Kostenlos

Tra cielo e terra: Romanzo

Text
0
Kritiken
iOSAndroidWindows Phone
Wohin soll der Link zur App geschickt werden?
Schließen Sie dieses Fenster erst, wenn Sie den Code auf Ihrem Mobilgerät eingegeben haben
Erneut versuchenLink gesendet

Auf Wunsch des Urheberrechtsinhabers steht dieses Buch nicht als Datei zum Download zur Verfügung.

Sie können es jedoch in unseren mobilen Anwendungen (auch ohne Verbindung zum Internet) und online auf der LitRes-Website lesen.

Als gelesen kennzeichnen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Il guaio era che parlando così avevano tutti ragione. Ed egli, anche gradito da tutti, trattato con quella deferenza di cui lo faceva degno il suo grado e la sua educazione, con quella cortesia cerimoniosa che era dovuta alla sua qualità di straniero, si sentiva a disagio, era sempre sulle spine. Vedeva ogni giorno Gisella, ma troppo diviso da lei, anche essendo vicino, e soffriva. Non già del brutto male, intendiamoci; perchè Maurizio conosceva la divina creatura, ne sentiva il pensiero costantemente fido, ne vedeva lampeggiar l’occhio azzurro sparso di faville d’oro, quando faceva un giro largo per giungere a lui e dargli il suo istante di felicità. Ma quanta bellezza ammirata, respirata, assorbita da troppi! ma quanta musica di parole sparsa a consolazione di troppi! Gisella era una regina, dovunque apparisse; amabile ad un modo con ogni età, con ogni grado, passava in mezzo a quella gloria di filetti d’oro e di rosso garance, come una bella dea serena e sorridente, maestosa e leggera, appagando tutti senza fermarsi a nessuno. Così debbono esser lieti i fiori di un giardino, quando passa aleggiando sulle aiuole una splendida farfalla, sempre in alto e sempre in moto, avendo l’aria di posarsi su tutti i calici, dischiusi a lei, odoranti per lei.

Qualche volta, passando accanto al signor di Vaussana, la divina creatura gli gittava una di quella frasi sommesse e brevi, ma calde di passione, che avevano virtù di rianimarlo, di esaltarlo, di fargli toccare i termini della beatitudine.

– Ah, il nostro San Giorgio! Ancora pochi giorni, Rizio! Questo carnevale, che morte! Sorridi, via, grande bambino, che hai così dolce il sorriso! T’intendo, sai? è così tarda a giungere, la nostra buona quaresima! —

Capitolo XV.
Padre Anselmo da Carsoli

La quaresima ricondusse i nostri viaggiatori a San Giorgio. Il piccolo paese alpino era tutto in fermento per una di quelle novità che sogliono commuovere perfino i grandi, tra il carnevale e la pasqua. Senza esserne stato avvertito dalle trombe della fama, San Giorgio possedeva per quel periodo di penitenze, di digiuni e di esercizi spirituali, un quaresimalista insigne, un predicatore coi fiocchi. Come mai un tant’uomo si fosse persuaso di andare a pescare anime tra quei monti, in verità non si poteva immaginare; certamente bisognava conchiudere che per una volta tanto l’arciprete don Martino avesse avuto una grazia speciale dai suoi santi protettori. Fin dalla prima predica il nuovo quaresimalista, del quale, a vederlo, non si sarebbe dato un baiocco, aveva sbalordito il suo uditorio; alla seconda lo aveva incantato. E già si parlava di lui in tutte le case, come di una gran maraviglia; se ne discorreva in farmacia, se ne ragionava al casino di lettura; in ogni luogo, perfino nelle osterie, si facevano confronti fra lui e i predicatori degli anni passati; chi aveva viaggiato e sentito altri famosi oratori del pergamo, non dubitava d’asserire che quello era uomo da batterli tutti.

Non vecchio nè giovane, con poca barba biondiccia venata di peli bianchi, più macilento che magro, alto della persona ma curvo, quasi piegato in due quando attraversava la grande navata della chiesa per recarsi dalla sagrestia al suo pulpito, appariva tutt’altro quando si affacciava di lassù, alta la fronte, sfavillanti gli occhi, diritto il corpo come una spada. Era cappuccino; si chiamava padre Anselmo da Carsoli. Modesta figura di asceta, vestiva umilmente una tonaca spelacchiata, su cui non mancavano le toppe, larghe, lunghe, fatte più vistose dal colore più carico del panno, con le quali il vecchio abito si andava via via rinnovando a pezzi e bocconi. Camminando in istrada, così curvo delle spalle e sempre a capo basso, non guardava mai nè di qua nè di là, non vedeva nessuno, tranne i bambini, quando gliene passavano daccanto, dandogli una curiosa sbirciata di sotto in su. Ma anche senza vedere la gente, il cappuccino ne indovinava il saluto, e lo ricambiava con un gesto di benedizione, breve breve, come d’uomo che avesse fretta. Coi bambini, per altro, si fermava sempre un poco, due o tre minuti secondi, il tempo di aggiungere alla benedizione una carezza paterna, accompagnata da una crollatina di testa; come se in quel punto e a quella vista il pover uomo volesse cacciar dalla mente un doloroso ricordo.

Il giorno dopo la sua tornata in paese, Gisella aveva voluto andare al Castèu, per salutare Albertina. Accompagnata in quell’uffizio di cortesia dal generale, aveva incontrato sulla piazza il signor di Vaussana, che usciva allora allora dalla posta, con le sue lettere e i suoi giornali tra le mani. Era una piccola fortuna, di quelle che i piccoli paesi offrono più facilmente alle persone che si amano, e Maurizio l’aveva afferrata al volo, accompagnandosi ai signori Matignon: del resto, non si doveva egli far cammino insieme? Così, muovendo dalla piazza al Castèu, avevano veduto innanzi a loro il cappuccino, che, uscito allora dalla canonica, rasentava il muro per andare verso una viottola campestre, dietro la chiesa parrocchiale. Gisella riconobbe all’abito il predicatore, di cui quella stessa mattina le avevano già fatto un gran discorrere alla Balma tutte le sue persone di servizio. Andando ella innanzi ai due cavalieri, per la ristrettezza della strada, e passando lesta accanto al cappuccino, la bella signora non aveva creduto di potersi dispensare da un piccolo cenno di saluto, che andasse in pari tempo alla veste religiosa, all’età rispettabile e all’ingegno acclamato dell’uomo. Quell’altro aveva risposto con la sua benedizione frettolosa, chinando la testa anche più dell’usato; e pochi passi più in là, trovata la svolta del sentiero campestre, aveva scantonato prontamente, senza voltarsi neanche con la coda dell’occhio a guardare.

– Vedete che sudicioni! – disse il generale a Maurizio. – Neanche un paio di calze!

– È la regola, generale.

– Sarà; ma non è la decenza.

– Ettore! – mormorò la contessa, volgendo al marito un’occhiata di rimprovero.

– Ebbene, che cosa ho detto che non sia il vero? – replicò il generale. – Se non portano calze, non vadano almeno in ciabatte!

– Umiltà; – disse ancora timidamente Maurizio.

– Ah sì, parlatemi dell’umiltà dei frati! – gridò il conte Ettore. – Une bonne blague, celle-là!

Il cappuccino venne ancora in ballo, quando furono al Castèu, nel salotto della contessa Albertina. La signorina di Vaussana aveva già sentito due prediche, e n’era rimasta profondamente commossa. Era una donna intelligente, leggeva molto, pensava molto; il suo giudizio era dunque di gran peso. Il generale, del resto, essendo uomo di mondo, si arrese facilmente, e si tenne in corpo le celie che il tema gli chiamava alle labbra. Non fiatò neppure quando sua moglie dichiarò di voler seguire quel corso di prediche, contentandosi di promettere a sè stesso ch’egli non l’avrebbe imitata, e per quel primo giorno, in cui il capriccio religioso della sua metà lo coglieva fuori di casa, non sarebbe neanche rimasto sulla piazza della chiesa per aspettar le signore all’uscita.

Le signore, frattanto, seguitavano ad occuparsi del frate. Gisella raccontava di averlo veduto passare, mentre ella saliva verso il Castèu; ed Albertina soggiungeva qualche notizia intorno alle passeggiate di lui. Tutte le mattine, un’ora prima di salire al pulpito, se ne andava soletto per quel sentiero campestre dietro il coro della chiesa parrocchiale; s’inerpicava per la balza vicina, con la sveltezza di un giovinetto, e giunto lassù, dove il dorso granitico della montagna faceva un rialzo in forma di rozza colonna, si riposava una buona mezz’ora, contemplando, meditando, forse preparandosi nella preghiera alla predica della giornata.

– Vedetelo appunto lassù; – diceva Albertina, conducendo Gisella nel vano della finestra e indicando la montagna di contro. – Quel masso che sorge assottigliandosi come una cuspide di tempio gotico, si chiama la Pietra Aguzza. È là sotto, il padre Anselmo, seduto in contemplazione. Ecco, si muove; si è alzato; si dispone a scendere. Sarà ora anche per noi di andarcene in chiesa. —

Gisella sentì quel giorno il predicatore, e s’invogliò più che mai di ascoltarlo ancora. Erano veramente prediche maravigliose, quelle del padre Anselmo da Carsoli. Niente di politica spicciola, di quella che si vorrebbe gabellare per politica grande: niente pei diritti temporali del Papa, e niente contro la miscredenza del secolo: a farla breve, nessuno dei luoghi comuni, esercizi retorici e pistolotti della poco sacra eloquenza dei sacri oratori del giorno. Ragionava di Dio con una forma insolita, non strana, semplice, chiara, elevata, degna di lui, in quella misura che può esser degno di lui il povero linguaggio della creatura umana. Toccava spesso e volentieri della virtù che onora l’uomo accostandolo al cielo, ed aveva impeti di passione, accenti nuovi e profondi che penetravano al cuore. Parlava caldo, serrato, incalzante, a fiotti su fiotti, come il mare, quando cresce a tempesta; qualche volta avendone perfino impaccio alla lingua, che durava fatica a sprigionare la frase. Ma la frase, quando finalmente usciva formata, acquistava da quell’impedimento momentaneo una singolare efficacia, come acqua corrente che costretta in angusto passo gorgoglia, spumeggia, rimbalza, uscendo più limpida, più rumorosa, più viva. Si soffriva un istante con lui, sentendolo oppresso dalla irruenza del pensiero e della parola; ma quel soffrire volgeva tosto ad un senso di piacevole stupore, vedendogli prendere la rincorsa a quel modo. E pareva allora che per tenergli dietro dovesse mancare il tempo a pensare: ma si pensava pur sempre, anche senza averne coscienza, perchè tutte le sue parole, così rinvigorite dallo sforzo, restavano impresse, e tutti gli argomenti in quelle parole serrati andavano a fondo.

Oramai non si parlava più che di lui, a San Giorgio. Da quarant’anni, dicevano i vecchi, non si era sentito lassù un oratore di quella forza. Ed ancora, non potevano i vecchi ingannarsi, esagerando naturalmente i ricordi della loro gioventù? Evidentemente, un oratore di quella forza non doveva esserci stato mai, nè quaranta, nè cent’anni prima d’allora; altrimenti se ne sarebbe conservata un po’ meglio la fama, ne avrebbero parlato le istorie. E l’eco dell’entusiasmo di San Giorgio si ripercuoteva ogni giorno alla Balma, con gran noia del signor generale.

 

– E così, – diceva egli alla contessa, vedendola ritornare sul mezzogiorno a casa, – lo avete sentito, il grand’uomo?

– Ma sì, – rispondeva ella, – ed è veramente grande; lo riconoscono tutti, a San Giorgio, anche i liberi pensatori.

– Ah! – sclamò il generale, inarcando le ciglia. – Ci sono dunque dei liberi pensatori, a San Giorgio? E che pensano?

– Quel che vi ho detto, per lo meno; – disse Gisella. – Fin là ci saranno potuti arrivare.

– Mi fate venir voglia di sentirlo; – conchiuse egli, ghignando.

E saputo che alle prediche di padre Anselmo assisteva anche il medico condotto, che passava per una testa forte, per una specie di Cabanis ridotto alle proporzioni mandamentali, andò la mattina seguente anche lui a vedere l’ottava maraviglia. Non si avventurò nella grande navata, per altro; si fermò poco lontano da un uscio laterale, nascosto dietro un pilastro.

Padre Anselmo, quel giorno, aveva predicato sulla scienza, sulla vera scienza che eleva lo spirito fortificandolo, che conduce a Dio, come la fede, come la speranza, come la carità. Quella era forse la trattazione più moderna ch’egli avesse fatta fin allora a San Giorgio. Ordinariamente il frate parlava di virtù, di pietà, dei doveri del cristiano, della dolcezza che si prova nel seguire la legge. Quel giorno, elevato il tono, parve anche più forte del solito. Ma non così la pensava il suo novo ascoltatore, che torse le labbra, annoiato. – Se questo è il pezzo più forte, – pensava, egli nel ritornarsene alla Balma, – gran debolezza vuol essere il restante. —

La sera, in conversazione, si parlò del predicatore; e il signor di Vaussana domandò al generale che opinione se ne fosse formata.

– Non me ne parlate; – rispose egli, facendo una spallucciata delle solite. – È uno sciocco. Parole, parole, parole! E neanche armato come dovrebbe, per sostenere la sua tesi spallata! Non sa citare che autori di cinquant’anni fa. Lo avete sentito? Gli è parso di far molto, combattendo il Lamarck. Ben altri sono oggi gli atleti con cui dovrebbe provarsi. Vincere il Lamarck, bella forza! E poi, che vittoria è la sua? Nessuno gli risponde, ed egli resta padrone del campo. Sapete che cosa mi fa ricordare? Quel predicatore che argomentava contro il protestantesimo. —

Qui il signor generale ingrossava la voce, per rifare il discorso del personaggio aneddotico allora allora evocato:

– «Venite voi Lutero, voi Calvino e voi Melantone; venite davanti al mio tribunale di giustizia ad esporre le vostre perverse dottrine. E che?.. non venite?.. Dunque avete torto. Ed ecco o signori, vittoriosamente combattute le dottrine degli empi. Non osano presentarsi, arrossiscono, tremano, si nascondono. Ma contro il sole della verità non valgono ripari; quel sole li cerca, li scova, dovunque si nascondano, li abbaglia, li accieca». —

E rideva, il signor generale, rideva comodamente per tre. Gisella taceva; Maurizio si provò a dire qualche cosa.

– Certo, questa maniera di combattere la scienza moderna pare insufficiente anche a me. Ma il nostro cappuccino, ne converrete, è più forte di così. Infine, gli evoluzionisti moderni non hanno fatto che ripigliare l’ipotesi del Lamarck: combattendo lui, si combattono gli altri. E poi, lasciamo stare la tesi scientifica: bisogna sentire il quaresimalista ogni giorno. È spesso elevatissimo. Qualche volta mi pare che pigli ad imprestito dai grandi maestri: dal Bossuet, per esempio, e dal Massillon; ma bisogna riconoscere che ci mette anche del suo.

– Sarà il brutto, allora.

– Non sempre, generale, non sempre. Ci ha il tenero, di suo, ci ha il semplice, che va all’anima. Vi confesserò che non è un’aquila; l’aspetto sarebbe piuttosto d’un barbagianni; – soggiunse Maurizio, temperando la sua lode con una celia, che doveva rabbonirgli il suo interlocutore; – ma gli possiamo render giustizia dicendo che è un predicatore dei buoni; e se non giustifica l’entusiasmo dei miei concittadini, certamente lo spiega.

Questo giudizio mezzo e mezzo poteva contentare il generale; ma non era fatto per piacere a Gisella.

– Perchè lo trovi brutto? come fai a trovarlo brutto? – diss’ella a Maurizio, appena ebbe modo di restar sola un istante con lui. – Sai che in certi momenti è bello, anzi bellissimo? Sicuro, di una bellezza morale che gli si diffonde dall’anima; – soggiunse la cara donna, notando un senso di pena che contraeva in quel punto le labbra di Rizio. – Quando egli si scalda nel suo ragionamento, non hai osservato come gli scintillano gli occhi? come una vampata di sangue gli corre per le guance scarne, facendole parere di rosa? Si direbbe che in quel momento Dio scende in lui e lo trasfigura. E vuoi credere? Quando egli si commuove più fortemente, e la voce gli trema, e le lagrime gli brillano sulle palpebre, io mi volto verso l’altar maggiore e guardo il crocifisso, aspettandomi sempre di vedergli schiodare una mano e stendere il braccio per benedire quell’uomo, che lo esalta con tanto fervore, facendolo intender così bene alle turbe.

– Via! via! – disse Maurizio.

– E così, proprio così; – riprese Gisella. – E non mi hai detto tu un giorno che un brutto professore, quando parla bene, animandosi un poco, diventa bello per il suo uditorio? —

Maurizio incominciava a pensare di aver detto troppe cose. E scritte, poi! sopra tutto le scritte gli pesavano sull’anima.

– Un po’ di misura, bella mia, un po’ di misura! – le bisbigliò con accento di esortazione paterna, vedendola più che mai infervorata nella sua passione religiosa.

– Misura! misura! – replicava Gisella. – Si è tanto felici di credere! E si avrà dunque da credere per metà? Come potete voi raccomandare una cosa simile? —

Cinque o sei giorni dopo, il quaresimalista aveva fatto una predica sulle mogli; con una grazia, povero frate, con una delicatezza, che non si sarebbe potuta aspettare da lui. L’abito suo, veramente, lo doveva far credere più pratico d’altro santuario che non fosse quello, abbastanza turbato, della famiglia moderna. Enunciato il suo tema, aveva fatto un’esposizione sommaria del dovere, secondo la condizione sociale. Il dovere, questa obbedienza alla legge, si mostrava, così agevole nella semplicità della sua dipintura, che non s’intendeva più come mai si potesse venirci meno. Di quella obbligazione morale il predicatore aveva indicato l’adempimento nell’esercizio di tutte le virtù: e le virtù, così dure a praticarsi, apparivano belle e facili, perchè governate e promosse da un senso di rispetto a noi medesimi, che è rispetto alla creatura di Dio, a questo vas electionis della sua grazia. Vaso d’elezione non era stato solamente l’Apostolo. Quello era l’esempio, nella famiglia cristiana; ognuno poteva seguirlo, ognuno accostarvisi. Bella cosa esser puri davanti alla legge umana, non sospettabili nella presenza del mondo; bellissima esser puri davanti a noi medesimi, essendo la coscienza il buon giudice umano che precorre ed annunzia il gran giudice eterno. In quella guisa che al finire del giorno l’uomo è tanto più contento di sè quanto più sente di aver lavorato, così nella grande giornata dell’esistenza niente vale la contentezza interiore dell’avere operato il bene; e niente, dov’essa manchi, può tenerne le veci. Rispettarsi, sentirsi degno di questo rispetto, è benefizio singolare per tutti, singolarissimo per la donna, a cui spesso non basta il pentirsi, quando abbia fallito, perchè essa nella pubblica estimazione cade sempre più in basso dell’uomo. Triste cosa è questa, che i nostri costumi hanno portata, di non poter riacquistare la grazia degli uomini, avendo pur riacquistata la grazia di Dio; ma c’è compenso ancora, nella iniquità del giudizio, e un privilegio maraviglioso corrisponde al danno. L’uomo virtuoso, l’uomo che osserva la legge, si riconosce onesto; della donna virtuosa, insospettata e insospettabile, si dice comunemente: è una santa.

Qui con ardito trapasso veniva a dipingere le ansietà, i terrori, i rimorsi che accompagnano la colpa. Quante corde vibravano a quelli strappi di una mano maestra! No, la colpa, no, mai; è brutta, la colpa, è malsana; porta con sè, per primo guaio, il dover arrossire davanti al mondo, e peggio, davanti a sè medesimi. Per la donna colpevole, prostrata nella polvere di contro ai suoi lapidatori, Iddio ha detto: «chiunque di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Quella pietra, gli uomini non possono scagliarla più; gli uomini non debbono punir quella donna, degni di punizione essi medesimi; gli uomini non debbono disprezzarla, di tante colpe macchiati, mentre uno spirito puro la compiange. Ma ella è pur sempre a terra, ed egli solo può rialzarla. Finchè egli non abbia detto: «va, non peccar più», non isperi di sollevare la fronte. Da lui rialzata, redenta da lui, si consoli: ma pensi che la turba, se non lapida più, giudica ancora; la turba è sempre là, astiosa ed arcigna, nel fondo della scena, e i farisei ne governano l’animo, i farisei, stirpe non morta ancora, che solo ha mutato di nome. E chieda a Dio di soffrire, di soffrir sempre, per espiare il suo fallo; ringrazî il cielo di una sofferenza, che quanto è più grande e più lunga, tanto più vale a deterger le colpe. Nè chieda di soffrir meno la donna che visse casta e virtuosa; pensi che la coscienza della propria impeccabilità può facilmente tramutarsi in orgoglio. Noi spesso non cerchiamo di vedere; ma Dio vede e sa quanto sia di peccato in noi, che per soverchio di sicurezza non facciamo buona guardia alle anime nostre. Certo, è soffrire orrendo, per una donna, e può parerle intollerabile, l’obbedienza di tutti i giorni, di tutte le ore; ma è prova solenne, argomento di purificazione continua, quel suo viver legata ad un uomo il più delle volte ruvido, vano, capriccioso, volgare, che non intende e non sa quanto ella valga, ma che qualche volta può essere mutato, migliorato, trasformato da lei. Che vittoria, allora, e come fa lieto il sofferto martirio! E poi, che è ciò che aspettiamo noi dal dovere compiuto? Se la vita è battaglia, sian terse le spade; nè vi paia fatica di farle brillare. Più splende quella che è più fine di tempra, e della fatica durata è gran conforto la gloria. Esser pure è già un premio; farvi belle dell’anima a Dio, è conveniente lusinga. Anche un poeta pagano lo ha detto: «piacciono i casti pensieri lassù; con casto animo vieni, con pure mani attingi alla fonte». Sentite la bellezza della virtù, che consola; e non orgoglio vi dia, ma nobile alterezza; e vi veneri il mondo, non potendovi mordere; e l’ossequio suo non sia minore di quello dei vostri figliuoli, a cui giovano le esortazioni, ma più ancora gli esempi.

Come aveva sofferto Maurizio, quel giorno! Gli pareva che ad ogni istante il frate dovesse uscire dalla tesi generale, figurare dei casi, proferire dei nomi; che ad ogni istante dovesse dare in qualche sfuriata, da offendere, da turbare, da commuovere troppo visibilmente qualche povera ascoltatrice. Ma no, niente; quel diavolo d’un sant’uomo non era mai stato tanto riguardoso come allora; non aveva neanche usata la volgarità di chiamar le cose coi loro brutti nomi, che è vizio dei quaresimalisti, anche valenti. La sua orazione era tutta misura e grazia, grazia e misura, e senza aver fatta la menoma concessione al gusto mondano. Anche l’argomento del rispetto di sè, che poteva essere derivato da un concetto pagano della virtù, come diventava cristiano nella necessità di fare della creatura un tempio, un altare, un vaso degno di Dio, e di educare non pure onestamente ma ancora candidamente la prole! «Non offendete colla impurità della lingua l’orecchio innocente del bambino; bella massima; – diceva il frate, – ma quasi inutile esortazione in una famiglia civile. Qual è infatti quella madre così sciocca o malvagia, che non abbia in mente e non osservi il precetto? Ma è necessario altresì che del fanciullo non si offenda la vista con la scena di un viver domestico poco lodevole, brutta scena che spesso è commedia corruttrice, e qualche volta si muta in orribil tragedia. E poi, che giova nascondere molto e con ogni cura al fanciullo, se egli, passando sua madre per via, vede a lei rivolto insieme col saluto il sogghigno, e dietro a lei ode gittata la parola di spregio? Ah, meglio allora, mille volte meglio non aver bambini! Ma pensate allora, pensate essere ancora una grazia la sterilità, per la misera donna che ha dimenticata la legge divina, la legge umana e sè stessa».

 

Neanche qui il frate foggiava casi particolari; non usciva neppur qui dalla tesi generale. Ma era pericolosa, la tesi; e Maurizio fremeva, pensando esser là tra gli ascoltanti qualche misera donna, la quale, ritornando a casa, non avrebbe trovato bambini ad attendere la sua carezza materna. Fremeva, mentre tutti gli ascoltanti pendevano dalle labbra del monaco, e gli pareva che ogni sguardo momentaneamente sviato di quella moltitudine attenta, girando per caso dalla parte sua, fosse diretto a lui, proprio a lui, come una interrogazione, come un rimprovero. Intollerabile supplizio! E non osò, per tutto il tempo che durò quella predica, volger neanche la faccia da un certo lato della chiesa. Poi, a mala pena ebbe fine il supplizio, scappò fuori senza guardarsi dattorno, tagliò la piazza per la linea più breve, andando verso il Castèu, senza aspettare la solita occasione di salutare Gisella, che usciva sempre in compagnia di Albertina.

Quella sera, non bene rinfrancato, ma desideroso di non far novità, si avviò alla Balma. Trovò il generale solo nel vestibolo, occupato a dare una scorsa ai giornali.

– Ma sapete, – gli gridò questi ex abrupto, levandosi gli occhiali e deponendo sulla tavola il foglio che aveva tra mani, – ma sapete che il vostro predicatore è un fiero campione!

– C’eravate? – disse Maurizio, rabbrividendo.

– No; per sentirlo m’è bastata una volta. Ma quasi quasi mi riconcilio con lui. Ha parlato del dovere in un modo che mi va. Queste vi parranno contradizioni; – soggiunse il generale, ridendo. – Ma anche senza andarsi ad affumicare là dentro, si può sapere che cosa c’è stato detto. Gisella mi ha recitata tutta la predica. A sentirla, si sarebbe creduto che la sapesse a memoria. —

Com’era andata? Al signor di Vaussana parve quella una follìa, una grande follìa. Ed era certamente tale, e la contessa, commettendola, aveva obbedito ad uno di quegli impulsi ciechi, contro i quali non è forza di volontà, nè lume di ragione che tenga. Scossa, turbata al pari di lui, se non forse di più, Gisella aveva ritrovato a mala pena quel tanto di forza che l’aiutasse a ritornare a casa, con aspetto di persona tranquilla. Per altro, a mezzo il viale dei tigli, aveva dovuto sedersi, non potendone più. Come le era venuto fatto di trascinarsi fin là? Il suo cuore batteva, batteva con una violenza da far temere che volesse ad ogni tratto spezzarsi; tanto che gliene veniva un senso di dolciume smaccato e nauseabondo alla gola. In uno sforzo supremo era riuscita a padroneggiarsi. Aveva pensato che fosse quella una crisi per l’anima sua; se felice poi o disgraziata, non voleva cercare. Dio lo vuole, aveva gridato a sè stessa, come i primi crociati di Cristo; e una gran forza era succeduta a quel momento d’angoscia indicibile. Alzatasi di scatto dal sedile di pietra, aveva fatto in pochi minuti il restante della salita, trovando sulla spianata del cancello il marito che passeggiava aspettandola; e davanti a lui aveva voluto fare la brava. Egli stesso la metteva al punto, chiedendogli col suo piglio beffardo quali altre scioccherie avesse spacciate quel giorno il grand’uomo. Scioccherie? C’era ben altro; un trattato di alta morale; ne giudicasse lui, che rideva. E lì, l’uno dopo l’altro, aveva snocciolati tutti gli argomenti, provando un gusto aspro, mettendo una cura ostinata, feroce, un vero accanimento, a tormentarsi l’anima riferendo tutto il discorso, perfino con le stesse parole del frate. Il generale aveva continuato a ridere per due o tre minuti; effetto di mare lungo, che non ha avuto ancor tempo di quetarsi; poi si era fatto serio, a grado a grado prestando maggiore attenzione; e si vedeva che gli argomenti gli andavano, e non meno le frasi ond’erano rivestiti, perchè li accompagnava con cenni del capo e con ringhî in cadenza. Egli doveva egualmente ammirare la relatrice, trovando ch’ella possedeva un bel tesoro di memoria, un tesoro del quale egli non si era mai avveduto. E neppure lei sapeva come ciò le accadesse. Le parole del frate le erano certamente caduta sul cervello, come gocce di piombo liquefatto, facendovi impronta e presa ad un tempo.

Ma quello sforzo l’aveva anche esaurita. A pranzo niente le andava; si era contentata di assaggiare; e finito il pranzo aveva trovato un pretesto per ritirarsi nelle sue camere, non aspettando Maurizio alla solita ora delle visite serali. Cosa da nulla, diceva il generale al signor di Vaussana, poi che questi ebbe domandato della contessa, e manifestato il suo vivo rammarico di saperla indisposta.

– I soliti incomoducci, che fanno comodo così grande alle signore donne; – soggiungeva il generale; – nervi, fumi, vapori, isterismi ed altri cataclismi da ridere. Del resto, un po’ di riposo le farà bene. Quel prodigio di mnemonica, a buon conto, non sarà mica stato senza consumo di materia cerebrale. Siamo macchine, mio caro. —

Così ragionava; ed era contento di sè, il castellano della Balma. In fin de’ conti, quella poteva contarsi come una buona giornata per l’autorità del marito, se anche gli era stata procacciata da una sequela di ribellioni all’autorità del filosofo. Buona giornata, davvero, e ne prometteva delle altre. Lo sentiva egli, questo? si dava ragione della sua contentezza? Forse no, anzi, diciamo pure senza il forse, ed ammettiamo che in lui operasse una specie d’istinto. Del resto, egli poteva esser contento di aver sentito parlare come piaceva a lui. Per una volta tanto quei blagueurs di preti erano buoni a qualche cosa.

Quella sera Maurizio fece una mezza dozzina di partite a carambolo, perdendole tutte, e la testa per giunta. Ma un vincitore a carambolo, facendo le sue lunghe serie di colpi, non ha tempo nè modo di guardare dove il suo avversario abbia la testa. Così la sera passò, triste conclusione di una triste giornata. Le giornate, poi, si seguono e non si rassomigliano. La mattina seguente capitò Gisella al Castèu. Veniva in apparenza a prender l’amica, per andare con lei alla predica. Nel fatto, voleva combinare in casa il signor di Vaussana, per domandargli un libro in imprestito; un esemplare del nuovo Testamento, niente di meno. Desiderava di leggere l’evangelio di san Giovanni e le epistole di san Paolo; due autori che il quaresimalista citava spesso e volentieri. Nella libreria della Balma il nuovo Testamento non c’era, e per una buona ragione: per la stessa ragione non c’era neanche il vecchio. Ma oramai non sarebbe più stato così: Maurizio offriva l’uno e l’altro, non già come imprestito, ma come presente, come omaggio alla contessa Gisella. Regalava la traduzione del Martini, approvata da Roma: quanto a lui, possedeva la versione latina di san Geronimo, ed anche in un altro esemplare la versione italiana del Diodati, non approvata, ma ad ogni incontro, ad ogni bisogno, egualmente opportuna. L’ortodossìa di Maurizio non badava a certe piccolezze.

Gisella tremò, vedendolo comparire in salotto, e una fiamma le corse alle guance. Ma subito si ricompose, e gli espresse il suo desiderio, avendone quell’esito che fu dianzi accennato. D’altro non fu possibile parlare, essendo presente Albertina.

– Ed ora vi sentite meglio, non è vero? – si restrinse a domandarle Maurizio.

– Sì, molto meglio, – rispose Gisella. – Non è stato che un male passeggero… qui; – soggiunse ella, indicando il cuore.

– Con quei colori? – gridò egli, inarcando le ciglia, e dissimulando nell’atto di maraviglia un vivo senso di pena.