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Lutezia

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XIV

Una scivolata nell'estetica. – L'apparato scenico. – In Aquisgrana. – Un pensiero a Gustavo Modena. – Istituzione che va copiata. – Sara Bernhardt. – Ricordi fotografici. – La trinità poetica del secolo XIX.

Lodare o criticare l'Hernani come opera d'arte, dopo quarantott'anni di vita e di fama universale, mi parrebbe opera vana, salvo nel caso di uno studio particolare espressamente fatto, o di un corso d'estetica drammatica. Io non me la sento di dettare il corso, nè di fare lo studio; inoltre, comincia ad entrarmi addosso la paura di tornar molesto ai lettori, con certe fermate troppo frequenti ai santuari dell'arte. E di queste non vorrei aver biasimo, poichè esse, nell'animo mio, rappresentano tutta l'utilità, poca o molta che sia, dell'epistolario parigino a cui vi ho condannati.

Alle corte, perchè si viaggia, se non per vedere e studiare? E perchè si scrive di viaggi, se non per dar conto alle genti di ciò che s'è veduto e studiato? Qui sono troppe cose, non che da studiare intimamente, da vedere correndo. Ma poichè di talune ho avuto a dir corna, e forse mi rimarrà dell'altro da criticare, mi si lasci il gusto di osservare più lungamente ciò che merita lode. Parigi è un mondo (le Guide lo fanno dire, se non erro, a Carlo Quinto); e appunto come il mondo, ci ha il suo bello e il suo brutto, le sue paludi e i suoi poggi. Questa volta mi trovo sulla vetta d'un colle; lasciatemi star sulla vetta; se no, ricasco, sapete dove? nelle Folies Bergères.

Dunque, torniamo a bomba, poichè bomba va. Sono stato al Teatro Francese, ho assistito alla centième de Hernani e ne parlo come di uno spettacolo che mi ha fatto un gran senso. Non ho da difendere l'orditura del dramma, nè da palliare certe imperfezioni, nè da attenuare i bei difetti della gioventù dell'autore. Sento nello Hernani il caldo della passione, ci vedo la grandezza del fare cavalleresco, proprio del paese e del tempo in cui è collocata l'azione, insieme con quella varietà di carattere che è tutta propria del Cinquecento, un secolo che ebbe i più ardenti innamorati, i più sottili politici, i più feroci odiatori del mondo. Le linee della composizione saranno forse un po' caricate; ma non bisogna dimenticare che una certa esagerazione di forme è anche necessaria alle statue, e in genere a tutti i monumenti che non vanno considerati da vicino. È onesta licenza in arte di ingrandire quelle parti che debbono colpire di più, dar carattere al tutto. Anche qui, è quistione di misura; ma, se applichiamo queste norme allo Hernani, troveremo che l'autore non ha abusato della licenza. Il suo dramma è tutto umano, anche con le proporzioni del colosso; i suoi personaggi hanno in sè tutta la varietà e l'impasto di virtù e di debolezza, che sono proprii dell'anima umana. Non domandate loro una troppo stretta osservanza del «sibi constet» di Orazio. Ecco tre uomini, in diverse condizioni, mossi da un medesimo sentimento, intorno a Donna Sol. Perchè non ammetterete tra loro la differenza, e dentro di loro la disuguaglianza, che è portata necessariamente dalle loro condizioni rispettive? Sono tutti uomini innamorati, ma internamente combattuti, Ernani dalle sue collere di bandito, Ruy Gomez de Silva dalla sua alterezza di castellano, Carlo V dai suoi sopraccapi di re e dalle sue ambizioni di imperatore in fieri.

Mi accorgo di scivolare nell'estetica, e fo punto. Il dramma di Vittor Hugo è posto in scena, al Teatro Francese, con uno sfarzo, che da noi s'usa a mala pena nei balli. Conosco degli umori malinconici, a cui questo apparato scenico dispiace nei drammi, come quello che svia l'attenzione dell'uditorio e nuoce alla piena comprensione dell'opera. Costoro, senza avvedersene, vanno dietro a qualche critico, che fu da principio autore drammatico e non ebbe pur troppo i cosidetti lenocinii del palcoscenico a salvarlo da una brutta figura. Per me, tengo un'opinione diversa; non intendo perchè un autore si debba stillare il cervello a rappresentare il vero meglio che può, se non ha poi da farlo ammirare sulla scena, come lo ha veduto lui nella mente. Si aggiunga che, dove il poeta abbia immaginato un gran quadro, le magnificenze del suo pensiero sembreranno ampollosità e muoveranno alle risa, quando non siano degnamente accompagnate dai loro accessorii. Immaginate Carlo V nel sotterraneo della cattedrale di Aquisgrana, presso la tomba di Carlo Magno; fate che il cannone abbia tratti i due colpi che annunziano al re di Spagna il suo innalzamento alla dignità imperiale; e poi fate entrare, se vi dà l'animo, due re meschinamente vestiti, con mezza dozzina di straccioni alle costole, che vengano ad ossequiare il nuovo monarca. Si riderà, a quella vista; quanto più saranno elevati i discorsi, più omeriche saranno le risate del pubblico.

Al Teatro Francese, nella famosa scena del sotterraneo d'Aquisgrana, entrano due re, vestiti da re ed accompagnati da re, coi loro trombettieri, araldi, vessilliferi, paggi, cavalieri e soldati; una comitiva degna dell'annunzio che porta e dell'uomo che lo riceve. Del vestiario dei principali artisti si potrebbe parlare a lungo, senza lodarlo abbastanza. C'è Carlo V, tra gli altri, che par lui, proprio lui, spiccato da un quadro del Tiziano; meglio ancora, uscito pur dianzi dalle mani del sarto di S. M. Cattolica.

Perchè ho citato Carlo V, incomincerò dall'artista che ne sostiene la parte. Il Worms è un attore intelligente e coscienzioso, pieno di severa eleganza nel portamento e nel gesto. Notevole la impertinenza altezzosa del giovine re nell'appartamento di Donna Sol, la sua freddezza orgogliosa nell'incontro notturno con Ernani, la sua fierezza prepotente nella sala di ricevimento del castello dei Silva, il passaggio del suo carattere ad una gravità solenne, quasi ad una grandezza imperatoria, presso la tomba di Carlo Magno. Ho detto quasi, e pensatamente. Perchè Worms non ha esagerata la figura di Carlo V; gli ha fatta compiere una grande azione, ma come doveva compierla lui, con una buona dose di calcolo; e la sua esecuzione è stata il migliore commento di quel carattere, come l'aveva pensato, ma non potuto confessare, il poeta.

Così intendo l'artista; e il Worms, che lo è in modo così pieno, mi è piaciuto da capo a fondo, perfino in quelle sue inflessioni di voce, così aristocraticamente beffarde, con cui egli certo ha inteso di compiere il suo personaggio. C'è un punto (del terz'atto, mi pare) in cui egli deve dire a Ruy Gomez: adieu, duc! Bisogna sentire come glielo dice; quanto lievito di malumore in quel suo accento strascicato, che lo porta a pronunziare la frase come se fosse scritta in quest'altra forma: adieue… deuc!

Del Mounet-Sully, che fa la parte d'Ernani, mi dicono che sia questo il suo caval di battaglia; e lo credo facilmente. È giovane, di membra vigorose, che non escludono l'eleganza; ha larghi e bei lineamenti, neri gli occhi ed aperti, la chioma folta come una giubba leonina. Tutto impeti nel gesto e nella voce, ora gorgoglia, come un torrente tra i sassi (e allora non ne capite più una sillaba) ora si allarga, ma per poco, in un fiume sonoro. Capisco che questa di Ernani, parte concitata e quasi febbrile, da attaccarsi alla brava, come si attaccherebbe un ridotto nemico, sia fatta, meglio di qualunque altra, per lui, e che i suoi medesimi difetti possano dargli impronta di maggior verità, in quella giovanile scompostezza di nobile insalvatichito, che è il carattere di Don Giovanni d'Aragona.

I confronti tra questo primo attore e parecchi dei nostri italiani, tornerebbero forse a suo danno. Lascio Gustavo Modena, quel divino artista, che fece tutto bene, entrando, per dir così, nella pelle de' suoi personaggi; contenuto a forza nel Cittadino di Gand, arcigno nel Filippo, crudele e bigotto nel Luigi XI, terribile nel Sampiero, epico nel Saul, e sempre e da per tutto quel che voleva essere, non una linea di meno, o di più. All'altezza del Modena non era mai giunto, e forse non giungerà più nessuno. Ma il paragone non sarà possibile neanche coi due grandi scolari del Modena, voglio dire col Rossi e col Salvini, troppo nutriti dal midollo del leone, troppo pieni degli esempi e dei precetti di un tanto maestro. Per altro, si contenti la Francia del suo primo attore, di colui che dovrà succedere nella fama al Lemaître e al Bocage; nel Mounet-Sully c'è stoffa di grande artista; ho notato in lui certi slanci e certe violenze, che nessuno ha più (almeno, così naturali) in Italia. Verrà giorno che la Francia otterrà il primato anche nell'arte di Roscio, se nessun giovane da noi si mostrerà degno di prendere il posto dei pochi valenti che abbiamo, segnatamente pel dramma. Anche per questo rispetto, un periodo di decadenza incomincia in Italia. I nostri giovani artisti, il dramma lo recitano bene ancora, ma non lo sentono più.

Quello che piace in modo singolare al Teatro Francese è l'ottimo complesso di tanti attori, avvezzi a recitare insieme, quali il gran dramma e la tragedia, quali la commedia antica e moderna. Si nota in essi un accordo, un impasto, una fusione, un'arte di chiaro-scuri, che fa pensare alle orchestre meglio affiatate d'Italia. Peccato non avere anche noi, a Roma, qualche cosa che somigli alla istituzione del Teatro Francese! Eppure, sarà necessario pensarci, chi non voglia credere e far credere che la coltura d'un paese stia tutta nel freddo e dimenticabile insegnamento scolastico.

Ho lasciato ultimi due artisti, ma non mi rimarranno tuttavia nella penna. Uno è il Maubant, che si fa ammirare per recitazione corretta nella parte di Ruy Gomez de Silva, ma forse non è intieramente a posto. Ha del padre nobile, anzi che del tiranno; è grasso, per giunta, e, quantunque improntato di nobiltà negli atti e nell'accento, riesce leggermente stonato, sotto le spoglie di quel bilioso castellano, a cui l'amore, come un vino generoso in una cattiva botte (passatemi il paragone volgare), si è inacetito nel cuore. Per contro, Sarah Bernhardt… Ma qui ci vorrebbe un inno, un peana, un carme secolare; ed io, quando pure mi sentissi da tanto, temerei sempre di parervi esagerato. Attrici più attrici di lei, cioè a dire più esperte nei grandi effetti della scena, nelle smorzature e nei rinforzamenti della voce, o del gesto ne hanno su per giù tutte le nazioni d'Europa; ma un'artista più intimamente vera, più schiettamente donna di lei, non credo che esista. Perfino i suoi silenzi sono meravigliosi. Ce n'è uno, assai lungo e pericolosissimo, nel primo atto dello Hernani; quando la povera Donna Sol è colta nel suo appartamento, da Ruy Gomez e da un nugolo di servitori, in compagnia di due sconosciuti. Tutti gli occhi sono rivolti su lei; frattanto Ruy Gomez sfodera tutta la sua alterigia castigliana, per fare un'intemerata coi fiocchi. E lei, frattanto? Molte attrici qui sarebbero cadute sotto il mediocre; altre avrebbero affrontato il pericolo e fatto di Donna Sol un'audacissima donna, come ce ne son tante nelle antiche tragedie, che non si trovano impacciate in nessun luogo e non hanno paura di nulla. Sara Bernhardt ha trovato il modo di vergognarsi con nobiltà; di stare alla berlina senza audacia, senza smarrimento di spirito, di saper quel che deve alla presenza di suo zio e del re, senza dimenticare Ernani e il pericolo che egli corre là dentro per lei: tutto ciò con una misura, con una naturalezza stupenda.

 

Sarah Bernhardt è fatta per la scena; smilza della persona e tutta nervi; gli occhi d'una mobilità e d'una profondità non comune; armonica la voce, sebbene non robustissima; gli atteggiamenti, i gesti, i moti tutti della persona, improntati di naturale eleganza. È donna, lo ripeto, in tutta l'estensione artistica della parola. Dove le altre facilmente strafanno, e per poco non appariscono uomini per esuberanza di vita e d'ardore, ella conserva i suoi mirabili istinti femminei. Sono dolente di andarmene da Parigi, senza vederla ed udirla in qualche altra parte del suo repertorio; ma ho la certezza che ella riesca benissimo in tutte. Un nostro italiano, che la Francia ha adottato, il Parodi, è ancora tutto compreso d'ammirazione pel modo in cui l'impareggiabile attrice gli ha interpretato una parte di vecchia cieca (cieca lei Sarah Bernhardt, con quegli occhi!) nella sua Rome Vaincue, dramma potente, che presto avrà dei fratelli, e degni di lui.

Bernheim Jeune, marchand de tableaux et curiositès sul boulevard di Montmartre, vende ritratti fotografici di Sara Bernhardt in tutti gli atteggiamenti e in tutte le foggie. Sono i ritratti più costosi della bottega, e tuttavia gli vanno come il pepe. Non c'è forastiero a Parigi, che, dopo essere stato al Teatro Francese, non voglia portarsi via Sarah Bernhardt, almeno in fotografia. E un ritratto non basta. Del Thiers, del Gambetta, di Emilio Zola, di Ottavio Feuillet e via discorrendo, una copia, e non più; di Sarah Bernhardt quattro, cinque, sei, magari dieci, spendendo una ventina di lire.

Su questi pezzi di cartone la gentile attrice è ritratta in veste di pittore, che dà l'ultima pennellata ad un quadro; o di scultore, che medita, appoggiato col gomito al trespolo che sostiene un busto di donna, a cui manca forse l'ultima mano. Sarah Bernhardt è pittrice e scultrice; non so di qual pregio nell'arte, perchè non ho visto nulla di suo. Con buona licenza della scultrice e della pittrice, preferisco Donna Sol, con la sua veste di broccato, che le sale fino alla radice del collo, disegnando le sue forme snelle, con le braccia abbandonate, le mani intrecciate sulle ginocchia, la testa appoggiata alla spalliera d'un seggiolone gotico, gli occhi mezzo velati dalle ciglia lunghe. Davanti a quella elegante persona si rinnovano in una tutte le sensazioni che la valorosa artista mi ha fatto provare, due settimane fa, alla centième de Hernani.

E penso poi a quel vecchio glorioso, il cui genio ispira artisti così potenti; a quell'altissimo poeta che tutti debbono invidiare alla Francia, perchè, volere o no, è il primo poeta vivente d'Europa, e sarà, col Byron e col Goethe, uno dei tre primi poeti del secolo.

XV

A Versaglia. – Splendori e miserie. —Cherchez la femme.– Camillo Desmoulins e madama di Pompadour. – Gian Giacomo e Diana di Poitiers. – I ritratti e gli originali – Politica d'andata e ritorno. – Il teatro. – Ricordi storici.

Il paziente lettore, che mi ha seguito fin qua, non può certamente nutrire il sospetto che io voglia condurlo attorno per tutti i luoghi memorabili di Parigi. Faccio per la città quel che ho fatto per l'Esposizione universale; tra le cose che ho vedute, noto solamente quelle che possono darmi appiglio a qualche considerazione, non affatto inutile per un lettore italiano. S'intende per un lettore paziente, come il mio, di cui sopra.

Ciò posto, venga il sullodato lettore con me. Dal boulevard des Italiens si svolta nella chaussée d'Antin, dove abita il Gambetta, con la sua République française. In capo alla strada è la piazza, la prateria a forma di scavo e la pagoda della Trinità; ma noi non entreremo in chiesa; svolteremo a sinistra, per andare alla stazione di San Lazzaro, scalo famoso della ferrovia de ceinture, donde ogni giorno, quando c'è aperta l'Assemblea nazionale, partono i treni parlamentari per alla volta di Versaglia. Chi lo avesse mai detto a Luigi XIV!

Andiamo, già lo indovinate, a Versaglia. Si può infatti, dimenticare un visibilio di cose, tra belle e strane, che adornano Parigi e i suoi pressi; ma Versaglia non può lasciarsi da banda. È stata la sede della monarchia, dopo il Louvre e prima delle Tuileries, per un periodo di tre regni, interrotto soltanto da una reggenza, che abitò in Parigi, al palais Royal, e fece le sue miserabili prove nella famosa via Quincampoix. Da Luigi XIV, che ha edificata la reggia di Versaglia a Luigi XVI, che ne è uscito, per andare, di debolezza in debolezza, fino alla piazza della Rivoluzione, Versaglia è stata il teatro di tutti i grandi ricevimenti, di tutte le feste, ed anche di parecchie brutture de' suoi regali padroni. Laggiù la stolta revoca dell'editto di Nantes, per compiacere alla signora di Maintenon e ai gesuiti; laggiù l'infame Parc aux cerfs, una specie di Capri, nascosta tra i faggi e gli ontani, che non ebbe poca parte nella rovina dei Capetingi. Luigi XVI doveva espiare i falli de' suoi antecessori e lasciare la testa su quella medesima piazza, dove si era festeggiato ventitrè anni prima il suo matrimonio con l'Austriaca. Era finita pel fasto di Versaglia, quando le donne del popolo di Parigi andarono in processione tumultuaria fino alla cancellata della Corte di Marmo. Ma, anche prima, i reali di Francia incominciavano a non trovarsi bene in mezzo a quel fasto. Maria Antonietta amava sopra tutto un villino, ascoso nel bosco, il piccolo Trianon, graziosa fabbrica italiana, ad un piano e mezzo, con cinque finestre di facciata, e le cucine mezzo affondate nel suolo. La regina e le sue dame, semplicemente vestite di percallo bianco, passavano le loro giornate in quel luogo, ricamando, giuocando, o fingendosi contadine e adempiendo allegramente gli uffici di quello stato, così bello nei quadri di Boucher e di Watteau. Immaginate che idillio, in riva a quel laghetto, in cui si specchia ancora la celebre casetta svizzera! Vedendo il piccolo Trianon, e pensando alla vita tranquilla di quella regia lattaia, il cui marito fabbricava toppe o scriveva trattati di fabbroferraio, ricorre alla mente il frusto paragone della calma che precede… quel che sapete.

Versaglia non è più una reggia; è da quarant'anni un museo. «A toutes les gloires de la France» ci scrisse su quel povero Luigi Filippo, che le rispettò tutte, le ospitò tutte, anche richiamandole dall'esilio, ma ebbe, a quanto pare, il torto gravissimo di non aggiungerne abbastanza di sue. La guerra d'Africa non doveva servire ad altro che a formare i generali per un'altra dinastia.

Quelle glorie ci son tutte davvero, nel palazzo di Versaglia, rappresentate nel marmo, o sulla tela, da tutti i grandi uomini e da tutte le vittorie della Francia. I monarchi ci hanno i loro ritratti, in una sequela non interrotta, da Clodoveo a Napoleone III; i contestabili, gli ammiragli, i marescialli, i guerrieri famosi, gli uomini di Stato, si mescolano coi poeti, cogli artisti e con le donnine belle. Cherchez la femme. E a Versaglia non occorre nemmeno cercarla; si trova su tutte le pareti. Curiosa, che, frammezzo a tanti ricordi monarchici, facciano capolino anche i repubblicani! Camillo Desmoulins mostra la sua faccia arguta davanti al ritratto della Pompadour; Gian Giacomo Rousseau, fresco ancora di tutta la sua gioventù, dimentica le Charmettes, e madama di Warens e il collega Anet, davanti ad una Diana di Poitiers, che si è fatta ritrarre in abito da bagno antico, quello della sua divina omonima, quando Atteone portò in fronte la pena di aver troppo curiosato tra i rami.

Come sapete, anche la repubblica odierna è rappresentata a Versaglia; ma non da ritratti, poichè ogni giorno ci vanno gli originali. La rivolta della Comune aveva fatto andare laggiù l'Assemblea costituente, al suo ritorno da Bordeaux; un meschino puntiglio ce l'ha fatta rimanere, con grande rammarico di Parigi e con noia anche più grande dei signori deputati. Salvo uno o due ministeri, non c'è ombra di autorità costituita; il governo parlamentare ci arriva in convoglio a mezzodì e ne riparte alle sei. La politica francese si fa con due ore di perdita al giorno, andata e ritorno compresi. Se è vero che il tempo è moneta, questa forma di governo è troppo cara e bisognerà cambiarla. I giornalisti di Parigi, costretti a fare ogni giorno come i rappresentanti della Francia, sperano, o temono, secondo i casi e gli umori, che possa aver fine col Settennato. Ma quando finirà il Settennato? C'è chi ne prevede la morte volontaria dopo le elezioni senatorie, il cui esito dovrà assicurare la repubblica conservatrice e rimandare gli ultimi rurali con Dio. Se ciò si avvera, non passerà molto che il Senato e l'Assemblea voteranno il ritorno puro e semplice; quello al Lussemburgo, questa al Corpo Legislativo.

Pour le quart d'heure, si tira avanti col provvisorio. La Camera dei deputati è allogata in un cortile, raffazzonato alla meglio. La sala è fredda, ma per contro non bella. Belli, ma freddi, i corridoi che mettono all'aula, in mezzo a due file di statue, che sole non hanno bisogno di caloriferi. Neanche i quadri avrebbero bisogno di fumo, specie di quello del sigaro; eppure, la buvette e il fumatolo sono stati impiantati in alcune sale elegantissime, le cui pareti si vedono ancora tappezzate di quadri, alcuni dei quali di gran pregio artistico, e tutti di molta importanza storica.

Meglio alloggiati i senatori, nel grazioso teatro edificato da Luigi XV per la signora di Pompadour, che morì cionondimeno senza vederlo finito. In questo teatro, che s'inaugurò per le nozze di Luigi XVI col Perseo di Lulli, con l'Atalia di Racine, col Tancredi e con la Semiramide di Voltaire, si diede nel 1789 il malaugurato banchetto delle guardie del corpo al reggimento di Fiandra, donde vennero tutti i guai della famiglia reale.

Quella festa, a cui erano stati invitati gli ufficiali della guardia nazionale di Versaglia, aveva un intento riposto, di rinfiammare la devozione degli ufficiali del reggimento di Fiandra, da pochi giorni arrivato colà. Una mensa di trecento posti, in forma di ferro di cavallo, era collocata sul palcoscenico; nell'orchestra erano le musiche dei due corpi; i soldati, che avevano fatto lega, stavano in platea; molti spettatori, senza mestieri di biglietto d'ingresso, erano stati ammessi nei palchi. Alle frutte, il re e la regina, accompagnati dal Delfino e da sua sorella, apparvero dal palco reale, nel punto che l'orchestra suonava l'aria: «O Richard, o mon roi, l'univers t'abandonne». Le accoglienze furono entusiastiche. L'orchestra allora mutò registro, suonò un'aria del Disertore, notissima allora: «Peut-on affliger ce qu'on aime?» Palco scenico e platea andarono in visibilio; parecchi militi della guardia nazionale, spregiando la loro assisa, rivoltarono le coccarde tricolori. La moltitudine, briaca della sua propria allegrezza, ricondusse la famiglia reale ne' suoi appartamenti. L'esaltazione era al colmo; si ballò sotto le finestre del re, gridando tutti gli abbasso analoghi alla circostanza e tutti i morte più furibondi ai nemici del trono.

Ma pur troppo quella scenata (chiamiamola così) doveva avere il suo contraccolpo a Parigi. Si esagerò forse lo scopo del banchetto e la parte attiva che ci aveva presa la regina; le minacce contro l'Assemblea furono raccolte e commentate; la carestia, che in quell'inverno aveva ridotto troppa gente alla fame, non era certamente consigliera di prudenza nè di magnanimità. Il banchetto si era tenuto il 1.° ottobre; la mattina del 6 il popolo, aizzato da' suoi sobillatori, accompagnato dal Lafayette, che voleva moderarlo, prese la via di Versailles, si condusse a furia sotto le mura del castello e penetrò nella Corte di marmo.

 

Maria Antonietta, a cui, ne' gravi momenti, non venne mai meno l'ardire, si presentò alla folla, da un verone del primo piano, accompagnata dal Delfino e da madama Reale. —Non vogliamo bambini!– gridarono mille voci sdegnate; e la regina, sfidando il pericolo che le era chiaramente presagito da quel grido feroce, rimandò i suoi due figli, inoltrandosi da sola verso il popolo, come una vittima consacrata alla morte. Ed era tale davvero. Lafayette, avvicinandosi a lei, poteva proteggerla per allora col lustro della sua fama. Il re, chiamato a sua volta, e accolto col grido: «venga a Parigi» potè rispondere che si sarebbe volentieri commesso, con la moglie e coi figli, alla guardia de' suoi fedelissimi sudditi. Ma quella pace piena di rancore, quella partenza immediata per Parigi, che dava alla moltitudine la misura del poter suo e della obbedienza paurosa del suo re, segnavano la condanna di morte per Luigi Capeto, per l'Austriaca e pel lupicino reale. Perchè lupicino? Forse per dire con una sola parola e per via di contrapposto che i delfini, animali d'acqua salsa, non si ammettevano più.

La carovana partì da Versaglia quel giorno medesimo, 6 ottobre 1789, al tocco dopo il meriggio. Si racconta che, passando per una galleria del palazzo, davanti ad un ritratto di Carlo I d'Inghilterra, Luigi dicesse, quasi divinando il futuro: «Il mio destino sarà come il suo». Da quel giorno il castello di Versaglia rimase disabitato. Ci andarono tratto tratto, in occasione di qualche festa, i sovrani che ebbe ancora la Francia, dopo la sua grande rivoluzione. Luigi Filippo, per esempio, quando ebbe fondato il museo nazionale di Versaglia, lo inaugurò col Misantropo di Molière, due atti di Roberto il Diavolo di Meyerbeer e una commedia di Scribe, rappresentati nel teatro di Luigi XV. Ma il figlio di Filippo Eguaglianza non si trovò bene colà. Troppi ricordi lo molestavano; e tra i ricordi, qualche rimorso… di famiglia. Nel 1848, scacciato anche Luigi Filippo, i membri del Governo provvisorio, ordinarono in quel teatro un concerto; la guardia nazionale, forse per purificarlo dalle memorie di poco civismo della sua antenata del 1789, ci ballò anche lei, ma senza regine di sangue, e per iscopo di beneficenza. Napoleone III ci convitò il 25 luglio del 1855 la regina Vittoria, il principe Alberto e i loro figli, ad una cena sontuosa. Si cenò nel palco reale, diventato, per quella occasione, imperiale. Dopo di che, buio pesto, fino alla prima seduta del Senato, che ci stona abbastanza, forse per amor di contrasto colle armonie di Lulli e di Meyerbeer.

Mi avvedo di essere già dentro a Versaglia, mentre il mio posto era accanto a voi, nella stazione di San Lazzaro. Abbiate pazienza; la fantasia correva innanzi con la rapidità dell'elettrico. Fate conto che sia andata a prepararvi gli alloggi; io torno indietro per ripigliare la strada.