sarebbero appena sensibili, se tutti vi si rassegnassero onestamente. Ma così non accade. Non solo v'hanno molti che non vogliono soggiacere nè a danni nè ad incomodi, ma v'hanno pure di quelli che non esitano a trar profitto della sventura altrui, e che speculano su di essa. Quanti comperarono immediatamente tutto il denaro coniato già in circolazione, e negarono di cangiarlo coi biglietti di banca se non ricavavano una somma assai maggiore dalla somma che davano, attribuendo così alla carta un valore arbitrario assai al di sotto di quello che le dava la legge! Allora incominciarono gli imbarazzi, i danni reali, la confusione dei valori e dei loro surrogati. Il corso forzoso della carta non valse a mantenerne il valore, poichè i mercanti quasi tutti ricusavano di rimborsare, sia in denaro sia in carta, il di più del valore degli oggetti che si pagavano colla carta. Voglio dire che se uno voleva comperare un oggetto stimato cinquanta franchi, dando un biglietto di cento franchi, e ricevendone indietro cinquanta, questi incontrava un'invincibile resistenza nel mercante, e si vedeva costretto o a pagare cento ciò che valeva cinquanta, o a comperare un supplemento di mercanzia che lo addebitasse di cento franchi, o a costituirsi debitore per l'oggetto di cinquanta, o a rinunziare all'acquisto di esso.

Sulle prime s'imputavano questi inconvenienti all'inavvertenza del governo, che aveva emessi soltanto dei biglietti di cento franchi, invece di emetterne di venti, di dieci, di cinque, e persino di un franco. Il governo si decise dunque di aderire al pubblico voto e di emettere biglietti di minor valore. Ma appena questi comparvero, che di bel nuovo sparirono: gli speculatori se n'erano impadroniti, e l'illecito mercato, che li aveva arricchiti col cambio della carta contro il denaro, ricominciò sul cambio dei grossi biglietti contro i piccoli. Ed il pubblico, poco intelligente delle vere cagioni de' suoi danni, si adirava contro il governo, che sebbene avesse promesso di emettere gl'indicati biglietti, li emetteva in così piccola quantità che diventava quasi impossibile di ottenerne. Certo che il governo avrebbe potuto farne una nuova emissione; ma a che pro? Gli speculatori che avevano fatto monopolio dei primi, lo avrebbero fatto anche dei secondi, e la condizione del popolo non sarebbe punto migliorata.

 

Poscia fu promulgato il prestito forzoso. La somma chiesta dal governo fu assai minore di quella generalmente aspettata. Le condizioni fatte ai fornitori del denaro erano così favorevoli, che un capitalista avrebbe trovato difficilmente un migliore impiego de' suoi capitali. I capitalisti non hanno durato fatica ad intendere il loro interesse; ma non soddisfatti del lecito profitto ad essi riservato dalla legge, alcuni di essi, sotto il manto di una lodevole sollecitudine pel pubblico bene, hanno come preso ad appalto il debito di certe località, anticipando i capitali a chi ne difettava (e questi disgraziatamente sono molti), vendendo il loro denaro a caro prezzo, ed usurpando con ciò il profitto che la legge aveva destinato a tutti. Quando i ricchi, e generalmente parlando le persone poste in condizione eminente, danno l'esempio della cupidità e della rilasciatezza nei principii di moralità, tale esempio è seguito con ardore da ogni classe di persone. Ella è cosa dolorosa e vergognosa ad un tempo il vedere i pubblici impiegati, sia delle ferrovie, sia d'altre pubbliche aziende, rifiutare la carta che vien loro presentata, e rispondere ai meritati rimproveri che loro si fanno con un ghigno malizioso ed insolente, che tali sono gli ordini del governo, che al governo debbono rivolgersi per ottenere giustizia, risarcimento, ecc. ecc. E le vittime della disonestà cittadina maledicono il governo, che altra parte non ebbe nei loro danni, se non col forse soverchio rispetto dell'individuale libertà, e coll'astenersi d'intervenire nelle private convenzioni quando non ne era richiesto da alcuna delle parti. Il nostro governo, il ripeto, rispetta la cittadina libertà, come va rispettata da un governo costituzionale, in un paese libero, le cui popolazioni apprezzano il benefizio della libertà, e se ne mantengono degne, seguendo i dettami di una rigorosa moralità. Disgraziatamente il paese nostro non corrisponde al rispetto che a lui mostra il governo. Questo tratta il paese come degno e capace di una libertà pressochè illimitata; ma il paese non è per anco nè degno nè capace di esercitare senza tutela i privilegi di tanta libertà. In certe classi cittadine l'amore del lucro domina ogni altro sentimento, e la libertà è impiegata ad ottenerne gli intenti con qualsiasi mezzo. In altre l'amore dell'ozio si è impadronito dei cittadini, riducendoli alla indecorosa condizione di spettatori dei pubblici eventi, mentre dovrebbero prendere in essi la loro parte. Tutte le istituzioni che assicurano la patria libertà, cadono in disuso e sono neglette per la pigrizia di chi dovrebbe difenderle.

Vedete la guardia nazionale, che arma il paese contro qualsiasi usurpazione, sia del governo, sia delle fazioni; che mette l'ordine e la sicurezza pubblica sotto la salvaguardia dei cittadini, e li avvezza al maneggio delle armi, sicchè possano, quando ne nasca il bisogno, trasformarsi prontamente in soldati. Gli amatori dell'ozio, fanno le beffe di così bella istituzione, per iscusarsi di non assumerne i pesi; e le file della milizia nazionale vanno di giorno in giorno diradandosi. – Vedete l'istituzione dei giurati. Le liste dei cittadini, destinati a sentenziare sulla colpabilità degli accusati, si compongono in gran parte di persone ignoranti, o svogliate, che considerano questo privilegio e questo diritto cittadino come un attentato contro i loro comodi e quell'altro loro diritto di starsene colle mani alla cintola. – Vedete il più importante, il più prezioso di tutti i diritti cittadini; quello cioè che concede alle popolazioni di mandare al parlamento i loro deputati, ch'è quanto dire di esercitare mediante i loro rappresentanti la sovrana autorità. Tale istituzione anch'essa fu prima beffeggiata e poi negletta; per modo che ai collegi elettorali non interviene ormai che una piccola frazione degli elettori iscritti, e la deputazione forse nulla più rappresenta, che i maneggi di alcuni ambiziosi e la colpevole indifferenza dei più. Ed anche di ciò si scusano i pigri, trattando con disprezzo quell'istituzione, prima colonna della nazionale libertà. Udite con che scherno parlano gli oziosi della rappresentanza nazionale! I deputati altro non fanno che ciarlare ed attendere ai privati loro interessi. Se si risponde loro che, ciò supposto vero, tanto più corre ad essi l'obbligo di scegliere con maggior accuratezza i nuovi deputati, alzano le spalle, affermando che tutti gli aspiranti alla deputazione sono della medesima tempra, che l'occuparsi di elezioni altro non è che un perditempo, ecc. ecc.

Sembra a vederli e ad udirli che in questi sei anni essi abbiano penetrato nelle profondità del governo costituzionale, e ne abbiano riconosciuta tutta la inanità. Le istituzioni che l'Inghilterra difende e mantiene con gelosa cura da tanti secoli; le istituzioni che la Francia ha comperato con tante rivoluzioni e tanto sangue, che non seppe conservare, e dietro le quali sospira con rammarico e dolore; le istituzioni che l'Europa intera si sforza di ottenere, e che ottenute soddisfano le aspirazioni liberali dei popoli più civili; le istituzioni che nel corso di due secoli crearono l'America, e la resero l'oggetto dell'universale meraviglia; queste benefiche, queste nobili istituzioni, noi, nati ieri, le abbiamo giudicate nello spazio di sette anni, e le abbiamo condannate come cose puerili, vane ed indegne del nostro rispetto. Mi perdonino i miei compatrioti, se dico loro che un tale giudizio è indegno di una nazione che rispetta sè medesima, e che vuol essere libera ed indipendente.

La guerra del 66 ha messo in chiaro una verità importantissima, ed è che la scienza, l'intelletto e la coltura intellettuale valgono più del numero, della forza e del coraggio anche sui campi di battaglia. A qual cagione si attribuiscono i mirabili trionfi della Prussia? Alla scienza de' suoi generali, e al fatto che nessun cittadino è ammesso nelle file dei difensori del paese, se non ha seduto pel corso di sei anni sulle panche delle pubbliche scuole. Questa verità, questa superiorità del sapere sovra la forza materiale fu confessata da tutti; e si confessava altresì che il poco successo delle nostre armi deve essere imputato alla nostra ignoranza. Ne gioverà essa questa lezione? L'avvenire risponderà; ma quanto al passato fa d'uopo avvertire che in questi ultimi sei anni l'ignoranza nostra andò sempre crescendo. Gli studenti disertano le università, i professori, stanchi di professare nelle aule vuote, disertano le cattedre; e l'ultimo ostacolo posto alla prepotenza dell'ignoranza, il rigore dei pubblici esami, è rovesciato dagli studenti, che tratto tratto si ribellano, si rifiutano agli esami, ed esigono che il governo abbandoni il sistema che li costringe ad aprire qualche libro. E il governo cede a tali deplorabili esigenze, per evitare il disordine, gli scandali e la taccia di pedantesca tirannide. Il governo dovrebbe resistere, punire i rivoltosi, e mantenere la regola stabilita; ma egli è pur troppo vero che l'intolleranza degli oziosi è giunta a tale estremo, che la resistenza e la fermezza del governo darebbe luogo sulle prime ad ogni sorta di calunniose imputazioni e forse anco a scene scandalose. Il governo in questa occasione, come in tante altre, si comporta come dovrebbe comportarsi verso una nazione civile e degna della libertà: lascia che la nazione si governi da sè, seguendo i proprii lumi, le proprie facoltà. Ma si è egli assicurato che noi siamo in grado di governarci da noi? Se il governo volesse sciogliere questo problema, scoprirebbe tosto la nostra insufficienza; ma esso non si crede in diritto di varcare i confini stabiliti dallo statuto. Lo statuto costituzionale suppone una nazione civile, intelligente ed onesta; perciò ha fissato al governo certi limiti, oltre i quali esso non si è mai spinto. Esso si mantiene scrupolosamente fedele al giuramento prestato, e nessuno può di ciò biasimarlo: la nostra disgrazia consiste nell'avere uno statuto forse troppo largamente liberale; ma quando questo fu promulgato doveva reggere una sola provincia italiana, una delle più incivilite ed illuminate, se non la più civile e colta. La libertà di cui questa non avrebbe abusato, diventa eccessiva quando concessa all'intera nazione.