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Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire

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Tutto ciò era stato operato da alcune parole di Giuseppe Mazzini; e quando l'Italia avrà veramente riconquistato il seggio cui ha diritto fra le grandi nazioni europee, i nostri posteri dovranno scrivere quel nome sopra tavole di marmo, e ricordarsi sempre di quanto a lui si deve.

Quelle nozioni erano accompagnate, come già dissi, da non poche idee esagerate o radicalmente false. – L'odio o il disprezzo per tutto ciò che altre volte era tenuto in grande onore, siccome la nobiltà, la religione, e la monarchia. – Nessun governo tranne il repubblicano poteva rispettare la libertà dei popoli, ed ogni re era naturalmente e necessariamente un tiranno. – A chi si provava di richiamare al vero questi fervorosi ed inesorabili repubblicani, si rispondeva con degli squarci di Alfieri o delle strofe di Berchet. – L'idea dominante sopra tutte le altre in quell'epoca era la necessità della espiazione ed il valore del sacrifizio, sicchè se uno spirito benefico fosse venuto ad offrirci in grazioso dono la libertà e la indipendenza, senza chiedere da noi altro concorso che la nostra accettazione, credo che avremmo respinto il dono, e certamente avremmo sentito rancore verso il donatore. – Volevamo la indipendenza e la libertà, ma volevamo più ancora mostrarcene degni.

Un'altra scuola di liberalismo italiano era sorta contemporaneamente a quella di Giuseppe Mazzini. I fondatori, e le dottrine di essa in nulla rassomigliavano nè a Mazzini, nè a' suoi insegnamenti, se non se nel concetto fondamentale e generale di tutti, ch'era la liberazione d'Italia, la di lei concentrazione in un solo Stato, e la imprescrittibile legittimità de' suoi diritti alla indipendenza e alla libertà. – La scuola di cui parlo non si volgeva al popolo, e non sarebbe stata da questo ascoltata nè intesa. – Era una scuola di filosofia applicata alla speciale condizione d'Italia ed al suo avvenire. – Nata in Piemonte, da piemontesi, dispiegava essa quella saggia moderazione, quel rispetto per le cose del passato, che non impedisce di sostituire ad esse le cose del presente e del futuro, che sono più conformi agli attuali bisogni, quella fermezza e quel patriottismo che distinsero per tanti anni il liberalismo piemontese da quello di quasi tutto il rimanente d'Italia. Capi di questa scuola erano Gioberti, Rosmini, Balbo, e molti altri di minor fama, ma forse di non minore ingegno e di non minore virtù.

Non so quali frutti avrebbe prodotto quella scuola, se fosse stata sola a scuotere gli Italiani dal loro letargo; ma contemporanea e per così dire parallela a quella di Mazzini, essa si trovò riempire un vuoto che il Mazzini non poteva colmare, e che al momento dell'azione non sarebbe stato trascurato senza gravi danni del paese. – La scuola filosofica liberale di cui parlo ebbe d'altronde per effetto di persuadere alla gente colta e prudente d'Italia, che la liberazione della patria non era un sogno di fanatici repubblicani, ai quali nulla si poteva togliere perchè nulla possedevano; bensì l'oggetto delle speranze, delle aspirazioni, degli sforzi di uomini che meritavano il titolo di maestri di color che sanno. – Così si riconciliava colle idee rivoluzionarie quella classe di Italiani che vi era stata sino allora invincibilmente avversa, ossia i timidi, che avevano sempre tenuto come impossibile il buon successo di una sollevazione popolare a mano armata contro l'esercito regolare e la tirannide dell'Austria, e di amici quasi esclusivi dell'ordine e della pace.

Con ciò cessava l'ultimo ostacolo alla perfetta concordia e alla unanimità delle volontà italiane.

Così disposti ci avvicinavamo al 48. – Le nostre classi elevate non avevano piena conoscenza della trasformazione accaduta nelle classi inferiori, o per dir meglio ne ignoravano tutta la estensione e la importanza. – I più giovani rampolli delle nobili famiglie italiane erano in gran parte scritti nei ruoli della Giovane Italia; ma, siccome accader doveva, essi erano alieni da quelle esagerazioni che esercitano una irresistibile azione sulle immaginazioni non assistite da un'intelligenza coltivata. – Questi membri del nostro patriziato e della Giovane Italia ad un tempo erano come l'anello che univa quelle due frazioni dei liberali italiani. – Il loro concorso però non era dubbio in tutto ciò che i loro congiunti volessero intraprendere in favore della patria. – Da un capo all'altro della nostra penisola si sognava un sogno solo: l'indipendenza e la libertà. Del 31 al 48 si erano tentate molte insurrezioni, parziali e popolari, alle quali avevano cooperato varii dei giovani discendenti delle nostre più nobili famiglie. – Tutte queste insurrezioni, figlie di congiure ordite all'estero dai nostri profughi, il cui capo era sempre Giuseppe Mazzini, avevano avuto il più infelice successo, e il sangue dei nostri patrioti aveva cosperso tutti i patiboli d'Italia. – I primi rivi versati avevano accresciuto l'ira dei popoli contro i principi, e reso più che mai inaccessibile l'abisso che divideva questi da quelli. – Ma passo passo la disperata natura di quei tentativi apparve ai cospiratori ed agli insorgenti, e il buon senso degli Italiani insegnò loro che persistendo su quella via essi servivano le inique mire dei loro padroni, camminando ad una completa ed assoluta distruzione, che lascerebbe quelli nell'incontestato esercizio del loro odiato potere. – Era necessario trovare altri mezzi, altre vie, era necessario giungere allo scopo.

In quel frattempo i liberali che accostavano le Corti, si sforzavano di eccitare nel cuore dei principi una generosa ambizione, che trovasse alimento nell'operare o per lo meno nel contribuire al risorgimento ed alla esaltazione della comune patria. – Si diceva ad essi: che cosa è un trono di secondo o di terzo ordine mantenuto colla forza straniera, e sul quale siete costretti ad obbedire i comandi di chi dispone di quella forza, a fronte della gloria di essere veramente il liberatore, il salvatore, il padre insomma della vostra patria? – Se bene vi riflettete vi sentirete preso dalla nobile ambizione di abdicare una corona che non portate se non a prezzo dell'onore del paese, e non consentirete a conservarla, a riprenderla, se non quando vi sarà presentata dagli Italiani rinati alla indipendenza ed alla libertà, e che sapranno essere a voi dovuto questo loro risorgimento.

Così per certo due lombardi, Ciro Menotti ed il Misley, avevano parlato al duca di Modena nel 1830 e nel 31. – Il duca era ambizioso, crudele, e di nulla curante tranne degli interessi suoi. – Esso aveva creduto scorgere nella via additatagli dai due imprudenti giovani un mezzo di allargare i suoi confini e di accrescere la propria importanza. – D'altronde, mostrandosi inclinato ai consigli di quei due, il duca era quasi certo di conoscere le trame che ordivano i liberali; e siccome la finzione non gli costava, finse, e trasse nell'agguato i nuovi suoi amici. – Ognuno conosce il risultato di quelle mene. – Menotti espiò sul patibolo il fallo di aver prestato fede ad una creatura dell'Austria; e Misley con molti altri andarono ad ingrossare le fila di quelli emigrati, a cui la Francia e l'Inghilterra furono per tanti anni larghe di ospitalità. —

Ma all'avvicinarsi del 48, l'aspetto delle cose era qualche poco emendato. – Nel prender possesso delle sacre chiavi, Pio IX aveva pronunziato parole che risuonarono in tutti i cuori italiani e li scossero profondamente. Pio IX si dichiarava italiano, amico della libertà e della indipendenza di tutti i popoli, ed alieno da ogni violenza. – Ciò bastò perchè gli Italiani vedessero in lui un nuovo Messia da Dio mandato pel loro riscatto. – Vi fu chi pensò a dargli su l'Italia intera il poter temporale ch'egli esercitava sovra picciola parte di essa. – Alcuni membri del clero, chiari per ingegno e per dottrina, scrissero libri di filosofia e di politica, in cui splendeva il più puro e il più razionale liberalismo. – Il solo difetto di quei libri era il non essere scritti in modo da farsi leggere da molti. —

Carlo Alberto era tuttora sul trono di Piemonte, e già da vari anni aveva manifestato l'animo suo tutto italiano e liberale. – Leopoldo regnava in Toscana, mentre Lucca era tuttora sotto il dominio del giovanetto che ivi aspettava la morte della arciduchessa Maria Luisa alla quale doveva succedere, lasciando Lucca a Leopoldo. A Napoli Ferdinando di Borbone, assorto dagli amori della famiglia, dai piaceri della tavola, e dagli scrupoli religiosi, sembrava incapace di partecipare attivamente in nessuna intrapresa, sia per coadiuvarla, sia per opporvisi, e lasciava supporre che la naturale indolenza, ed il peso degli anni avessero spento in lui quella innata crudeltà e scelleraggine, che mai non aveva abbandonato nessun membro della iniqua sua razza.

I liberali si divisero gli animi di quei sovrani, e si accinsero a muoverli verso la nobile passione del patriotismo. – Il popolo italiano poca parte poteva prendere a tali tentativi, e vi sarebbe rimasto completamente indifferente qualora fosse stato tuttora ciò ch'era al principio di questo secolo. – Ma Mazzini lo aveva destato, e i liberali delle classi colte lo sapevano desto, sicchè non dubitavano che il primo grido di fuori lo straniero metterebbe a tutti in mano le armi.

E così si andava innanzi, lavorando ed aspettando una occasione per operare.

A persuadere Carlo Alberto di consacrarsi alla salute ed alla liberazione d'Italia, non era mestieri nè degli sforzi, nè delle istanze dei liberali. – Il re di Piemonte non aveva avuto durante la vita sua altro desiderio, altro scopo alla sua ambizione. – Appena gli fu svelato l'accordo stretto fra i liberali delle varie provincie d'Italia, ch'egli abbracciò con trasporto le loro viste, le loro speranze, e pose sè stesso, la sua famiglia, la sua casa e la sua corona, al servigio dell'indipendenza italiana.

Dinanzi a lui si apriva un nuovo orizzonte; ed era quello stesso dei sogni di sua gioventù. – Egli vi si precipitò baldanzoso, senza dare al passato un ultimo sguardo.

 

Gli Austriaci, sempre pronti a chiamare su di essi i colpi della avversa fortuna, nulla avevano imparato di quanto si leggeva a chiare note nel contegno degli Italiani. – Gli Italiani gemevano da più di 30 anni sotto il ferreo giogo della Casa di Absburgo; vi obbedivano perchè non era loro possibile la resistenza. – Dunque sin tanto che il giogo della Casa di Absburgo non scemerebbe nè di peso, nè di rigore, la obbedienza degli Italiani non poteva venir meno. – E per accertarsi che il giogo della Casa di Absburgo non diventava più leggiero, l'Imperatore ed i suoi ministri vi aggiunsero nuove catene. I pieni poteri delle polizie e dei loro agenti, i tribunali militari, dinanzi a cui erano condotte persino le donne, la esorbitanza delle imposte, tasse, multe, prestiti volontarii o forzosi, che in nulla differivano gli uni dagli altri, i sequestri, le prigionie, gli ostacoli sempre crescenti allo sviluppo del commercio e della industria in Italia, quel trattar sempre l'Italia come paese conquistato, cioè come si trattavano i paesi conquistati quando la Casa di Absburgo era salita sul trono imperiale, senza riconoscere nè rispettare in essi alcuno dei diritti da Dio concessi a tutte le umane incivilite creature: componeva ciò che chiamavasi il sistema del governo imperiale, e gli Italiani tutti intendevano omai quanto era odioso, iniquo, inumano quel sistema. – Ma gli Austriaci si ridevano delle nozioni che gli Italiani avevano sì di recente acquistate. – I nostri argomenti sono le palle dei nostri cannoni, dicevano a chi tentava far loro intendere che gli Italiani del 40 non erano più quelli del 15 e del 20; e con questi argomenti metteremo in iscompiglio tutto il sapere di questi nuovi dottrinarii, rivoluzionarii, ecc. E così andarono diffatti calcando sempre la via che conduce gli oppressori al precipizio, sino all'anno 47, quando l'iniquità della tirannide austriaca aveva raggiunto il culmine della sfacciata sua forza, e non poteva andare più in là. – I liberali sparsi nelle varie contrade d'Italia, sicuri del concorso popolare, fiduciosi nella simpatia e nell'appoggio del Pontefice, soddisfatti delle disposizioni in cui credevano che l'esempio di Pio IX avesse posto gli animi del gran duca di Toscana e del re di Napoli, istrutti della prontezza e dello zelo con cui Carlo Alberto risponderebbe al primo appello degli Italiani, i nostri liberali, dico, decisero di tentare la sorte senza aspettare nuovi insulti e nuovi danni.

Le cinque giornate del marzo 1848 in Milano furono il primo colpo portato alla grandezza della Casa di Absburgo, e ad esse rispose l'Italia tutta con applausi, con offerte di aiuto, e con dichiarazioni energiche in favore della libertà e della indipendenza italiana. – Leopoldo di Toscana e Ferdinando di Napoli proclamarono subito una costituzione, che solennemente giurarono di conservare e di rispettare in ogni caso; e Carlo Alberto, che già da qualche tempo li avea preceduti su quella via, si accinse a compire l'opera gloriosa dei Milanesi, cacciando colle armi sue, e come si sperava con quelle di tutta Italia, l'Austriaco dalla intera penisola. – Carlo Alberto soleva dire: l'Italia farà da sè; e noi tutti ripetevamo quelle nobili parole, senza esaminare se esse fossero l'espressione di un patriottico desiderio, o di una ben fondata convinzione.

Ognuno conosce la dolorosa storia del 48 e del 49; ma pochi la giudicano con mente posata e scevra da pregiudizii, come da spirito di parte. – V'ha chi imputa i nostri rovesci alla perfidia e al tradimento dei principi; chi, più moderato, li incolpa soltanto di imperizia e di stoltezza. – I soli Milanesi, disarmati e senza capi, avevano trionfato degli Austriaci; come mai si può concepire che gli Austriaci vincessero, pochi mesi più tardi, l'intera Italia? Con questa domanda si credette di aver provato la esistenza di almeno un tradimento, e molti ripeterono quella domanda come irrefragabile prova di questo.

Ma le catastrofi pari a quella del 48 e del 49 non accadono mai, se non per un numeroso concorso di circostanze le quali tendono tutte ad un medesimo risultato.

In questo nostro particolar caso le circostanze che ne procacciarono la rovina sono evidenti; ma perchè numerose e richiedenti, da chi le considera, certa quale tensione dell'intelletto, riescono poco gradite alle moltitudini, che preferiscono attribuire le sventure nazionali al tradimento di chi le regge; appunto come vedono ciò accadere sulle scene teatrali.

Gli Italiani non avevano in comune che una sola passione o due al più: l'odio dello straniero dominio, e l'amore ossia il desiderio della libertà. – Ma non erano punto fissati intorno alla condotta da tenersi per assicurarsi il possesso di un tanto bene, quando lo avessero ottenuto. – Sembrava difatti che lo avessero afferrato, e con quella inclinazione alle illusioni, che forma gran parte del carattere italiano, noi tutti credemmo di aver conquistata l'indipendenza e la libertà, quando vedemmo i soldati austriaci abbandonare umiliati ed impauriti la città di Milano, ed i principi satelliti dell'Austria prodigarne le costituzioni ed i parlamenti, mentre stavano pronti alla fuga per poco che i sudditi loro non si mostrassero soddisfatti delle concedute istituzioni. – Gli Italiani si tennero sicuri della loro libertà, ma si sentivano disorganizzati, e desideravano di costituirsi nel modo migliore. – Non si pensava allora a contentarsi del possibile, dell'eseguibile, del praticabile; si voleva giungere col primo passo alla costituzione più perfetta, a quella cioè che presentava maggiori garanzie di libertà, di uguaglianza civile e sociale, di prosperità, di gloria, e di una vita comoda. – Si voleva una costituzione che trasformasse questa nostra terra in un paradiso, non riflettendo che il paradiso è la patria degli angeli, e che non v'hanno molti di questi sul nostro globo. – Chi voleva una federazione, e fra i federalisti, chi voleva una federazione sul modello della germanica, chi la voleva a modo della elvetica. – Nel settentrione d'Italia una imponente maggioranza voleva mantenere la Casa di Savoja e Carlo Alberto sul trono, che si ambiva soltanto di far più grande. – Altri ricordavano il 21, o ciò che ne avevano udito raccontare; e dando le loro interpretazioni di quei fatti misteriosi, come verità storiche documentate ed accettate dal mondo intero, sognavano tradimenti e gridavano: non vi fidate dei traditori. – V'era chi ripeteva le viete massime del Mazzini, e credeva di vincere il mondo e la sorte con poche parolone alto-sonanti, e vuote di significato; v'era chi sognava l'Italia del medio evo, le repubbliche di Venezia e di Genova, il vestire alla foggia del 500, e le parlate degli eroi di Alfieri. – V'era chi sognava la repubblica francese del 93, e protestava che nulla di grande si fonderebbe in Italia, se non si aprivano certe arterie, dalle quali doveva sgorgare molto sangue corrotto. – V'era chi sognava il primato di Gioberti, ed un papato universale politico sotto Pio IX. – Insomma varii ed innumerevoli erano in quel tempo i pensieri e i voleri degli Italiani; ma fra tanti e sì svariati pensieri e sistemi nulla vi era di eseguibile, e sembrava che gli Italiani si fossero spogliati di ogni senso pratico.

Se loro si additavano gli ostacoli, che dovevano necessariamente opporsi alla realizzazione delle loro utopie, vi rispondevano che la parola ostacolo era per essi vuota di senso, che non vi era cosa impossibile per chi voleva fortemente, ecc. – Se loro si chiedeva che cosa avrebbero fatto quando l'Europa tutta si fosse dichiarata risoluta a finirla con una nazione che si suppone sempre intenta ad introdurre novità pericolose per la civile società, essi stringevansi nelle spalle, e dicevano in tuono di compatimento, che la nazione italiana si componeva di circa 26 milioni di esseri, che si alzerebbero come un sol uomo quando fosse mestieri dare all'Europa una salutare lezioncina, e che ad un popolo così unanime, così valoroso e risoluto in favore di una idea, non v'era esercito, nè associazione di eserciti che potesse resistere. – Si pronunziavano sentenze in tuono cattedratico ed entusiastico, e si credeva aver profferito verità sacrosante, argomenti irresistibili. – Ai pericoli che ne circondavano, alla rovina che stava per piombare su di noi, nessuno pensava. – Gli Austriaci avevano abbandonate quasi tutte le città dell'alta Italia, e quelli fra i principi delle altre parti d'Italia che non li avevano seguiti sembravano trasformati in altrettanti liberali, smaniosi di sagrificare sè stessi e le loro dinastie per contribuire al risorgimento d'Italia. – Tutto ciò era stato operato dagli Italiani, dalla loro risolutezza o dal loro valore. – Che più v'era da temere? Come avevano già vinto, vincerebbero ogni volta che il bisogno della vittoria fosse loro dimostrato.

Intanto gli Austriaci si concertavano coi principi loro satelliti, si riavvicinavano al Pontefice, e ne guadagnavano l'animo incerto e titubante; ed intanto l'Europa assisteva al nostro dramma senza neppure fingere di interessarsi in favor nostro, e simulava ne' suoi fogli periodici di considerarne come impazziti per l'inaspettato apparente trionfo, ch'essa non avrebbe permesso qualora lo avesse considerato come vero e reale. – Presto si vedrebbe a che cosa si ridurrebbero questi nostri trionfi; ma qualora gli Italiani acquistassero veramente la libertà e la indipendenza, toccherebbe alle savie e bene ordinate nazioni dell'Europa il porli in tutela, e l'impedire che le loro pazze teorie e la loro tracotanza ponessero a soqquadro la civiltà e la quiete di questa parte del mondo.

Nessuno pensava di prestarci aiuto; nessuno desiderava vederci liberi e contenti; ma forse meritavamo questa generale malevolenza, poichè ne andavamo superbi e soddisfatti. – Non abbiamo bisogno nè di amici nè di alleati. – Bastiamo a noi stessi; ed insegneremo all'Europa ciò che siamo e ciò che possiamo. – Così parlavamo; e mi ricordo di un tempo in cui la maggiore nostra paura era quella di essere aiutati a nostro dispetto da qualche potenza educata alla scuola di Don Quisciotte.

Suonava l'ora dei rovesci. – Con mirabile valore e con deplorabile spensieratezza, la piccola armata piemontese ed alcune improvvisate legioni di volontarii, a cui si unirono i corpi universitarii, si cimentavano contro l'intera forza dell'impero austriaco, accresciuta ancora da non pochi Russi, che vestivano per obbedienza al loro Czar l'uniforme bianco. – Già il Borbone aveva deposto la maschera, e richiamate le truppe, che la paura di una rivoluzione lo aveva costretto a mandare nell'alta Italia. Già il Pontefice aveva fatto riflessione che gli Austriaci essendo cattolici erano suoi figli non meno degli Italiani, e che la nostra guerra essendo per conseguenza una guerra fratricida, egli non poteva parteciparvi, e richiamava pure le sue truppe. – Il gran duca di Toscana o non ne mandava, o ne mandava così parcamente, che non potevano recare gran danno al nemico nostro. – Attoniti e scorati per sì sfacciato ed inaspettato abbandono, i difensori che ne rimanevano, combattevano eroicamente, ma sentendosi già vinti. – In pochi giorni l'Austriaco toccava le porte di Milano, e dinanzi a lui andavano ritirandosi i nostri soldati umiliati ed impotenti.

I Lombardi fremevano, ed avrebbero preferito seppellirsi sotto le rovine delle loro città, piuttosto che vederle nuovamente occupate dall'odiato oppressore. – L'Italia tutta fremeva; ma i suoi fremiti erano vani. – I popoli non improvvisano le grandi risoluzioni. – Di nulla erano convenuti gli Italiani, se non di combattere e di vincere per prima cosa, e di pensar poi al modo di mettere la vittoria a profitto. La sorte delle armi ne era stata avversa, e non sapevamo far altro che fremere, sognare tradimenti, e maledire i traditori. – Chi voleva cacciare il Borbone, il Pontefice, il gran Duca, e persino Carlo Alberto, e costituirsi in republica. – Chi voleva ricondurre o per amore o per forza i principi sulla via del dovere; e rifuggivano dal pensiero della repubblica. – Mazzini imputava le nostre sventure alla fiducia che avevamo riposta nei Principi, e li dichiarava tutti, o traditori, o condannati ad incessanti disfatte per le colpe loro e per quelle dei padri.

L'ira contro le potenze europee, che ci vedevano cadere sotto la insanguinata scure dell'Austria senza stenderci la mano e salvarci; l'ira contro Carlo Alberto, al quale si attribuiva in quei giorni di avere pel primo profferite le mal augurate parole, l'Italia farà da sè, era generale, e si sarebbe potuto credere che il paese non avesse mai divisa l'erronea credenza nelle proprie sue forze.

Poniamo fine a queste dolorose ricordanze. – L'Italia non compianta ricadde sotto gli antichi ed abborriti dominatori, che si prefissero di opprimerla con sì pesante giogo, che più non potesse neppur sognare nuove rivoluzioni. L'Italia non cadeva tutta in un giorno stesso. Due città resistettero più a lungo delle altre, e in queste due città, che Mazzini o i suoi discepoli reggevano con forma popolare, la diplomazia esercitava poca influenza, e forse non ambiva di esercitarne una più grande. Voglio parlare di Roma e di Venezia: esse non caddero nel 48, ma bensì nel 49; ed in esse l'Italia diede per quella volta almeno gli ultimi aneliti di vita civile e libera.

 

Anche Brescia, lasciata in balìa del suo municipio, che è quanto dire di sè stessa, chiuse le sue porte agli Austriaci, armò tutti i suoi cittadini, senza eccezione di sesso o di età, e si preparò ad una eroica ma disperata resistenza. Per ben tre giorni gli Austriaci irrompevano dalle porte nelle strade della città, ed appena impegnati in queste le ingombravano dei loro cadaveri, da tutte le case, da tutte le finestre, dai tetti rovinando su di loro micidiali proiettili d'ogni sorta. Ma Brescia dovette cessare dalla pugna quando non ebbe più munizioni con cui tenere a distanza il nemico, e quando non ebbe più difensori che non grondassero del proprio sangue.

Gli Italiani diedero cospicua prova di animo valoroso e divoto alla patria; ma ciò non basta a costituire ed a fondare una nazione. – I Polacchi furono sempre ammirati pel singolare loro valore, ma non col solo valor militare si acquista un seggio fra le nazioni civili, libere ed indipendenti; e la storia del popolo polacco basterebbe a convincerne di ciò quando nol fossimo già a sufficienza.

Per undici anni ancora gli Italiani furono trattati come gli Iloti dell'antichità. – Derisa e non curata dall'Europa, martoriata, oppressa, straziata, e munta da' suoi padroni, l'Italia sembrava oramai condannata ad eterna ed ignominiosa servitù; e gli stranieri così opinavano. – Deve esservi, dicevano essi, qualche nascosto difetto, qualche pecca originale nel carattere degli Italiani; poichè ogni loro sforzo per diventare indipendenti e per ricostituirsi in nazione riesce vano; e sappiamo oggidì che non si cade se non perchè si difetta della forza necessaria per reggersi. È inutile tentar nuove prove, soggiungevano talvolta, e dovete rassegnarvi ad uno stato di cose ch'è evidentemente il solo cui siate propri.

L'Italia sola non aveva accettata la crudele sentenza; e protestava contro di essa con parole e con atti ogni qual volta le se ne presentava la opportunità. In quelli undici anni l'odio dell'oppresso per l'oppressore, e viceversa, giunse all'apice della violenza. Ma se a ciò si fossero limitati i nostri progressi, saremmo tuttora schiavi. Un genio benefico sorse presso ad un principe veramente liberale e patriota, nel tempo stesso che un amico d'Italia saliva al supremo potere e prendeva a reggere la più possente e la più energica fra le nazioni europee. – Una segreta alleanza fu giurata fra l'imperatore dei Francesi, e il re Vittorio Emanuele, sotto la ispirazione del conte Camillo di Cavour. – Ma ciò non sarebbe bastato, se una radicale alleanza non avesse composto in un sol corpo e in una sola volontà gli Italiani tutti. – Cavour si fece capo di una nuova scuola politica in Italia. – Egli fece brillare agli occhi degli Italiani queste verità semplici ed incontestabili: per conquistare la indipendenza e la libertà è necessario esser forti; e la unione può solo creare la forza.

Questa così ovvia verità fu prontamente afferrata dagli Italiani, che l'accettarono e la confessarono da quel momento in poi come un dogma, cioè con fede religiosa. – Tutto il passato apparve allora agli occhi nostri sotto un aspetto tutto nuovo. Le nostre sventure più non furono da noi imputate nè ad una sorte avversa e capricciosa, nè al tradimento di chi doveva guidarci. – La vera e patente origine delle nostre incessanti sciagure era appunto il difetto di unione e di unità di vedute, di scopo e di azione. – Sembrava che la segreta cagione dei nostri rovesci ne fosse stata tutto ad un tratto rivelata; e da quel momento in poi ogni gara, ogni rivalità, ogni differenza di opinioni, di tendenze, di gare politiche, fu condannata come delitto verso la comune patria. – Nessuno tentò più di volgere a suo talento gli avvenimenti che si succedevano, e una cosa sola si volle considerare: quale fosse la volontà della maggioranza degli Italiani. – Questa volontà non trovò più oppositori. – Anche i partigiani dell'assolutismo repubblicano di Mazzini sospesero la crociata bandita dal loro maestro contro ogni forma di governo che non fosse repubblicana. – La forma di governo che sarebbe più accetta al maggior numero degli Italiani, quella che sembrerebbe più atta a tenerli tutti uniti, e a crear loro interessi comuni, quella che all'Italia susciterebbe il minor numero di nemici possibile: quella sarebbe la forma di governo contro cui nessuno ardirebbe protestare. – E quando si parlava in tal modo, già si sapeva che la forma di governo necessaria al dì d'oggi era la monarchica. – Alcune città delle Romagne e della Lombardia avrebbero accettata la repubblica di buona voglia, quando questa fosse stata l'oggetto della preferenza di tutta Italia; ma i due principali Stati italiani, quelli che disponevano di eserciti, senza i quali sarebbe stata follìa l'intraprendere cosa alcuna contro la dominazione straniera, il napoletano ed il sardo erano affezionatissimi alla forma monarchica, e non l'avrebbero scambiata colla repubblicana, se non vi fossero stati costretti. – L'Europa d'altronde non lo avrebbe concesso; e gli italiani cominciarono a travedere, che le dichiarazioni e le proteste repubblicane dei nostri emigrati politici erano in gran parte la cagione della diffidenza che l'Europa manifestava verso di noi, e del poco conto in cui ne teneva. L'unico scopo a cui tendevano tutti gli italiani, era il costituirsi in nazione indipendente; e tutto ciò che facilitava il compimento di questo voto era da tutti accettato senza discussione e con trasporto.

Un fortunatissimo concorso di circostanze contribuì alla nostra salvezza. – L'avere sul trono di Francia un amico fedele, che conosceva l'Italia, e sapeva che cosa si poteva sperare, anzi aspettarsi da essa quando fosse pervenuta a rompere le sue catene e a costituirsi in nazione. – Questo amico sapeva altresì che l'Italia, ridotta al misero stato in cui l'avevano precipitata, e la mantenevano i suoi dominatori, non poteva muovere il primo passo verso l'indipendenza senza l'aiuto di una nazione già costituita, sviluppata e forte. – Questo aiuto iniziatore egli era in grado di darnelo, ed avea deciso che non ne mancherebbe. – L'avere alla testa di buona parte dell'alta Italia un re liberale, irremovibilmente schiavo della propria parola, animoso, risoluto ed onesto. – L'avere questo re alla direzione de' suoi consigli un ministro come il conte di Cavour, sagace e destro maneggiatore delle cose politiche, divoto alla salute della patria italiana, che seppe apprezzare le generose intenzioni ed il genio politico dell'imperatore Napoleone, come aveva saputo apprezzare il sincero amor patrio del re Vittorio Emanuele, e come egli medesimo era apprezzato da quei due; che sapeva persuadere e dirigere gli italiani di tutte le provincie d'Italia e di tutti i partiti. Intorno a Cavour si stendeva un'atmosfera di fiducia, tutta nuova per gli italiani, che da tanti secoli erano avvezzi a diffidare e a sospettare di ognuno. – Cavour fu l'anello che legò vicendevolmente Napoleone e Vittorio Emanuele, e questo all'Italia; Cavour fu l'iniziatore della spedizione sarda in Crimea, l'inspiratore del congresso di Parigi, ove per la prima volta i diritti degli italiani furono discussi seriamente, e finalmente riconosciuti. – Cavour aveva fuso gli italiani in un solo pensiero: quello di cacciare al di là delle Alpi lo straniero, e di costituirsi in nazione; e quando l'Austria, insospettita di quanto macchinavasi contro di essa tra la Francia e l'Italia, si accinse a distruggere, cioè a conquistare quel piccolo Piemonte che aveva l'audacia di dichiararsi protettore dell'Italia tutta, e suo nemico, Cavour, che aspettava una occasione propizia, si volse ad un tratto a Napoleone e all'Italia. – Tutti risposero alla sua voce. Napoleone condusse immediatamente i suoi eserciti nell'alta Italia, e gli italiani tutti insorsero contro i loro signori, e protestarono di voler essere italiani liberi ed indipendenti sotto il governo della Casa di Savoja. – Mentre ancora si combattevano gli austriaci, le principali città d'Italia, e gli stati italiani, mandavano deputazioni al re Vittorio Emanuele e al suo ministro, per chiedere di essere annessi al regno dell'alta Italia.