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Tra cielo e terra: Romanzo

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– Scrivile, allora.

– Scriverle? Sarei lungo, più ancora che a dirle.

– Tanto meglio! – gridò Gisella, battendo le palme. – Sarò più a lungo con te… nelle tristi ore che non ci posso essere. Voglio sapere come hai creduto tu, Rizio, voglio saperlo bene. Sai quanto è che ci penso, e non osavo domandartelo? Rizio è l’amor mio, il conforto, il rifugio e la vita. Perchè mai, uniti in tutte le altre, in una cosa sola siamo come stranieri? Voglio essere più in lui, più in lui, tutta in lui, col suo modo di pensare, di sentire, di essere. —

Maurizio posò sulla fronte della divina creatura un bacio solenne.

– Sia; – diss’egli poscia; – scriverò. —

E ridottosi a casa, non era stato a pensarci troppo lungamente. Non aveva infatti da scrivere per la stampa, per farsi giudicare da qualche migliaio di lettori; scriveva per lei, per l’adorata creatura. La fretta avrebbe dimostrato il suo buon desiderio di obbedirla; le stesse imperfezioni della forma, avrebbero fatto fede della sua sincerità. Il giorno seguente, alla Balma, mentre il generale passeggiava sulla spianata dando istruzioni al fattore, Gisella riceveva da Maurizio un piccolo involto di carte. Non era una lettera, ma a dirittura un quaderno.

– Scusate, ho fatto un passio; – diss’egli. – Mi è mancato il tempo d’essere breve. Ho incominciato a scrivere iersera alle undici; non ho finito che stamane all’alba. Del resto, – soggiunse, – spero bene che non vorrete leggere tutto in una volta, ma sorseggiare, centellinare questa povera prosa.

– No, no, – rispose Gisella, – voglio legger tutto d’un fiato. A centellinare ci sarà sempre tempo, e non tralascerò certamente di farlo. Povero il mio Rizio! una notte bianca! E quest’oggi, poi, un’altra condanna!

– Che sarebbe?

– Che troverete modo di andarvene prima del solito.

– Perchè?

– Perchè, non lo intendete? perchè voglio stare più a lungo da sola a solo con te. —

Era adorabile, mandandolo via a quel modo. Maurizio trovò per l’appunto il modo di far più breve la visita, portando via il generale, col pretesto di una piccola passeggiata in paese. La contessa fu sola, come voleva, per leggere il passio del signor di Vaussana. Ed eccolo qua, come ella lo lesse, incominciando dal titolo: «Dal dubbio alla fede».

Capitolo XII.
Dal dubbio alla fede

«Ricordando la educazione religiosa della mia infanzia (così scriveva Maurizio a Gisella) avevate in parte ragione. Sicuramente, ho dette da bambino le mie orazioni. Le dicevo anche molto volentieri, perchè me le faceva dire mia madre, recitandole insieme con me. Oggi ancora sento lei in certe inflessioni di voce, in certe pause che io metto nel mormorarle tra me; e questo me le rende più sacre, dal giorno che le ho ritrovate nella mia memoria, dopo tanti e tanti anni d’oblio volontario.

«Le avevo imparate senza sforzo. La mia educazione religiosa non fu punto pesante. In casa nostra si era religiosi, certamente, e di questo può esservi specchio la mia buona sorella Albertina; ma non si appendevano santi e madonne a tutte le pareti, e non c’era l’uso di recitare il rosario ogni sera, per dimenticare nella eterna ripetizione il significato delle preghiere, o per addormentarci al ritmo uniforme dei nostri borbottamenti frettolosi. Le nostre orazioni erano brevi, e tutte latine. La mamma ce le aveva spiegate alla grossa, ma ce le faceva sempre dire in latino. A me, che un giorno le avevo osservato come il latino non si usasse più, la buona mamma aveva risposto:

« – Appunto perchè non è più una lingua parlata tra gli uomini, dev’essere la lingua in cui si parli a Dio.

« – Ma se io non la intendo!

« – Mettici tutta l’anima, e t’intenderà lui; non basta forse? —

«Io ero già a cinque o sei anni un feroce curioso. Perchè questo? perchè quest’altro? d’ogni cosa volevo saper la ragione. Mia madre, con una pazienza maravigliosa, mi spiegava le cose come poteva, e fin dove giungeva la sua istruzione, o il suo raziocinio; poi mi diceva: «perchè Dio ha voluto così»; e questa era la ragione ultima, a cui non mi era lecito ribattere. Un giorno la misi in un grave impiccio, la povera donna, coi miei terribili perchè. A proposito di un infelice che avevamo incontrato per via, mentre egli si trascinava a stento nella polvere con due moncherini di gambe, stendendo a noi due moncherini di braccia, la ragione ultima di mia madre cozzò contro una mia irriverente ma non vana osservazione: – Ma dunque è Dio che vuole il male? —

« – Queste – rispose ella stringendosi nelle spalle – son cose che io non arrivo ad intendere. So che tutto è ordine, nel mondo; so che c’è il giorno e la notte, quello illuminato dal sole, questa dalla luna e dalle stelle; so ancora che ci sono dei giorni nuvolosi e delle notti burrascose. Per ora non mi domandare di più; tua madre del resto è una povera donna senza istruzione. —

«Non era vero. Mia madre aveva letto molto, leggeva ancora, quando poteva. Un giorno la sentii dire che se tutti gli uomini cessassero di leggere, si perderebbe la scrittura, come si perde una lingua, quando tutti coloro che la parlano son morti. E soggiungeva che se tutti operassero il bene, il male si estinguerebbe, sparirebbe da sè. Questo è un sogno; ma i sogni non son tutti da mettere in canzone. Perchè non vagheggiarli, quando son belli e fanno bene allo spirito? Che santa educatrice è stata mia madre! Peccato che ci abbia lasciato così presto! Quando ella si addormentò per sempre, io e mia sorella fummo ben tristi. Mia sorella è triste ancora, lo avete notato? Sorride poco, e sempre a fior di labbra. Ebbene, ciò data dal giorno che nostra madre è morta. Quanto a me, non so; molto allegro non sono mai stato. Ma allora avevo otto anni, e mi mandarono subito in collegio; forse per distrarmi, forse per non lasciarmi perdere il frutto della educazione materna.

«Anche in collegio avevo la religione, e più che in casa nostra, anzi troppo di più; la qual cosa incominciò presto a seccarmi. Il buon Dio delle mie orazioni infantili si andava rivestendo di misteri, di dogmi e di formule. Ogni mattina, prima della scuola, avevamo la messa; ma che messa? un messone. Quel prete Risso, che veniva a dircela ogni giorno in congregazione, ci spendeva sempre da quaranta a quarantacinque minuti. Se il prefetto, passeggiante di continuo in mezzo alla corsìa, non ci avesse avuto sempre gli occhi addosso, che sbadigli sarebbero stati! E che risate, quando vedevamo il celebrante far segni ad un personaggio invisibile, borbottando certe parole che nel messale non erano scritte! Si era sparsa la voce che egli vedesse il diavolo, un diavolo tentatore, che veniva a distrarlo fin là; donde i suoi gesti per discacciarlo, e la frase che accompagnava quei gesti, una frase che voleva dirgli: va via. Alle domeniche, poi, avevamo nel mattino l’ufficio della Vergine; più tardi i vespri, e da ultimo la benedizione in chiesa. Nell’ufficio mi piacevano abbastanza le lezioni, in cui facevano le loro prove i cantori; nei vespri un inno, che era poi l’ultimo, e si cantava con un ritmo più frettoloso; nella benedizione mi era, per lo stesso motivo, graditissimo il Salutaris hostia.

«Dopo tutto, quelle eterne funzioni, di congregazione o di chiesa, ci rubavano il tempo destinato alle ricreazioni, agli intervalli dello studio. Volevamo andare a passeggio, per respirar l’aria buona, e ci tenevano chiusi, al fumo delle candele, per cantare un Cœli enarrant, bellissimo, ma che non valeva certamente quelle opere. Non parlo dei quaresimali, degli esercizi, delle feste comandate e non comandate, che si seguivano con troppa frequenza. La confessione era un fastidio grande; la preparazione alla confessione un fastidio anche maggiore. Era così necessario a noi rompere le lezioni e lo studio con larghe boccate d’aria, e i nostri custodi parevano moltiplicare a bella posta le occasioni per tenerci rinchiusi fra quattro mura. Il nostro spirito aveva bisogno di una religione poetica, ed essi ce la rendevano sempre più irta di pratiche minute, di astruserie, di terrori.

«Una bella luce d’aurora in quel buio fu per me la lettura del Genio del Cristianesimo, dei Martiri, dell’Atala, tre libri dello Chateaubriand; permesso il primo, quasi raccomandato; gli altri due letti un po’ di straforo. Quel cristianesimo io lo intendevo, lo sentivo, lo amavo. E amavo anche il rettore del collegio, uomo venerabile per dottrina, amabile per graziosa bontà, senza tabacco sparso sulla tonaca, che Iddio lo benedica. Un’altra mia grande simpatia era il vescovo della diocesi, che veniva qualche volta a visitarci, e che noi vedevamo ogni giorno andando a passeggio. Ho sempre negli occhi quel vescovo, un gran signore torinese, bellissimo di aspetto, soave di modi, grave nel portamento, modesto nella sua dignità, che pareva sempre domandarvi perdono del vestir paonazzo e del portare la sua gran croce d’oro sul petto. L’occhio di quell’uomo non guardava, involgeva; la sua bella mano benedicente mandava carezze nell’aria.

«Con tutto ciò, non intendevo ancor Dio. Per non ismarrirmi fra tante novità, mi rifacevo a quello della mamma; un Dio tutto misericordie, tutto dolcezze, nella sua essenza invisibile, ma profondamente sentita nel cuore. Anche la Madonna era bella, e l’amavo, con la sua veste azzurra e fluente, col suo velo bianco, tempestato di stelle; ma non mi piaceva più tanto, quando la facevano vedere con sette pugnali piantati nel cuore, o con degli scapolari, dei rosarii, penzoloni dal braccio, o con certe pesanti corone messe in bilico sulla testa. Cristo crocifisso, che avrebbe dovuto commuoverli, a forza di mostrarmelo in quell’atteggiamento di spasimo, me lo avevano fatto parere meno doloroso alla vista. Ma niente piacevole me lo avevano reso, dipingendolo col petto aperto e col cuore in mostra; un cuore rubicondo, inghirlandato di rose bianche, abuso d’iconografia capricciosa, sdolcinatura da conventi di monache. Scrivo queste cose come mi vengono alla penna, senza neanche curarmi di ordinarle, di aggraziarle; che forse allora avrei l’aria di metterci una intenzione d’irriverenza; intenzione che è ben lontana dall’animo mio, mentre cerco di esprimervi il mio pensiero, come si andava svolgendo, e allontanando sempre più dalla fede.

 

«Nel collegio di marina, dove andai dopo finiti gli studi del ginnasio, c’era ancora la religione; ma una religione più asciutta, più rigida, più smilza; pratica di regolamento e non più. Per dirne bene o male, come educazione, bisognerebbe che avessi avuto solamente quella. Chi sa? forse mi sarebbe bastata, e sarebbe anche riuscita più salda, potendo aggiungerci qualche cosa del mio, colmar le lacune con la religione della mamma; fors’anche m’inganno, immaginandolo. Nel fatto, non ne so nulla: ero in un periodo della mia vita, che, senza discredere ancora apertamente, non credevo già più, nè per virtù d’amore, nè per forza di terrore. L’adolescenza è così. Leggevo molto, divoravo tutto quello che mi era stato proibito da prima, tutto quello che non avrei potuto neanche trovare, stando nell’antico collegio. Non so come, mi capitò allora per le mani il Byron col suo Caino, quindi il Goethe col suo Fausto; i due libri che più fortemente abbiano operato nell’anima mia. Curioso! nè oggi saprei più dire in che modo o perchè, questi due drammi, l’uno scaturito dal vecchio e l’altro dal nuovo Testamento, mi ridestarono tutti i dubbî più gravi, me ne fecero corpo, se così è lecito di dire, nell’anima.

«Frattanto la vita mi chiamava, la gran vita, la multiforme vita, con tutte le sue voci possenti, con tutte le sue aspre curiosità. Ufficiale di marina, libero del mio pensiero se non della persona mia, non credetti più a nulla. Avevo letto in quel mezzo il Volney, quello delle Rovine, e il mio passato intellettuale era anch’esso una rovina: lessi ancora le Origini di tutti i culti del Dupuis, e vidi anche meglio esser principio e fonte di ogni credenza umana il maraviglioso complesso dei miti astronomici. Si fece allora nel mio spirito una gran luce, ed anche una gran pace. Capii finalmente il senso arcano di tutte le religioni, e vidi come la nostra forma secondaria dal sabeismo siriaco, attraverso il culto naturalistico di Adonai, fosse rampollata anch’essa dal mito solare. Nello zodiaco egiziano e nel caldeo avevo anche trovati i segni della Vergine e del Serpente, principii di una favola nuova; così nelle mostruose teogonie dello Zendavesta, nella guerra del principio della luce e del principio delle tenebre, avevo scoperto Dio e il Demonio, il bene e il male ad un tempo. E tutto avendo in questa guisa capito, pensavo spesso alla mamma.

« – Povera mamma! – dicevo fra me. – Ella è stata felice nella sua fede. Ma non sarebbe stata egualmente felice nel pieno possesso della scienza? La scienza è luce; la fede non è che una nebbia, adombrante la luce. La vita è fine a sè stessa; un bel fine che noi guastiamo, facendone il mezzo, l’avviamento ad un sogno. —

«Mi parlavate del mare, del mare misterioso e terribile, che può rifare credenti gli spiriti. No, non è il mare che fa ciò, almeno nella più parte dei casi. Il mare è un abisso, ma un abisso che si misura; le sue profondità non hanno più nulla d’ignoto; le sue collere sono fenomeni preveduti; le tempeste hanno una legge; i flutti son coni vorticosi, che vengono, sollecitati da conosciute pressioni a rompere le loro punte rovesciate sul declivio delle coste; la scienza ha svelati tutti i segreti del mare. Perseo, protetto dall’egida di Minerva, la dea della sapienza, ha troncato il capo di Medusa, quantunque avviluppato di tortuosi sofismi. Anch’essa, la povera Medusa dei mari, finisce male come la sua maggior sorella dei deserti di Libia; rigettata alla spiaggia, perde la iridescenza perlacea dei suoi sette colori, mostrando la sostanza viscida di cui era composta.

«Così il mare non ebbe terrori per me, non avendo segreti. Neanche il pericolo ha potuto mai ridarmi ai sogni dall’infanzia, rifacendomi più vile, o più perspicace. Nato tardi, non ho avuta la sorte di assistere, di partecipare ad una grande giornata navale; il mio coraggio ho dovuto provarlo in piccoli scontri, che offrivano pure la lor parte di pericolo per me, come nelle grandi occasioni. No, vi dico, pieno di salute e di forza, animato da un’alta coscienza di me, infiammato da un caldo sentimento di sdegno, non ho mai misurato il pericolo. Nessun timore ha potuto ricondurmi alla fede antica; vi dirò di più, non ha potuto neanche accostarmi a quel mezzo termine del Dio filosofico, tenue tessuto di ragionamenti, pallida forma ondeggiante ad un soffio, oscuro compromesso tra il raziocinio moderno e la consuetudine antica, che sempre risente un pochino della concessione stracca, della transazione di due sistemi, della combinazione di due opposti elementi.

«Frattanto, io volevo conoscere. Conoscendo sempre più, volevo ricostrurre un sistema, una spiegazione adeguata dell’universo, almeno almeno della vita umana, come buon principio ad intendere il resto. I miei vecchi distruttori non mi bastavano più; scelsi via via i più recenti interpetri dei miti antichissimi, i più dotti di storia e di filologia comparata, i più felici ricostruttori delle lingue perdute. Costoro mi distrussero senza fatica il gran mito astronomico, riconoscendone un altro più vecchio, il mito naturale. Andai più oltre, e ne trovai di più sottili, che al mito naturale ne facevano precedere un altro, nel culto del morto che non deve morire del tutto: donde nei due fatti umani, dell’amor della vita nel morente e dell’amore del morto nei superstiti, si vedeva compiuto il mistero della religione primitiva. Ma questa, che ci mostra l’umanità bambina affrontata all’enimma dell’ignoto, non era ancora la soluzione del problema. Ebbi ricorso allora ai filosofi nuovi, che mi rivelarono la materia incosciente, la quale, combinandosi per caso in certe guise, acquista la coscienza di sè. Mi parve un assurdo, come la spontanea formazione degli organismi. Assurdo fin che vorrete, mi rispondevano, ma assurdo necessario; altrimenti non si spiega nulla. Bel modo di convincere! Credere una cosa anche assurda, non è forse un po’ troppo? Tanto faceva starcene con sant’Agostino, che aveva già detto mille seicent’anni fa qualche cosa di simile. Se pure è stato lui, e non Tertulliano.

«Nondimeno, poichè era necessario, mi acquietai. Facciamo cammino, dicevo tra me; la ragione assoluta non è ancor chiara; vediamo la relativa. Quanto ho letto e meditato, nelle lunghe navigazioni e nelle eterne crociere! Ho studiato tutto, col vivo, ardente desiderio di credere nella scienza. Qui almeno siamo sul sodo, pensavo; è qui l’esperienza che rende conto di sè. Che bella cosa, ad esempio, intendere l’evoluzione degli esseri attraverso la selezione e la battaglia per l’esistenza! Il passaggio possibile da specie a specie non mi spaventava più come una difficoltà insormontabile, poichè i miei filosofi avevano distrutto e rimandato tra i ferravecchi il concetto artificiale della specie. E tutto procedeva allora benissimo: l’uomo mi appariva una forma più perfetta, nata per selezione, uscita per lenta evoluzione da una forma meno perfetta. Tutte le forme viventi avevano seguito questo procedimento; dalla cellula primitiva fino al cervello di Dante, continuando a svolgersi, alcune progredendo, altre restando indietro, per variar di fortune, per azione di ambienti. Certo, non tutto era chiaro, nel nuovo sistema; la prova dei fatti offriva molte lacune. Avendo dubitato della religione, avevo pure il diritto di dubitare della scienza, pensandola insufficiente a scioglier l’enimma della vita. Ma ancor dicevo tra me: pazienza e non disperiamo; la scienza non pretende di spiegar tutto d’un colpo; va a passi lenti, ma sicuri; aspettiamo che arrivi. Infatti, tutti i rami dello scibile progredivano a vista d’occhio; progrediscono ancora; non si tratta più della scienza, come ai tempi antichi: si tratta di molte scienze, che fanno cammino da sè, ognuna coi mezzi suoi, vedendo il suo proprio orizzonte. Aspettiamo dunque, aspettiamo che arrivino. Ma no; ci sono i frettolosi. Tutto è evoluzione, nel mondo. In nome della evoluzione, escono fuori tutti i ciarlatani di piazza. Carlo Darwin diceva ancora: aspettate. Ma che aspettare? gridano essi; tutto è trovato; niente è nel mondo di più elevato, niente è in noi di più nobile, che non abbia la sua chiara, umilissima origine materiale.

«Adagio, con l’umilissima. Donde il seme del divino, che io porto in me? Adagio, col ritrovamento del tutto. Come va che le vostre scienze, tutte sicure del fatto loro, quando vengono a riscontrarsi l’una nell’altra, cozzano maledettamente? Vediamo un esempio, incominciando da ciò che si ammette in astronomia. Una gran nebulosa si è formata; nuotando, vagando, ruotando nello spazio, s’è foggiata in zone, in globi concentrici, in anelli; gli anelli si sono spezzati, raggomitolati in globi minori, in pianeti, nuotando, vagando, ruotando ancora intorno a quel centro. Perchè? Per le leggi stesse della materia. Le leggi? ma che leggi, se tutto ciò era avvenuto per caso? Qual legge ha potuto dire alla materia sorda ed inerte di muoversi, e di muoversi a cerchio? Se mi dite che ha dovuto obbedire ad altri impulsi, non avrete fatto altro che allontanare la difficoltà, e noi dovremo ripigliare la disputa per un sistema maggiore da cui il nostro dipende, e così via, all’infinito.

«Intanto, la matematica vien fuori colla legge delle probabilità, davanti a cui la evoluzione, per trarre un frutto qualsiasi dall’incontro di due organismi in qualche modo riproducibili, suppone migliaia di secoli perchè il fatto si avveri; migliaia di migliaia ne suppone per l’adattarsi di un semplice organo a nuovi bisogni ed uffici; migliaia di migliaia perchè lo stesso bisogno, lo stesso ufficio si sia potuto fissare. E poi, che cos’è questo ufficio? che cos’è questo bisogno? come può nascere, se non c’era? È un elemento che non apparteneva al problema; come si è ficcato egli in mezzo? Come è supponibile che l’elefante allunghi la sua proboscide, e la giraffa il suo collo, per raggiungere il cibo, se questi allungamenti han bisogno di secoli, e il cibo era il bisogno dell’ora presente? Come immaginare che possa formarsi la camera oscura dell’occhio, tanto delicato e complicato ordinamento di materia, per i bisogni di una visione di cui l’organismo vivente non aveva l’idea, e non avendo l’idea non poteva avere il bisogno?

«Ma che si parla di organismi superiori? Solo perchè una cellula primitiva si sdoppî, e lo sdoppiamento diventi legge di vita, occorrono miriadi di secoli. Andiamo più su, e dovremo ancora porre che un fermento chimico si muti in organico; e qui la supposizione batte alle porte ferrate dell’impossibile. E le rompesse ancora; l’astronomia, la fisica e la chimica celeste sarebbero sempre là, per negare al sole tutti i miliardi di miliardi di secoli che sarebbero necessarii alla evoluzione, per far riuscire una mezza dozzina delle sue combinazioni primitive, rudimentali.

«Perdonatemi questa disgressione; essa non mira che a significarvi come l’atto creativo venne ancora a parermi necessario. Quest’atto io non ho da vederlo, io non ho da descriverlo, nel linguaggio necessariamente povero, colle immagini necessariamente inadeguate di tutti i sistemi conosciuti. Ho bisogno della legge, come gli stessi materialisti; ma con questa semplice differenza, che essi vogliono la materia intelligente, o capace d’intelligenza, che è infine tutt’uno, e poi suppongono la legge cieca, mentre io immagino cieca la materia e intelligente la legge. Dà noia la parola con cui i popoli primitivi dell’Asia espressero questa legge, ricorrendo all’immagine di ciò che risplende? Non vedo il perchè di questo sentimento, data la insufficienza del nostro linguaggio, che ad esprimere ogni specie d’idee è giunto per estensione progressiva d’immagini.

«Anche senza dir la parola, e riconoscendo il fatto della legge intelligente, io mi ero a grado a grado pacificato. Seguitavo a leggere, ammirando i dotti per davvero, sorridendo dei ciarlatani che tenevano la piazza. E un giorno i dotti mi confessarono (non a me soltanto, ma a quanti si pigliavano il disturbo di leggerli) che il sentimento del divino era un bisogno dell’essere umano; che nessuna scienza poteva fare astrazione da esso, considerarlo come una quantità trascurabile. Mi soggiunsero ancora che il mondo, com’è costituito, non può supporsi l’opera del caso, per un lato, ma neanche, per l’altro, di una intelligenza suprema, bensì di potenze secondarie, ancora assai lontane da quella. Dopo quanto io ne avevo veduto, di questo bel mondo, l’asserzione non mi pareva temeraria: intanto, l’ammissione di cause secondarie e imperfette, mi lasciava intravvedere anche nell’animo di quei dotti l’idea di una causa prima e perfetta. E dissi tra me: benedetti grand’uomini, che avete ripigliato dal bel principio il problema dell’universo, ma non per venire d’induzione in induzione, di deduzione in deduzione, alla dottrina del nulla!

 

«Anche per essi, adunque, pei Darwin, gli Spencer, gli Stuart Mill, esiste il divino, fuori della evoluzione storica e naturale dei nostri timori e delle nostre illusioni? anche per essi Dio è fuori della materia, comunque da noi poveramente pensato e sentito? Se è, perchè non si svela? Ma qui pensavo ancora dentro di me: perchè dovrebbe svelarsi? Se si svelasse, non cesserebbe ad un tratto l’indagine umana, e colla indagine la ragione istessa della vita? La ricerca dell’assoluto è il fine istesso dell’umanità. Dio è il bene, cioè la verità, la bellezza, la giustizia, la carità, il fonte e la foce dell’ideale, nella grande fiumana dell’universo, di cui non è dato a me conoscere che una minima parte; zolla bagnata, ciottolo travolto, giunco agitato, foglia strappata da un albero alla riva, e travolta dalla corrente, che importa? Il male, poi, il male è tutto ciò che non capisco; in ciò aveva ragione mia madre. Senza aver tanto studiato, la povera donna era già ferma là, dove giunge oggi, reduce da tante battaglie, la scienza degli uomini.

«In quest’altro studio di pacificazione son durato un pezzo, non domandando di più. Ogni viaggiatore ha sentito questo bisogno, di fermarsi un tratto, senza desiderio di giungere alla meta. Ma poi rinfrancato, ho detto a me stesso: perchè vorremmo esser noi fuori del tempo nostro? è lecito di ribellarsi all’ambiente della logica umana, o della storia dei nostri errori, che spesso ne tiene le veci? Se tutte le religioni non furono che passi verso la conoscenza, la moralità, la giustizia, la civiltà del genere umano, perchè rinnegherei la mia? Qui vi farò una confessione; ero proprio sul mare, quando m’avvenne di pensare così; ma il mare non era punto agitato, non prometteva burrasche; ero sano, ero forte, e non avevo l’animo disposto a paure. Guardando davanti a me, nelle diafane serenità dell’orizzonte, mi pareva di vedere qualche cosa che non era il colore dell’aria. Questo colore io sapevo bene come fosse dovuto alla presenza dell’idrogeno. Ma non apparteneva ai fenomeni dell’idrogeno, nè di altro corpo semplice o composto, l’effetto che si produceva in me dal guardare così, con gli occhi dell’anima, in quello sfondo vaporoso che piaceva tanto ai miei sensi.

«Così, per opera di una seconda vista, sentii l’invisibile, penetrai l’inconoscibile. Il mondo cammina, mi diceva la scienza. E cammini, rispondevo io; cammina anche la nave, e non mi toglie di veder sempre qualche cosa là dentro, davanti a me, in quell’orizzonte sempre lontano e presente ad un modo. Viaggiatori della immensità, andremo sempre, e non giungeremo forse mai. Nè io, attenendomi alla religione dei padri miei, penso d’essermi indugiato per via; non temo sopra tutto di dover perdere il treno. Mi dicono che la nostra religione ha delle parti invecchiate. Non so, e se penso che ella contenta dei cuori, nutre delle speranze e forma delle coscienze diritte, son quasi per credere che non sia vera la cosa. Allah (permettetemi questa scorribanda fra gli Arabi, che mi toglierà di parere irriverente, nella dimostrazione della mia tesi, alla religione dei padri miei) Allah è puro spirito, essere unico e sommo, la cui luce consola ancora dugento milioni di credenti, i più fervidi, forse, che il mondo conosca. Mi narrano che il suo profeta fosse un impostore, ed io lascio che narrino; ma dentro di me, se mi fermo a pensarci più che tanto, non credo che Maometto fosse un impostore. Un allucinato, chi sa? Iddio permette di queste allucinazioni; la cosa si può supporre possibile e naturale, come la scienza ammette, suppone e dà per certo che ad un dato momento una forma nuova si svolga da una forma anteriore. Maometto è dunque il frutto del miracolo, in cui si compie un mistero, pari a quello che fa in un dato periodo apparir l’uomo sulla faccia della terra, l’uomo che prima non c’era.

«Vi ho detto assai male tutto ciò che ho pensato. Voi intenderete, nella lucidità dell’anima vostra, come la pratica della filosofia materialistica mi abbia condotto a vedere la sua insufficienza; come una semplice religione filosofica, alla maniera del signor di Voltaire, mi sia parsa scortese per tutte le migliaia di creature intelligenti che intorno a me vivono e credono; come tutte le religioni positive esistenti mi siano parse altrettante incarnazioni del divino. Le consideravo anche progressive, come gradini della scala che mette l’umanità alle porte del cielo. Non offenderò, spero, le timorate coscienze cristiane, dicendo che la loro religione e mia, che è quella portata sulla terra dal figlio, non ha sbugiardata l’ebraica, promulgata dal padre, tra tuoni e lampi, sulla vetta del Sinai. Frattanto, la loro religione o la mia non ho da discrederla, per il fatto che altri ne aspetta una nuova, più chiara e più umana, con meno dogmi, con meno precetti.

«Ripensarla, considerarla per tutti i lati, fu in me l’opera di qualche anno; accettarla fu un punto. Di certo, il descrivervi quel punto non varrà molto a darvene ragione; pure, per contentarvi, ecco qua brevemente quel che mi avvenne. Ero a Milano, approfittando di una breve licenza; vivevo laggiù tra continui passatempi, senza pensieri, felice come può essere l’uomo giovane, sano, forte, padrone di tutte le sue facoltà, ricco abbastanza e senza desiderio di più. Passeggiavo una sera, per far l’ora di andare al teatro. Non so più da qual punto, seguitando il marciapiede, mi trovai nella via di San Celso; e là, da un portone aperto nella penombra del crepuscolo, mi venne un’ondata di musica, voci umane all’unisono, con accompagnamento d’organo. Non avevo immaginato che in quel punto, sulla stessa linea dei fabbricati, ci fosse una chiesa; niente me l’aveva annunziata, e fu istantaneo il moto dell’anima che mi fece entrare in quel luogo. La chiesa era buia; solamente nel fondo si distinguevano quattro o sei fiammelle di candelabri accesi sull’altar maggiore, più per dare indirizzo allo sguardo che per illuminare la gente raccolta a pregare. Seguendo il capriccio improvviso, ero entrato con passo risoluto; ma sùbito fui costretto ad inoltrarmi più lento e guardingo, poichè si era al buio, come vi ho detto, ed io temetti d’inciampare in qualche povera donna inginocchiata. Trovato il primo pilastro della navata, mi fermai, stetti a sentire. La folla, nascosta nell’ombra, cantava le litanie, prologo consueto alla benedizione serale.

«Quante volte non mi ero io ritrovato ad una scena simile, da ragazzo, e senza averne alcun senso particolare allo spirito! Là, invece, in quel punto, fu una dolcezza nuova per me. Mi piacevano le voci; mi piacquero le invocazioni rivolte alla gran madre degli uomini e degli angeli, così teneramente affettuose e così varie nella lor sequela monotona. Tante belle cose si dicevano a Maria; e coloro che le dicevano le pensavano; certamente le sentivano. Che consolazione per essi, che fossero egualmente sentite lassù, nel profondo de’ cieli! Infatti, perchè Dio, causa prima degli esseri, non dovrebbe sentirne le voci?

«Tacque il canto monotono della folla: di là, dall’altar maggiore, si rispose con qualche oremus, con qualche versetto latino; poi due o tre forme incerte, timidamente luccicanti di riflessi metallici al fioco lume dei ceri si mossero, levando di mezzo a quei ceri un ostensorio; si udì un movimento simultaneo, per tutta la grande navata, di persone cadenti sulle ginocchia; si svegliarono da capo i gravi suoni dell’organo, e tutte le voci della moltitudine ascosa nell’ombra intuonarono il Tantum ergo, annunziante e celebrante il mistero dell’accostamento di Dio alla terra. Illusione anche questa? Se è un’illusione, diciamo pure che Iddio l’ha permessa. Ed egli è certamente là, dove, in quella miglior forma ch’ella ha saputo trovare, la creatura lo invoca. Tantum ergo sacramentum… Sì, il patto è consacrato, tra lui e la creatura; ed egli, il santo invisibile, è presente a tutti coloro che credono, che sperano, che confidano in lui. A quel punto, che da ragazzo mi lasciava così freddo, non d’altro desideroso che di sentire il Salutaris hostia, l’inno breve, il ritmo allegro della liberazione e della fuga, a quel punto mi sentii un rimescolo nel cuore, e le lagrime mi salirono agli occhi. Veneremur cernui, cantava la folla adorante; e a me si piegavano le gambe. Mi vergognai e volli star ritto; ma subito un altro sentimento mi prese, facendomi vergognare della mia stessa vergogna. Veneremur cernui, bisbigliava una voce dentro di me; Veneremur cernui balbettavano le mie labbra, all’unisono col canto della moltitudine. Ero caduto in ginocchio, e pregavo.