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Tra cielo e terra: Romanzo

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– Non siete belli, vi dico; – ribattè quell’altra, ridendogli ancora sul muso; – e tu starai male, cugino Maurizio. Neanche si capisce, quel vostro uniforme; non significa nulla. Perchè quella feluca nera, che non si può tenere ben salda sulla testa, che vi scivola sempre indietro, con uno di quei becchi d’anitra, in su, verso la luna, e l’altro in giù, che vi piove sulle spalle? perchè quello spadino al fianco, che par uno spiedo da infilzare i ranocchi? perchè quella coda di rondine, smilza smilza, che va a cercarvi i polpacci? Non si capisce, ti ripeto, quel vostro uniforme; non significa nulla.

– È quello a un dipresso di tutte le marinerie europee. Lo ha portato Nelson, signorina.

– E lasciatelo a Nelson, e vestitevi da cristiani. Guarda laggiù, quell’ussero di Piacenza. Che eleganza di vestiario! che armonia di tinte! e che aria marziale!

– Ah sì, quello starebbe bene a bordo! – notò Maurizio, allungando le labbra, con aria di sublime disprezzo.

– A bordo, non so; – ribattè la cugina, senza scomporsi. – Noi siamo in terra; per la terra giudichiamo gli uomini.

– Dagli uniformi; – conchiuse Maurizio.

Erano rimasti grossi per tutto il tempo della passeggiata. Quel giorno si separarono freddi. La notte, quando fu solo nel suo letticciuolo di collegiale, Maurizio pianse a calde lagrime il suo bel sogno svanito; ma con quelle lagrime gli si prosciugò la vena delle tenerezze. La cugina era una civettuola e una sciocca, vana della sua bellezza, felice d’esser guardata, e più fatta per godere gli omaggi della cavalleria che quelli della marineria. Gli ultimi giorni che ella passò a Genova non furono niente migliori. Maurizio era imbronciato, ed ella stette molto sulla sua. Ella partì per Nizza con la famiglia, ed egli s’imbarcò per il suo primo viaggio. Così finiva il romanzetto, a mala pena imbastito, così l’amor suo a mala pena sbozzato. Del resto, quella splendidissima e formosissima bionda, egli non aveva più avuto occasione di vederla. Quattro anni dopo, essendo egli di stazione a Montevideo, gli giungeva notizia che la cugina era andata a marito, passando anche a vivere in Francia. Buona fortuna, e figli maschi.

Strano ragazzo, quel Maurizio! aveva giurato di non lasciarsi più cogliere a certe lustre, ed era stato di parola: il primo amore era anche l’ultimo. Parliamo del grande amore, s’intende, di quello che si crede veramente l’amore, il forte, il solenne, il poema della vita. Episodii, sì, ad ogni crociera, ad ogni viaggio sui mari lontani, ad ogni fermata nei porti patrii: ma presto gliene era venuta la nausea. Tutti giuochi, superficialità, scioccherie, quando non erano indegnità; e queste e quelle erano poi sempre offese alla gran legge dell’universo. «L’amore è un atto religioso» diceva egli volentieri, quando ne cadeva il discorso cogli amici; «come atto religioso, non va preso a scherzo». Ed egli era religioso, come è sempre nel fondo dell’anima il gentiluomo di mare. Chi vive meno nel consorzio degli uomini vive più intimamente con sè, e più spesso con Dio; con Dio, il cui spirito corre non visto sull’acque, cavalca le nubi della tempesta, si libra sull’arco dell’iride, si affaccia nella gloria del sole sorgente sull’oceano, siede nella porpora accesa dal grande astro al tramonto.

Grandi cose, sul mare! Ed ora, abbandonato il vasto suo campo, sarebbe tornato alle cose piccine. Ma sì, così portava la necessità. Lo avevano voluto umiliare; aveva preferito spezzarsi. Non esagerava egli un poco? Forse; ma era fatto così. Obbedire gli piaceva, ma all’intelligenza, o alla probità che ne tien luogo, quando tra chi comanda e chi obbedisce aleggia l’idea del dovere morale. Altrimenti no; e per non dar scandalo brontolando, se ne andava via, spezzando la spada. Uno spiedo, dopo tutto; non glielo aveva detto quella formosissima bionda? Ed anche buttava la feluca a mare: galleggiasse a sua posta, e naufragasse al primo scoglio. Lassù, nella quiete della sua bicocca solitaria, avrebbe evocate le figure dei grandi ammiragli; buon metodo per dimenticare i piccini.

Capitolo II.
Alla terra dei padri

Maurizio di Vaussana cessò finalmente di vedersi il mare da fianco. Era giunto alla stazione di Ventimiglia. Sceso dal treno, prese la via dei monti, dopo aver fatte caricare le sue valigie in una vettura da nolo. Quanto ai suoi bauli, aveva dato lo scontrino del bagaglio ai signori Rolandi, buona gente, amici vecchi di casa sua, che s’incaricarono volentieri di farglieli recapitare il giorno seguente a San Giorgio. E la vettura si mosse, partì con alto fragore di ruote, tintinnìo di sonagliere e scoppiettìo di frusta nell’aria polverosa, ma soprattutto con la gloriosa velocità di tutte le vetture da nolo, quando incominciano la corsa.

– Sentirai la nostalgia del mare anche tu – aveva detto il tenente Maurizio al marinaio Susini. Per intanto, non doveva sentirla lui così presto. L’aria fine dei monti natali carezzava le guance del viaggiatore, ancora dorate dai soli africani. Quante balze conosciute gli occhieggiavano dall’alto, lungo la via serpeggiante! Le eriche, i pini, i ginepri, i roveri, i lecci, tutti conosceva Maurizio, a tutti sorrideva, come ad una brigata di vecchi amici, ritrovati dopo tanti anni di assenza. Ad una certa voltata ci doveva essere una macchia di fràssini, nascosta dietro il ciglio d’un poggio. I suoi ricordi non lo avevano tradito: vide, riconobbe i suoi fràssini, non molto cresciuti da quelli di prima, sempre eleganti, svelti, pieghevoli, che stendevano verso la strada i rami sottili, vestiti di foglie tenere, luccicanti al sole pomeridiano. E le ginestre del pian del Termine? Il piano, per fallire al suo nome, era una eminenza, e finiva in un dirupo; ma le ginestre erano sempre là, facendo siepe al ciglione, contente del galestro in cui avevano messo radice, portando fieramente levati i loro pennacchi verdi cupi, in attesa di vestirne le vette con tanti bei grappoli di quei fiori gialli che ogni anno solevano dare (o lasciarsi prendere, che è tutt’uno) per l’infiorata del Corpus domini, nel paesello di San Giorgio.

Alla vista di quelle ginestre, uno strano sentimento lo prese; un vivo e pungente ricordo, un aspro, impaziente desiderio di quelle feste lontane, di quelle solenni riconciliazioni con Dio che la Chiesa ha seminate accortamente lungo il corso dell’anno; tutti giorni a cui corrispondono fragranze e suoni ed immagini particolari, vapori d’incenso, frescura di cose tenere e dolci, sorrisi di cielo, suoni di zufoli allegri, tagliati nelle cortecce dei rami di castagno, uccellini gorgheggianti la canzone del natale divino dalle gravi canne di un organo. Come tutti i sensi rivivevano in lui di gioconda vita infantile! e quanta adolescenza gli veniva incontro da quelle gole ospitali!

Sei tu, non è vero? sei qua finalmente? Buon figliuolo di salda memoria, vieni alla dimora dei padri. La vedi lassù, quella montagna, che appare per la sua sommità, dietro a due ordini di colline? Ci vorrà ancora un paio d’ore, prima di giungerci; frattanto si affaccia a noi, pare che stia spiando il nostro arrivo, come una scolta di fortezza. Era lassù, la ròcca dei tuoi antenati; quelli del ramo primogenito, estinto oramai, il ramo dei Sospelli di Balma. Buon seme di forti castellani, rigidi al dovere e così fermi alla consegna! Finirono, come tutto finisce; ora dormono col Signore, in fila, l’un dopo l’altro, come guerrieri caduti sul campo, al posto loro assegnato. Anche i Sospelli di Vaussana rischiano di finire con te. Vieni, giovanotto; prendi il tuo posto accanto alla tua squadra; mettiti in fila anche tu. Il mare è bello, attraente, e perfido; la montagna è severa, ma sana e fedele. Questa è la patria, salda, immobile, di granito; qui, dove le eriche e i rovi non muoiono mai, aggavignati al terreno. Si succedono i virgulti, e son sempre gli stessi. Senti il profumo agreste della macchia? È la stessa virtù che si trasmette di generazione in generazione. Anche di lassù si vede qualche volta, il tuo mare: son belle le cose vedute dall’alto, e da una giusta distanza. La varietà dei particolari si perde, e la patria grande, tanto più grande quanta più se ne abbraccia col pensiero, trascurando la minutezza delle parti, si ama anche meglio. Quando c’è bisogno di difenderla, quando ci chiama alle bandiere la voce del re, i gentiluomini calano come falchi dalla rupe, seguiti dai loro vassalli… No, non più vassalli, ora: tutti fratelli in Dio e nella patria; è più bello così, ci ravvicina meglio al Vangelo. E i forti, i buoni, gli intelligenti, salgono sempre, dovunque sian nati, facendo stipite di nuova grandezza. Chi era il bisnonno di Carlomagno? Pipino d’Héristal. Ma chi il bisnonno di Pipino? un ignoto guerriero, un servo di palazzo dei re Merovingi. Così tutti i degni, i valenti, i buoni, posson salire; i fannulloni, i fiacchi, i cattivi, discendere. La montagna resta, produce i suoi virgulti, i suoi fiori, i suoi frutti. Tu, povera pianta, ritorni alla tua terra natale. Più presto che non ci fosse dato sperare, in verità! È stata un’ingiustizia, tu dici; meglio così. Partivi fidente, ritorni disingannato, ma anche educato dalla sventura, agguerrito alle pugne dell’esistenza. Farai il tuo dovere, qui, come altrove; servirai alla gran legge di Dio, che è progresso infinito, dovunque si vada, di dovunque si muova.

Il paesello di San Giorgio incominciava ad apparire. Peccato che fosse già tardi! Le ombre della sera cadono troppo rapidamente, nelle gole delle Alpi. Ma nella scarsa luce del crepuscolo, i ceppi delle case biancheggiavano ancora abbastanza: poi, quando la vettura fu all’entrata del borgo, incominciavano ad accendersi i lampioni. Un po’ radi, secondo l’uso dei piccoli paesi e la poca «elasticità» dei bilanci comunali; ma supplivano qua e là i lanternini appesi a qualche tabernacolo di santo, negli angoli delle vie. A quella scarsa luce Maurizio vide i ciottoli enormi onde era lastricata la strada maggiore; sempre quelli, con le loro gibbosità, coi loro alti e bassi continui, sempre quelli, eternamente rugosi e rossastri nella corteccia inattaccabile della quarzite, che s’è arrotondata così, colorata così, nella mota millenaria del periodo glaciale. Poveri cavalli, costretti a lavorare di zampe ferrate in quel letto di torrente!

 

Ma ecco, finalmente, un po’ di strada da cristiani; ecco il battuto della piazza maggiore; ecco la chiesa, la parrocchiale di San Giorgio; e più su, in capo ad una piazza, che scende larga in pendìo, la mèta del suo viaggio, il suo palazzo, il «Castèu». Meritava il nome con cui era stata battezzata, e sotto cui era comunemente riconosciuta, la vecchia casa dei Sospelli di Vaussana; castello del Trecento, o giù di lì, con la sua torre da un lato, con le sue logge alte al secondo piano, fors’anche coi merli e le caditoie; restaurato quindi a palazzo signorile, nel corso del Secento, gran colpevole un po’ da per tutto di simili trasformazioni architettoniche. E veramente allora erano state chiuse le grandi finestre a sesto acuto, per ricavarne di più piccole, a stipiti quadrati, nel mezzo; ma ancora da certe screpolature s’indovinava l’alzata dell’arco primitivo, e da qualche sfaldatura dell’intonaco ne trasparivano le elegantissime linee di cotto. Un nuovo restauro, dei principii del secolo presente, aveva aggiunte le persiane; ed erano queste, per l’appunto, che avevano persuaso il padre di Maurizio di non appagare un desiderio della moglie, a cui sarebbe piaciuto di veder ritornate alla luce e alla gloria antica le ogive del Trecento.

– Cara mia, – le aveva detto il buon conte di Vaussana, – per contentare il tuo gusto medievale bisognerebbe rinunziare a questa benedetta invenzione delle persiane. Levate queste, ed anche ingrandite le finestre, immagina tu come si starebbe freschi. Che idea, quella dei nostri antenati, di voler morire dal freddo! È vero, – soggiungeva il degno gentiluomo, temperando l’asprezza del suo troppo moderno giudizio, – che gli antichi lo sentivano meno, il freddo; ed è forse per questo che durarono tanto. —

Giaume, il vecchio castaldo dei Vaussana, aspettava Maurizio ai piedi dell’erta, e fu il primo a dargli il bentornato. La sorella Albertina lo accolse a braccia aperte, sulla soglia del portone; benedetto portone, sormontato dallo scudo dei Sospelli, di rosso, al libro aperto d’argento, caricato d’una spada in palo, del medesimo, col motto «tout droict Sospel», continuo tema di pazze congetture agli eruditi mandamentali.

La contessa Albertina aveva fatto preparare per suo fratello l’appartamento dei vecchi al primo piano. Non era egli oramai il signore del castello? Ma il nuovo arrivato, in omaggio ai ricordi, amò meglio di ritornare nel quartierino della torre, in quelle due camerette che aveva ancora occupate la notte prima di andare a Genova, per entrare nel collegio di Marina. Si sentì giovane, anzi ragazzo, là dentro; e la mattina seguente, aprendo gli occhi e rivedendo il suo nido alla luce dell’aurora, gli parve di non essersi mosso mai da quel luogo. Tutte le cose intorno a lui sorridevano, con quell’aria domestica che è data ai mobili di casa dalla loro istessa vecchiaia. Maurizio stette un’ora buona a guardar tutto attentamente, incominciando dal suo letto di legno dipinto di celeste a fiorami; passando poi allo specchio dalla cornice barocca indorata, con una luce di Venezia tutta sfiorita dagli anni, al canapeino di legno, dipinto nello stile del letto, all’armadio, al tavolino, alla piccola libreria, dov’erano ancora i suoi libri di scuola.

Poco lontano di là, al secondo piano del palazzo, era una libreria ben più ricca, quella del babbo, che era stata anche di due generazioni anteriori: libri vecchi, ma in gran numero, quasi tutti di storia, e di erudizione. Il fatto suo, non vi pare? Ed egli per l’appunto aveva contato su ciò. Il suo primo pensiero fu di riordinare in quindici o venti giorni quella libreria, da tanti anni dimenticata; avrebbe veduto frattanto che cosa ci fosse di utile per sè, nella compilazione dell’opera che aveva disegnato di scrivere. Voleva seguitare a dormire nella sua cameretta di adolescente; l’attigua gli sarebbe servita come spogliatoio; tutte le altre del secondo piano, che venivano in fila, le voleva ridurre a stanze da lavoro, coi libri, le carte murali, gli atlanti, e tutto l’altro che gli bisognasse.

Del resto, si stava molto bene lassù, con una vista impagabile. Dalla finestra della sua camera da letto vedeva anche meglio la montagna vicina, col castello della Balma, da cui lo separava una boscaglia tutta nera e folta, assai pittoresca, ottima per andarci a passeggio nell’estate, corsa com’era da sentieri solitarii e tagliata per mezzo da una valletta, con una bella cascata, bianca come il latte, rumorosa come il mare, quando viene a frangere in una caverna a fior d’acqua. La chiamavano l’Aiga, e qualche volta anche la cascata del Martinetto. Egli la sentiva per l’appunto rumoreggiare, come vent’anni addietro, quando si addormentava alla sua nenia dolcemente monotona.

Albertina approvò tutti i disegni di Maurizio. Approvava ogni cosa, felice di riavere il fratello, e di ritrovarlo lo stesso di prima, nel modo di pensare, di sentire, di essere. Egli, del resto, era sempre giovane. Lei, piuttosto, immutata nell’animo, era tutt’altra oramai nell’aspetto, invecchiata parecchio, sebbene non avesse che un anno più di lui. Ma le donne, si sa, invecchiano a star sole, più che non facciano gli uomini. Ebbene, che importava ciò? Sarebbe stata anche meglio una madre, per lui, con la precoce autorità delle rughe. Hanno questo spirito di sacrifizio, le vecchie zittelle buone. Quanti fili d’argento nei cappelli neri della contessa Albertina! Ma diritta ancora, diritta sempre, come la spada in palo, nello scudo dei Sospelli; o meglio, diritta come la propria coscienza, e sorridente, serena, luminosa come una santa sull’altare.

Quella mattina, essendo giorno di festa, fratello e sorella uscirono insieme, per andare alla chiesa. Maurizio vide per la strada e sulla piazza maggiore molti visi maravigliati: ne riconobbe parecchi, e con tutti andò subito all’abbordaggio. Non era mai stato superbo, e non faceva consistere la nobiltà nella mutria. Erano compagni di scuola, rimasti nel borgo, quasi tutti della classe media, tra povera ed agiata: a vicenda agricoltori, industriali e meccanici, come spesso occorre nei paesi di montagna; piccoli intelletti, nei quali la istruzione primaria e la secondaria non avevano fatto miracoli, ma nei quali la educazione sana e la vita ristretta agli esempi domestici avevano conservato ottimi i cuori. Restavano naturalmente un po’ timidi; ma la timidità rende gli uomini facilmente più amabili. Tutti quei vecchi compagni di scuola e di giuochi infantili erano tanto più amabili con Maurizio, in quanto che niente era intervenuto a turbare la cortesia delle relazioni, niente ad inasprire gli animi, fosse pure per una settimana, o solamente a intiepidire le amicizie, come avviene pur troppo nella convivenza di tutti i giorni, per gli attriti inevitabili dei piccoli interessi offesi, o delle piccolissime questioni del comune, della fabbriceria, dell’asilo. Furono tutti felici di stringer la mano al contino (così lo chiamavano ancora, come lo avevano chiamato da ragazzo, vivente il signor Vittorio suo padre); felicissimi quando seppero che era stanco del servizio, che non lo avrebbe ripreso, e che sarebbe rimasto a lungo tra loro.

La chiesa parrocchiale era bella, assai più bella dentro che fuori: nuove le dorature, ed egualmente gli affreschi, frutto di risparmi dell’opera, di limosine accumulate e di aiuti straordinarii di agiate persone. Aveva un bellissimo altar maggiore, tutto di marmi incrostati a fiorami di vario colore, imitanti un drappo di broccato antico. Quello era stato un dono fatto cento cinquant’anni addietro alla chiesa da un Sospello di Balma. In una cappella laterale, dentro una gran nicchia protetta dalla sua invetriata, si vedeva una statua di san Giorgio a cavallo, in atto di piantar l’asta nella gola spalancata del drago. Era una statua da portare in processione il 24 di aprile, ricorrendo la festa del santo onde aveva nome il paese; e quel buon saggio di scultura nel legno, del primo ventennio del secolo decimono, era dono di un Sospello di Vaussana, il nonno di Maurizio. In quella cappella, di patronato della famiglia, aveva la sua panca la contessa Albertina, che c’era infallantemente ogni giorno a pregare, un’ora nei giorni di lavoro, due ore nei giorni di festa, e più, all’occorrenza, secondo la durata degli uffizi divini. Quante preghiere! direte. Ma sì, è ben necessario che qualcuno preghi per tutti coloro che ne han perso l’uso: se poi non è necessario, pensate che il pregare della contessa Albertina non ha mai fatto male a nessuno.

Sull’altar maggiore, di sopra al tabernacolo, sorgeva un gran crocifisso di legno. Quel crocifisso era la maraviglia del paese. Si diceva, tra quei terrazzani, che non ce ne fosse uno più bello al mondo, neanche a Roma; e si soggiungeva che certi inglesi avessero offerto di pagarlo a peso d’oro; la solita chiacchiera! Certo, era bello; più elegante che vero, aveva sentenziato uno scultore verista, che era passato di là. Ci si vedeva il modellato dell’Apollo del Belvedere, col risalto armonico dei muscoli, con la giusta gentilezza delle membra, con la soave finezza delle articolazioni; solo si notava negli occhi e nella bocca una espressione di dolore, ma niente più di quella che occorre negli occhi e nella bocca della Niobe di Scopa; non c’era insomma l’accasciamento di un corpo rifinito dallo spasimo della morte, nè lo stiracchiamento delle braccia, nè la torsione in avanti degli omeri, nè la uscita fuori di squadra delle due scapole, come sarebbe stato necessario, con tanto traboccare di una massa pesante.

Alle quali ragioni dottissime aveva risposto un collega della scuola idealista, che nella rappresentazione dei tipi consacrati dalla tradizione dell’arte bisogna dare la parte sua all’uso costante, all’opinione ricevuta, al sentimento universale; che soprattutto non è da far vedere un Dio morente nella medesima condizione statica di un giovane facchino appiccato per due ore al giorno come modello nello studio di uno scultore. Il vero, sì, ma non tutto il vero; altrimenti, perchè non si crocifiggerebbe un uomo al giorno, per esporne con utilità di sensazioni estetiche la ineffabile angoscia alle turbe? Quello è infatti il vero, veramente vero. Ma ancora, in quel caso, si vedrebbe che non tutti gli organismi umani si diportano ad un modo, nell’atteggiamento della persona, nell’abbandono delle membra, nell’espressione dell’agonia. Così nella parrocchiale di San Giorgio le due scuole si erano bisticciate un tantino, ma persuadendosi ancora a vicenda che si può esser bravi artisti e farsi onore con ogni scuola; e avevano poi fatta all’insegna dei tre Re una pace temporanea, come la faranno un giorno definitiva, alla consumazione dei secoli.

I piedi del crocifisso sparivano quella mattina sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, legato al tronco della croce. Belle rose di ogni forma e d’ogni grandezza, chiuse ancora od aperte, d’ogni profumo, d’ogni temperanza del rosso e dell’incarnato, del pavonazzo e del cremisi, del salmonato e del giallo; davano tutte insieme a quell’augusto morente l’aspetto di un trionfatore.

– Sei stata tu, non è vero? – bisbigliò Maurizio all’orecchio di sua sorella, indicandole quel gran mazzo di rose.

– Sì, – rispose ella, arrossendo lievemente. – Sono di quelle che ha piantate nostra madre. Il Castèu è sempre il primo ad averne; ed è stata veramente una fortuna che ce ne fossero tante, per festeggiare il tuo arrivo a casa. —

Maurizio si sentì scorrere una lagrima giù per le guance. Anch’egli, come la sua buona sorella Albertina, vide nel presente il ricordo del passato, e v’associò la promessa del futuro. Non voleva più andarsene da San Giorgio; dalla terra alpina dove dormivano i suoi maggiori; dal solitario Castèu, dove prima che altrove fiorivano così bene le rose.

Finita la messa, uscirono sulla piazza, per ritornare a casa; lentamente, per non aver aria di fuggire, ed anche allungando un tantino la strada, per abbondanza domenicale. Così videro sfilare in parata tutto quanto il paese; e da ogni parte erano inchini, sberrettate, scappellate, a cui bisognava rispondere. Maurizio notò sottovoce a sua sorella di non essersi provveduto abbastanza, alla Spezia, portando solamente due cappelli con sè.

– Aspetta la prima fiera; – gli rispose Albertina. – Ci saranno cappelli d’ogni qualità: ed anche verrà la paglia di Nizza, che solevi ricordare nelle tue lettere.

– Infatti, è strano; – esclamò Maurizio. – Non se ne trova più. E neanche paglia di Firenze, che la somiglia tanto. La moda, la moda! è una gran sciocchezza, la moda. —

 

Ma sua sorella non la intendeva così, quantunque alla moda sacrificasse ben poco.

– Bada di non far la ruggine, Maurizio; e soprattutto non ti far vecchio prima del tempo. —

Rideva, la buona zittella; e ridendo, diventava più giovane. Rispondeva più ilare, più serena, più franca ai saluti che venivano d’ogni parte. A San Giorgio sicuramente, da dieci anni almeno, non l’avevano più veduta così.

– Vedrete che torna bella; – dicevano alcuni.

– Lo era tanto a vent’anni! – rispondevano altri. – Ce n’è rimasto qualche poco, per far festa al signor Maurizio.

– Quello, poi, li ha sempre, vent’anni. E dovrebb’essere sui trentacinque.

– No, non può averne che trentadue. Ricordate? è nato lo stesso giorno del figlio di Misa Margoton. —

Misa Margoton, che serviva d’indice cronologico ai terrazzani di San Giorgio, era una nizzarda, andata giovanissima lassù, a fare la ciambellaia. Erano famose per tutta la Vaussana la ciambelle di Misa Margoton, e facevano furori a tutte le fiere, a tutte le sagre dei dintorni.

Alla svolta di una strada, la coppia fraterna s’incontrò ad angolo con tre persone, di aspetto assai signorile, una donna e due uomini: uno di statura giusta, piuttosto atticciato, con due gran baffi biondi largamente brizzolati di bianco, di bell’aspetto, gli occhi cerulei, e una faccia di color sanguigno che forse aiutava a levargli otto o dieci dei sessant’anni che gli davano a prima giunta i suoi baffi; l’altro d’aspetto grigio, alto e magro, con due gambe di ragno, figura pulita di cavaliere malinconico; la donna giovane, elegantissima nella semplicità del vestimento, biondi i capelli e rosea la guancia, come la regina Isotta dei canti medievali.

Erano facce nuove per Maurizio, che pur dovette salutare, imitando la sorella, in risposta al primo saluto del signore dai baffi biancheggianti. Il quale, rinnovando il saluto, o piuttosto appoggiandolo con un cenno del capo, si voltava ancora un tratto a guardare, e sicuramente per veder meglio lui, che gli giungeva nuovo egualmente.

– Villeggianti precoci! – disse Maurizio alla sorella. – Ma già, niente maraviglia, se ci son già le rose al Castèu.

– Non villeggianti; vivono tutto l’anno a San Giorgio. Non conosci più i proprietarii della Balma? – rispose Albertina, sospirando.

– Povera Balma! – ripigliò il giovane, che aveva colto a volo il sospiro. – Ma non è dunque più dei Matignon della Bourdigue?

– Lo è sempre. E quel signore dei baffi bianchi è il generale, il cadetto della famiglia.

– Come? come? il capitano, quello? così smilzo allora, e così biondo, che lo chiamavano l’Arcangelo Gabriele?

– Lo hai lasciato capitano, biondo, smilzo, ed ora è complesso, bianco e generale; – rispose Albertina, ridendo. – Pensa, caro mio, che son passati venti anni.

– È vero; – conchiuse Maurizio, chinando la testa. – Il capitano della Bourdigue, nizzardo, che aveva optato nel ’61 per la Francia. E come è passato ora a vivere di qua dal confine?

– Il fratello maggiore è morto cinque anni fa. Rimasto unico dei Matignon, ha preso il suo ritiro, ed è venuto a vivere alla Balma.

– E quella signora è sua figlia?

– No, sua moglie.

– Come? ma se ha l’aria di una ragazza! O figlia, o nipote, avrei detto.

– Ed è sua nipote, infatti.

– Ah, ora ci sono; – gridò Maurizio. – La figlia del signor Camillo… il miscredente. —

Il volto della contessa Albertina si rabbruscò, a quella scappata del fratello Maurizio.

– Perchè miscredente? – diss’ella con accento di mite rimprovero.

– Lo dicevano, allora, ed io ripeto quel che ho sentito. —

Avrebbe voluto soggiungere: lo diceva perfino nostro padre. Ma capì di aver abbastanza amareggiato l’animo della sua dolce sorella, senza bisogno di metterlo ancora in angustia colla testimonianza del babbo.

– Sarà stato uno scherzo; – diss’ella ripigliando. – Del resto, tu sai che il mondo s’inganna facilmente a certe apparenze, per discorsi male intesi e peggio riferiti. Comunque sia, il meglio che si possa fare…

– È di non credere alla miscredenza; – interruppe Maurizio, compiendo a suo modo la frase impacciata di sua sorella Albertina. – Hai ragione, sai? nel caso particolare e nel caso generale, hai ragione. È bene di non ripetere certe cose, neanche a sè stesso. Ed ecco, – soggiunse egli, – che cosa vuol dire andar via da casa, per ritornarci dopo vent’anni, con tanto viatico d’esperienza. Io ho lasciata qua la mia buona filosofia, che mi sarebbe stata tanto utile laggiù. Per fortuna, la ritrovo ora, messa ad interessi composti, sotto il tetto paterno.

– Eh via, non ti far così brutto, ora; – disse di rimando Albertina. – Ti ho veduto poc’anzi in chiesa, e non mi sei parso niente diverso da quello di venti anni fa. Eri serio, composto… e divoto.

– Ma sì, come bisogna essere in chiesa. O non ci si va, o ci si sta come si deve. Dopo tutto, non è la casa del nostro superiore? del grande ammiraglio, di quello, io voglio dire, che non commette ingiustizie? —