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Santa Cecilia

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IX

Volgo! Volgo! Tu non sarai dunque mai altro che volgo? Ci saranno sempre uomini il cui uffizio sulla terra sia quello di obbedir ciecamente, stolidamente, quando abbiano il giogo sul collo e ingombri loro lo spirito il terrore, o di far tremare altrui, quando il sentirsi slegati, con la coscienza della loro forza soverchiante e la impunità del mal fare, li faccia uscire in bestiali ruggiti? La cupidigia dell'oro che compra la stupida ebbrezza, la livida e scarna invidia di tutto quanto risplende per bontà, bellezza o potenza, il lercio compiacimento di tutte le più basse manifestazioni dell'istinto, saranno dunque per sempre il loro retaggio?

Oh volgo! il mio cuore si stringe al considerare le opere tue, e mi coglie un senso di amara pietà per la tua miseria, non per il male che cagioni altrui. A me non duol tanto del fiore che giace avvizzito sotto la striscia di bava segnata dal passaggio di un rettile, quanto del rettile istesso, a cui natura non ha dato di potersi comportare diverso.

Ma dove diamine vado io mai? Scusate, o signori; sono vecchio, e la mia testa indebolita vagella. Dove ero rimasto? Ah, ecco, mi ricordo. I soldati avevano paura e non ardivano levare il capo a guardarmi. Ma li guardavo ben io, stando innanzi a loro, con la fronte alta e le braccia conserte sul petto.

Uno di loro finalmente si fece innanzi, tutto dubitoso e con umile atteggiamento mi disse:

– Tu sei il nostro centurione. Comanda pure a noi, tuoi soldati e tuoi servi.

– Sì, sì! – gridarono tutti ad una voce. – Tu sei forte! tu sei magnanimo! —

E così dicendo, vennero con molto strepito e scompiglio a postrarmisi intorno, i più vicini abbracciandomi le ginocchia, o tendendo le palme. Io durai molta fatica a svincolarmi da quelle strette.

– Basta! basta, vi dico. Andate là; conducete via i prigioni. I vostri diportamenti mi mostreranno se meritate perdono. E tu, – dissi al primo che aveva parlato, – aiutami a rialzar questa donna. Come ti chiami?

– Manete; – rispose egli.

– Manete, – soggiunsi allora, – se tu avessi dette un'ora prima quelle parole, tu avresti serbato alla terra la più bella delle sue creature. —

Il soldato chinò la testa con aria impacciata, e mi si fece accanto per aiutarmi nel pietoso ufficio. Gli altri intanto s'erano sparpagliati lungo le buie arcate, per condurre all'aperto i prigioni.

Guardai allora la misera trafitta. Lo sdegno mi era uscito dal cuore e le forze m'erano venute meno del pari. Povera Cecilia! Ella era distesa al suolo e pareva che pudicamente dormisse, colle membra in bell'atto composte. Aveva pallido pallido il volto; la ferita le tingeva di una larga macchia le bianche vesti. Corsi a metterle una mano sul cuore. Dio immortale! il gelo della morte non si sentiva per anco; il cuore batteva.

Manete, pensando di farmi cosa grata, si provò a sollevarle dolcemente il capo e ravviarle i capegli.

– No, no! – gridai. – Vanne da' piedi, tu; io solleverò questo capo. Ecco; una mano là! Secondami a tempo e senza scuoterla troppo. Così va bene. E tu, manigoldo, che stai guardandoci allibbito, piglia una face e va innanzi. —

Il soldato a cui volsi queste ultime parole, sebbene tutto pesto e insanguinato (era egli uno dei primi che avevano ricevuto i miei colpi), obbedì sollecitamente. Di questa guisa, andando innanzi con passo misurato, rifacemmo la strada per l'andito e risalimmo i trenta scalini della botola. Il bel corpo che io tenevo nelle braccia, era tiepido; l'alito sommesso della donna mi veniva a morire sulle guance.

Non fiatai nè a Manete, nè ad altri, di questa scoperta che mi faceva palpitare tra l'ansia e la speranza. Deposi Cecilia sul letto della vedova, che era andata a nascondersi in un angolo, restando là più morta che viva, e mandai i prigionieri, accompagnati dalla coorte, alle carceri Mamertine.

Manete stava ritto sull'uscio, aspettando i miei comandi; ed io, risovvenutomi di Trebazio e di Almaco, presi una rapida deliberazione.

– La notte è a mezzo il suo corso; – dissi a Manete. – Tu andrai domattina da Almaco; gli dirai ch'io ti mando, e che mi precedi di pochi istanti; che l'impresa fu condotta a dovere; che Trebazio fu ucciso da me, per atto di grave disobbedienza. Gliene dorrà per fermo ed acerbamente; ma tu soggiungerai prontamente che Valeriano è morto per le mie mani. Questa novella son certo lo consolerà della perdita di un vil servitore. Va dunque; sei libero fino a domattina. —

Manete non si mosse.

– Che vuoi ancora? parla!

– Ho a dirti di quel vecchio della tunica bianca, che è tra i prigioni. Sai tu, centurione, chi egli sia? I cristiani, improvvidamente si lasciarono sfuggire il nome di lui. È Urbano, il loro pontefice…

– E che importa a me? Quando sarai dal prefetto gli dirai anche di questa preda. Vattene! —

Manete partì, ed io, pigliati questi provvedimenti, mi volsi alla giacente, e, trovata una guastada piena d'acqua, mi posi a lavarne la piaga, sciogliendo i grumi del sangue che stava rappreso sulle vesti.

La sensazione del freddo le fece ricuperare i sensi perduti; ella mise un sospiro e le palpebre si mossero un poco. Trepidante m'inginocchiai, aspettando con ansia affannosa il momento che ella mi avesse riconosciuto. Ma Cecilia, riavutasi appena, senza vedermi ancora con gli occhi, già mi aveva sentito al suo fianco, e voltando lievamente il capo, con fioca voce disse il mio nome.

– Calisto!

– Oh! Cecilia! Tu dunque vivi? – esclamai, alzandomi da quella postura per guardarla nel viso.

– Sì, vivo ancora per renderti grazie. Ma sono presso a morire, sai! Il tuo ferro pietoso ha colpito diritto.

– Oh no, Cecilia; tu non morrai. Tu devi vivere…

– Perchè? – disse ella con un dolce sorriso di malinconia, e fissando su me i languidi occhi. – Sentimi! Ho a dirti alcune cose. Dio mi concederà di parlare… Quando ti conobbi, la mia fede era già data a Dio uno, onnipotente, e a lui mi ero legata con un sacro voto. Urbano, il buon pontefice, mi aperse gli occhi alla fede di Cristo. Egli stesso consentì le mie nozze con Valeriano, perchè questi era cristiano al pari di me, e, sapendo del mio voto, aveva giurato di rispettarlo. —

A me, udendo quelle parole della morente, parve di uscire da un sogno doloroso. Le tenebre si diradavano dalla mia mente scombuiata; ma la verità era più triste ancora, poichè Cecilia era in fine di vita.

– Valeriano, – proseguì ella, – fu per me solamente un fratello. Ed io fui felice con lui, poichè piacquero le nozze ai miei parenti, ignari com'essi erano della sua fede e della mia, ed avemmo agio di dedicar liberamente gli animi nostri alla causa santissima.

– Oh Cecilia! oh donna divina! ed io ho potuto…

– Non ti dolere, o Calisto. Tu hai errato; ma il pentimento cancella ogni colpa. Tutto ciò che è avvenuto, sia per meglio. Dio è uno ed onnipossente; adoriamolo!.. —

Ciò detto, ella rimase assorta in una muta preghiera. Io m'inginocchiai da capo, e fu quella la prima invocazione ch'io facessi al Dio ignoto, invisibile, di Cecilia; nè più schietta mai, nè più fervida io penso che ne salisse mai alle stelle.

Mentre io così pregavo, la mano di Cecilia si mosse e venne a cercar le mie che erano posate sul letto.

– Addio dunque, o Calisto! – ella disse. – Credi tu nel mio Dio, nel vero nell'unico Iddio, il quale ha fatto gli uomini buoni e tutti uguali?

– Credo! – risposi, col cuore e gli occhi gonfi di lagrime.

– Grazie, mio Dio, – soggiunse Cecilia. – Tu hai consentito che innanzi di morire io richiamassi un uomo alla verità… alla luce… —

Le sue pupille mandarono un raggio di esultanza celeste. La camera si illuminò tutta quanta. Io sentii la mano di Cecilia stringer la mia, poi ricadere inerte sul letto. La divina creatura era morta.

Morta!

X

Qui il povero suonatore si fermò, e rimase coi pugni stretti, appuntati contro la tavola, ansante e lo sguardo fiso.

Noi già da buona pezza, tutti intenti ad ascoltare il suo bizzarro e mesto racconto, avevamo buttato via il sigaro, quasi per tema che i buffi di fumo ci distogliessero dalla nostra attenzione. Era egli un pazzo? Sì, certamente; ma, seguendo il filo della sua narrazione fantastica, ci eravamo per così dire immedesimati con lui, come egli coi tempi e le cose di cui ragionava.

Che uomo è costui, pensavamo (e gli occhi nostri, mutamente interrogandosi a vicenda, chiarivano la formazione di un medesimo pensiero in noi tutti), che uomo è costui, il quale, nella sua pazzia immaginosa, ha saputo andare tanto diritto? C'è del vero in quello che egli racconta? E, vero o falso, come mai s'ha da trovare tanta digestione di anticaglia, tanta disposizione ordinata di fatti e tanta facilità di sciorinarli con un certo qual garbo alla sua colta udienza, in un gramo suonatore di piazza, del quale, a vederlo, non avreste dato tre soldi?

Quando egli adunque si fermò, noi cinque rimanemmo duri duri a guardarci, e la conclusione delle nostre interrogazioni fu questa, che non avevamo raccapezzato nulla in quel suo geroglifico, mezzo storico e mezzo romanzesco.

Che ci hai da far tu, pensavo io, che ci hai da far tu, gramo personaggio di questi bassi tempi, con la vita, già molto apocrifa per sè stessa e da te raffazzonata per giunta, di santa Cecilia, vergine e martire, che i suonatori cristiani (anco se suonino da turchi) hanno pigliata a loro santa tutelare, in luogo della vecchia Calliope?

Il lettore ha già pensato, con quella avvedutezza che non manca mai al lettore, che io non potevo lasciar correre la faccenda a quel modo, e che, postomi sott'occhi un indovinello di quella fatta, non mi sarei mosso, innanzi di cavarne un costrutto.

E il lettore non s'inganna; io volli appunto il resto del carlino.

– Morta! – soggiunsi; – e poi?

 

– E poi… – ripetè egli, senza muovere il capo, – e poi, più nulla.

– Io vi chiedo, maestro, che cosa avete fatto voi da quell'ora, da quel giorno, anzi da quella notte fino al dì d'oggi. —

Era, come si vede, un metterlo tra l'uscio e il muro. Ma sentite come egli mi rispondesse.

– Io? Che cosa? Non so… non mi rammento… C'è molto buio qua dentro, molto buio… —

E così dicendo egli accennava la testa; poi, come se gli fosse sovvenuto di qualche cosa, chinò gli occhi sulla tovaglia e si diede a scorrer con le dita sull'orlo della tavola, come sulla tastiera di un cembalo, canticchiando tra i denti una bizzarra melodia.

– Che cosa suonate? – gli domandai allora.

– Suono il suo inno. Sapete? la Chiesa le ne ha intitolati moltissimi, e di gran pregio; ma questo li supera tutti quanti a gran pezza. Io suono sempre questo, e quando lo suono, odo gli applausi di una moltitudine estatica, che dalla terra si stende su fino al cielo per una scala invisibile. Soltanto Cecilia vedono i miei occhi, soltanto Cecilia, che viene a posare le candide mani sul mio capo, a tergerne il sudore, e a rallegrar di un sorriso angelico le mie veglie sconsolate. —

Dette queste cose, il suonatore ricadde nel suo silenzio, nè ci fu modo di smuoverlo.

Erano già le undici di sera. Il tempo era trascorso rapidamente e senza che noi ce ne fossimo pure avveduti, tanta era la nostra attenzione al suo maraviglioso racconto. Tiberino fu il primo a notarlo, come il solo di noi cinque, il quale in que' tempi avesse tenuto fede al suo orologio.

– Claudite iam rivos, pueri, sat prata biberunt; – diss'egli, dopo che ci ebbe fatte considerar per bene le lancette.

– O come? – chiese Battista, tornando a contarsi i peli sulle guance, in segno di grande incertezza. – Ce ne andremo così senza saperne altro?

– Cavane di più, se ti vien fatto; – rispose l'altro. – Quella è una botte a cui s'è spillato tutto il suo vino, e tu vorresti suggere il cocchiume.

– Aspettate! – diss'io. – Anche a suggere un cocchiume di botte, ci s'ha da sentir qualche cosa; non foss'altro, il sapore del vino, che ha tenuto racchiuso.

– Provati dunque, – ripigliò Tiberino, – e spicciati. —

Spicciati! Era presto detto, ed io non avevo ancora in testa un disegno formato. Intanto gli altri s'erano volti a me, come se io già avessi trovate le parole magiche di Alì Baba, per aprir la spelonca dei ladri.

Feci allora come que' tali improvvisatori, che incominciano un sonetto senza aver preparata la chiusa, fidandosi alla ispirazione che verrà loro da questa o da quell'altra delle rime obbligate, e ripigliai l'interrogatorio del pover'uomo.

– Vi chiamate voi proprio Calisto?

– Ne dubitate? – rispose egli, alzando gli occhi a me con aria di maraviglia.

– Sì, ne dubito, e non ve ne incresca. Io non crederò mai che voi siate degno della protezione della santa, se non mi fate vedere il vostro passaporto, od altra carta che faccia testimonianza della vostra persona.

– Eccovela, questa carta! – soggiunse il suonatore. – È appunto il mio passaporto. – E così dicendo trasse dal seno un sudicio libretto colle copertine di marocchino, tutte corrose dal tempo, dal sudore e dallo strofinio delle mani.

Presi il libretto, e spiegata la carta che v'era accomodata per entro, lessi, alla data di cinque anni prima, le note seguenti: «Calisto Caselli, di anni quarantatre, nato a Dego, suonatore ambulante.» Venivano poi i contrassegni, con tutti i loro bravi idem, e il solito svolazzo di penna sotto la rubrica dei segni particolari.

– Si chiama infatti Calisto; – dissi io, guardando i compagni, che mi si erano fatti attorno per leggere anch'essi.

– Calisto, infatti, e Calisto Caselli! – soggiunse Tito. – E adesso ne sappiamo come prima.

– Adagio! – risposi. – Sappiamo dove è nato, come si chiama, e vi par poco? Faremo le nostre indagini…

– Bravo! – interruppe Tiberino. – Per sapere che c'era, che poi se ne era andato a buscarsi il pane, e che è divenuto pazzo, se pure non lo era di già.

– Vedremo. Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa.

– Amen! – risposero tutti in coro, come per darmi la baia.

Tra amici queste erano cose permesse, ed io non me ne recai più che tanto. Uscimmo allora dall'osteria, e il signor Calisto Caselli con noi.

Il pover'uomo sembrava non ricordarsi più di nulla, ed era tornato opaco come una lucciola, dopo che ha messo fuori il suo raggio fosforescente. Egli ci seguitava come se fossimo i suoi più vecchi amici, e si andasse di brigata a zonzo per la città.

Noi lo conducemmo a casa di Tito e di Battista, i quali tenevano insieme un piccolo quartierino di quattro stanze in via Giulia. Gli demmo una giubba, un paio di calzoni, una camicia e qualche altro capo di vestiario; ci mettemmo a tributo, per dargli qualche lira oltre lo scudo di Tiberino; e così rimpannucciato lo mandammo con Dio.

Il povero pazzo non sapeva a che cosa attribuire tanta liberalità, e si sbracciava in ringraziamenti.

– Andate pure, maestro, – gli dissi io; – voi non ci siete debitore di nulla. Io caverò un costrutto dal vostro racconto, un giorno o l'altro, e Dio voglia che lo paghino a me gli editori, come era giusto che lo pagassimo a voi. —

XI

Ero dunque rimasto, per mia elezione, depositario del racconto e incaricato di darne la conclusione. Ma qui stava il guaio.

Per qualche giorno me ne dimenticai, e agli amici, i quali mi chiedevano se avessi scritto al sindaco di Dego, usavo rispondere che sì, e non era vero; cosa che del resto è sempre stata nelle mie consuetudini.

La natura, creando me, mi diede, insieme con la famosa sentenza inflitta a tutti gli uomini, da Adamo in poi, questo comandamento: «Tu non scriverai lettere.» E cotesto sappiano intanto gli amici miei, i quali, mentre io sto buttando giù queste pagine, aspettano forse che io tenga vivo il carteggio.

Io non diventerò mai un grand'uomo; e ci corre! Ma se, per una sciagura, che Dio tenga lontana, tutti i miei compaesani diventassero ciechi ed io fossi uno dei pochi che ci vedessero ancora da un occhio, se lo sappia il signor Felice Le Monnier in anticipazione, io non lascerò dieci pagine di mio, da potersene fare uno zinzino di epistolario.

Ora torno nel seminato. Gli amici per un pezzo seguitarono ogni giorno a chiedermi: hai tu scritto a quel sindaco? E tanto me ne chiesero, e tanto, che un giorno scrissi davvero, per domandar contezza del nostro suonatore ambulante. Ma il segretario comunale di Dego doveva essere un grand'uomo della mia risma, perchè non rispose mai.

Finalmente vennero gli esami, che ci costrinsero a lasciare l'università del Gran Corso, per tornare nel grembo della fede, vo' dire alla università di via Balbi; e dopo gli esami, dai quali ce la cavammo tutti e cinque con lode, vi prego a crederlo, vennero le vacanze. Gli amici, sciame di passere allegre che hanno condotta a bene la loro nidiata, si sparpagliarono per le campagne vicine e lontane, e non si parlò più di nulla.

Io dimenticai per tal modo il suonatore, santa Cecilia, e perfino il Martirologio.

Ma che volete? C'è un fato anche per i racconti non finiti. Iddio non paga il sabato; e il mio giorno aveva pur da venire.

Tre anni dopo… Vi prego, o lettori, di saltar tre anni a piè pari: cosa che io spero non vi tornerà disagevole quanto a me è tornato il viverli, giorno per giorno, ora per ora, noia per noia. Tre anni appena! Se io potessi saltarne a questo modo un centinaio, e non aver nemmeno il fastidio di morire, vi so dir io che sarei più felice di un re a cui nasca un principe ereditario, e, nella breve misura delle mie forze, concederei larghezze di molte. Argomentate da questa! Farei grazia a voi altri della continuazione di questa novella.

Tre anni dopo, io me ne ero andato a far la vita campagnuola a Millesimo, bella terra delle Langhe, antica come i Del Carretto che ne erano i feudatari, con case merlate e portici di sesto acuto, con le rovine di un castello sulla Bormida, e un ponte con la torre nel mezzo, la saracinesca e le feritoie per comodo dei balestrieri; ornata infine di un giudice di mandamento, di un parroco, di un sindaco e di una stazione di cinque carabinieri a piedi e di cinque a cavallo.

Ero laggiù per darmi bel tempo, per ragioni di salute, e per altri negozi che non occorre vi stia a dir qui. Me la godevo come un principe, e giuocavo tutti i giorni a tarocchi con le primarie autorità del paese. Lo avere tenuto a battesimo un bambino, recitando il credo da cima a fondo senza incespicare, mi aveva fruttato l'amicizia del parroco, uomo che stava del resto assai volentieri sul gotto, ragionando di archeologia, di cronologia e di tante altre scienze inutili del pari, le quali mi fanno parer meno amara questa valle di lagrime.

Anche il maresciallo dei carabinieri era amicissimo mio; come quegli che pizzicava di latino e ne aveva un centinaio, tra aforismi e proverbi, da citare od ogni tratto, nella sacra lingua del Lazio.

Era un bell'originale, quel maresciallo, che teneva in caserma una scansìa tutta piena di vecchi libri. Il parroco disputava con me sullo ius coxandi, o su certi altri privilegi feudali, e il maresciallo era giudice tra noi. Il parroco citava Strabone, o Plinio, e il maresciallo trovava il modo di ficcar dentro Tolomeo, e la Tavola Peutingeriana.

In una di queste conversazioni gli avvenne di dirne una sublime, la quale io voglio pur riferire, innanzi di proseguire il racconto. Il parroco parlava con molta ammirazione di Tito Livio.

– Oh Tito Livio! – interruppe il maresciallo. – Gran libro, quel Tito Livio! Io, vedano le signorie loro, quando vado a letto, non posso pigliar sonno senza leggerne prima due pagine.

Io fui ad un pelo di rispondergli che una pagina sola avrebbe dovuto bastare; ma tenni la lingua fra i denti. Era egli la prima autorità politica del paese, ed io, da buon cortigiano, dovevo tenermi la celia in corpo.

Del resto, una buona pasta d'uomo, quel maresciallo, e ardito come un leone, quando si trattasse del suo ufficio; uno di quei carabinieri del vecchio stampo, il quale sapeva conciliare la dignità e i doveri del servizio con una urbanità senza pari ed una certa larghezza di modi nelle faccende di minor conto. Era instancabile e quasi feroce nel dar la caccia ai malandrini; ma non ricusava di trincare col primo venuto, nè dimenticava di dare un pizzicotto sulle guance delle Veneri rusticane, che si affacciavano sull'uscio dei casolari per dargli il buon dì. Tutti lo conoscevano e tutti lo rispettavano; il perchè nelle risse campestri, nei tumulti di una fiera, bastava la vista del suo pennacchio rosso e cilestro a rimetter la calma, come il quos ego di Nettuno tra i venti scatenati.

Che Iddio ti benedica, o buon maresciallo, e il ministro della guerra ti conceda un avanzamento, come io te l'auguro dal profondo del cuore.

Il parroco era anch'egli un brav'uomo. Sapendo come io mi sia dato a scrivere su pei diari e non me la intenda troppo bene con santa madre Chiesa, egli non penserà forse lo stesso di me, e m'avrà in conto di un libertino, di un eretico e peggio. Ma io voglio essere generoso coi parroci, e segnatamente con lui, il quale, levato dal capitolo pericoloso delle credenze religiose, era assai tollerante rispetto a tutte le umane miserie, e non dava molestia a nessuno. Il suo forte poi, come ho già detto, era l'archeologia. Era versato in tutte le antichità di quei paesi, più assai di tutti i notai e speziali della provincia, e la sapeva più lunga di cento donnicciuole, intorno ai fatti accaduti nei dintorni, dal cominciar del secolo in poi.

Chi me lo avrebbe mai detto? La provvidenza dovea mandarmi a trovar colaggiù il continuatore del mio racconto, sotto le spoglie di un parroco. Imperocchè, voi già l'avete indovinata, o lettori, questo parroco, del quale mi sono industriato a darvi il ritratto, era proprio l'uomo che faceva al caso mio. Ed eccovi in breve di quali spedienti la provvidenza sullodata si servì per mettermi sulle orme di Calisto Caselli, l'amante sventurato di santa Cecilia.

Si parlava un giorno familiarmente della vita grama e senza speranza dei poveri parroci. Io proponevo, ghignando, a don Luigi, di andarsene a Roma, dove il suo ingegno lo avrebbe fatto conoscere, e diventar cardinale. Da cardinale a papa non c'era che un salto, e don Luigi avrebbe potuto pigliare il nome di Pietro II, annunziando ai popoli l'alleanza del papato con la libertà.

– Impossibile! – mi rispose don Luigi, senza addarsi della gran verità che diceva, rispetto alla sullodata alleanza. – Io so bene che voi amate celiare. Ci vuol altro per andare a Roma che un povero prete di Dego.

 

– Bravo! E Sisto IV non era egli di Albissola, di Albissola, celebre per due papi, e molte migliaia di pentole? Ma scusate, don Luigi, se salto di palo in frasca. Voi avete parlato di Dego.

– Sì; è il paese dove son nato.

– Ma proprio a Dego?

– Proprio, arciproprio! – soggiunse il parroco. – E che ci trovate di strano?

– Eh, mio Dio, nulla. Ma gli è che appunto in questo paese era nato un tale… di cui mi sarebbe caro aver notizia, Calisto Caselli. Lo conoscete voi, questo nome?

– Calisto Caselli! – ripetè don Luigi, grattandosi la cuticagna. – Aspettate; non dite altro. Calisto Caselli! Oh perchè questo benedetto nome non mi riesce nuovo?

– Oh bella! perchè il Caselli è nato a Dego come voi.

– Sì, sì, – ripigliò il parroco. – Caselli! Caselli! Ah ecco… ci sono. I Caselli non erano veramente del paese, ma di una terra vicina. Ecco perchè sulle prime non me ne ero ben ricordato. —

Don Luigi era molto geloso della sua fama di antiquario e di tenace ricordatore delle memorie paesane. Però egli non poteva neppure ammettere che io lo aiutassi, e non voleva riconoscere di non essersi rammentato a prima giunta. I lettori, del resto, vedranno che don Luigi non aveva il torto, perchè la sua memoria, risvegliata che fosse, avea del miracoloso.

– I Caselli, – proseguì egli allora, – erano una buona famiglia e molto ricca per lo passato. Ma si parla, intendiamoci, di forse trent'anni fa.

– Ci siamo appunto; trent'anni fa. Il mio protagonista ne avrà adesso cinquantuno.

E qui, per dar ragione all'appellativo, raccontai per filo e per segno la storia del suonatore. Don Luigi stette ad ascoltarla tutto silenzioso, nè senza lagrime di compassione.

– Pover'uomo; – disse egli, mettendosi le mani nel capo, com'io ebbi finito. – Io l'ho conosciuto, quel disgraziato. Ero appunto ritornato a casa con gli ordini minori, quando avvenne il triste caso.

– Il triste caso! Ci fu un triste caso? Don Luigi, raccontatemi tutto, per carità non mi fate morir d'impazienza.

– Era un bel giovanotto; – proseguì a dire il mio interlocutore; – e che ingegno! Dio buono, che ingegno! Le nostre Langhe non ne daranno così di leggeri un simigliante. —

Le lodi di don Luigi non erano mica per tutti. Lo avevo udito parlare con molto riserbo di parecchi, i quali ne avevano pure, dello ingegno: e, salvo un ottimo amico mio, nato là presso, al quale tuttavia non sapeva perdonare certi grilli liberaleschi, egli non mi aveva mai detto di alcuno tanto bene in così poche parole. Perciò non è a dire se il povero Calisto mi diventasse un gigante. Egli non mi pareva più così strano, che un gramo suonatore ambulante parlasse con tanta scioltezza elegante e vestisse di tanta erudizione le sue fantasticherie.

– Oh, don Luigi! don Luigi! – dissi io. – Che fortuna per me! Voi dunque mi raccontate questa benedetta storia, che io vo cercando da tre anni?

– Sì, ve la racconterò… domani.

– Oh perchè domani?

– Perchè ho bisogno di raccapezzarmi. Tutti i particolari di quel caso malinconico mi girano confusi per il capo; nè saprei ordinarli così ad un tratto. Venite domani a sera, e, in cambio di giuocare a tarocchi, vi racconterò la storia. —

Uscii da don Luigi con la promessa in corpo, e imbattutomi per via col maresciallo, gli annunziai che dovesse venire anche lui a sentir questa storia, che lo avrebbe fatto restare a bocca aperta.

– Conticuere omnes… – mi disse il maresciallo.

– Intentique ora tenebunt; – soggiunsi io, facendomi lecita quella piccola variante al verso virgiliano.

Alla dimane fummo puntuali al ritrovo; il maresciallo accese la sua Dulcinea (così egli chiamava una pipa di schiuma che lo accompagnava dovunque); io il sigaro, e don Luigi incominciò il suo racconto.

Io gongolavo dalla gioia. Tornare a Genova, pensavo, col racconto finito; poterlo mandare alle stampe e spedirlo ai quattro amici dispersi sulla faccia della terra…

Ma zitti; stiamo ad udire don Luigi.