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La montanara

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– Dunque, – diss'ella, rompendo il silenzio, – le piace la mia famiglia?

– Signorina, – rispose Gino, scuotendosi, – tutto ciò che la circonda mi piace.

– Complimenti?

– Io? Non so farne.

– Badi; allora le vengono alle labbra spontaneamente.

– Se lo dice per questa volta, badi anche lei, signorina: non è stato un complimento. Sarei disposto a provarglielo.

– Sentiamo; – disse Fiordispina, senza levar gli occhi dalle sue candide bestiuole.

Il conte Gino incominciò:

– Che cos'è, prima di tutto, quello che la circonda? Le cure dei suoi, del babbo, delle zie, del fratello; non è vero? Ella ora mi permetterà di dirle, e mi crederà quando io le dico che queste amabili persone mi piacciono. Allarghiamo il cerchio intorno a Lei: viene la casa, ed io sarei un ingrato, se non amassi il luogo dove ho ricevuto una così gentile accoglienza, una così schietta e cordiale ospitalità…

– C'è dell'altro? – interruppe Fiordispina.

– Sicuro, perchè la cerchia s'allarga ancora; – rispose Gino. – Intorno a Lei, ai suoi parenti, alla, casa, ci sono le Vaie, c'è questa convalle così verde e così fresca, con le sue belle boscaglie, le sue cascate cristalline, il suo stupendo Cimone che fa la guardia lassù. Signorina, – conchiuse il giovane, – tutto ciò che la circonda è bello; sarà forse un complimento, e non un omaggio reso alla verità, il dire che mi piace? —

Fiordispina rimase un istante sopra di sè, non sapendo che opporre a quella argomentazione serrata. Ma una donna, saprete anche questo, non può restare troppo a lungo senza ragioni con cui schermirsi da un attacco di parole.

– Sì; – diss'ella, dopo quell'istante di pausa; – ma Ella non ha risposto alla mia prima domanda. Le parlavo de' miei conigli; se ne ricorda? Capisco; – soggiunse ella subito, non lasciandogli tempo a rispondere; – questa mia le sarà parsa un'occupazione volgare. Ma l'avverto, signor conte, che non ci sono solamente i conigli. Passeremo poi alle galline, ai colombi…

– Ed anche ai buoi! – gridò Gino, interrompendo a sua volta. – Son belli anch'essi, e i loro occhioni umidi piacquero tanto ai Greci, che essi ne fecero una particolarità della bellezza di Giunone, della regina di tutti gli Dei. I buoi, si dice, non sono intelligenti. La cosa non è provata; ma, se anche lo fosse, che importerebbe? Questi animali sono operosi e buoni; vivono nel campo e per il campo; hanno la pazienza dignitosa, che non è facile trovare in altre bestie, e neanche tra gli uomini; formano parte integrante del paese, componendosi stupendamente con la sua prospettiva, e completano, direi quasi, il sentimento morale che sorge spontaneo dalla sua agreste bellezza.

– Ho piacere che senta la poesia dei nostri monti, delle nostre convalli, com'Ella diceva poc'anzi.

– E che crede, signorina? Che della poesia non ne nasca più, nelle nostre pianure?

– Ah, bene! – esclamò Fiordispina. – Questa è una restituzione.

– Per esser pari; – disse Gino umilmente.

– E lo siamo ora; – rispose la fanciulla. – A me piace molto la sincerità.

– In ogni cosa?

– In ogni cosa. Perchè mi fa questa domanda?

– Per aprirmi la via a fargliene un'altra.

– Interroghi pure; son qua; – disse Fiordispina con quella sua gravità che mal nascondeva la voglia di ridere.

– Orbene, – riprese Gino, – per la sincerità… Ella non ignora che sono stato accolto dal signor Francesco come un figliuolo della famiglia. Fratello con Aminta, lo sono del pari con Lei. Per la sincerità, dunque, mia sorella Fiordispina dovrebbe dirmi una cosa.

– Anche due.

– Non sarò tanto indiscreto. Le domanderò solamente come passa la sua vita alle Vaie.

– Ma… Come vuole che la passi? Come la passerei dovunque: cioè molte ore del giorno in casa, a cucire, a curar le faccende di casa, a leggere, a suonare il mio pianoforte, e poi, mattina e sera, un pochettino a passeggio.

– Ah sì! – disse Gino. Il passeggio… Che passeggio può essere il suo, alle Vaie?

– È bello anche qui, e piacevolissimo; – rispose la fanciulla. – Ci sono, sparse in questi dintorni, tutte le bellezze naturali che nelle città si ottengono a forza di imitazioni e d'artifizi. Stamane, andando a Querciola, non l'ha veduta, la cascata del Chiuso? Dicono che somigli tanto all'orrido di Varenna, sul lago di Como. E la salita del Poggio? Dev'essere una specie di Montagnola, col suo bel colmo all'aperto, meno la vista di Bologna nel basso.

– E meno la gente a passeggio per i suoi larghi viali; – osservò il conte Gino.

– Che importa? – replicò la fanciulla. – Si è più soli, qui, ma si è per compenso più liberi. Cerca la compagnia della gente chi ha ragione o desiderio di farsi vedere.

– Per il desiderio, passi; ma la ragione, nel caso suo, ci sarebbe davvero. Ma lasciamo stare questi discorsi, che avrebbero l'aria di preparare un complimento…

– Non hanno più l'aria; – interruppe Fiordispina, ridendo. – Il complimento è già fatto.

– Ah sì? Non me n'ero avveduto; – rispose candidamente Gino. – Ma l'orizzonte di queste sue passeggiate?..

– È breve, e mi basta.

– Le basta? Le basta? Mi permetta di dirle che ciò è molto strano.

– Perchè?

– Perchè… Non saprei come dirglielo, ma sento così. Ci sono i momenti, nella vita, che l'anima non si contenta della sua prigione, e vorrebbe spaziare in più libera cerchia; dei momenti che il pensiero va lontano, di là dai monti, cercando.

– Per trovar che cosa? – domandò Fiordispina.

– Non so; forse altri monti. Ma questa è colpa del mondo, che è fatto così, non dell'anima nostra, che anela a cose migliori. E poi, signorina, anche ignorando la meta, si cerca, si desidera, si aspira, per un'idea confusa di ciò che sarà, o di ciò che dovrebbe essere un giorno. —

Fiordispina levò gli occhi, mandando anch'ella uno sguardo, lo sguardo dell'anima, di là dai mari e dai monti; poi disse:

– C'è una ballata di Goethe, che esprime un sentimento come questo.

Nel Wilhelm Meister, mi pare. —

Il conte Gino Malatesti non era così forte di letteratura straniera.

– Ho piacere d'incontrarmi con un tant'uomo; – diss'egli; – ed ho piacere che Ella possa citarlo così. Ma anche questo è strano, nelle convalli del Cimone; e sia detto senza offendere la dignità di questo bel monte. Dovrà Ella, signorina, vorrà e potrà viverci sempre? —

La fanciulla rimase un istante sovra pensiero. Non c'era qui nessun autore da citare? Io penso piuttosto che Fiordispina non era pedante, come son troppi, uomini e donne che hanno studiato, e che non condannava la gente a sentire ad ogni tratto un saggio delle sue letture predilette.

– Non mi risponde nulla? – ripigliò il giovanotto.

– Che cosa rispondere a questa domanda? Non è in mio potere; – disse Fiordispina. – Sarò io la foglia che vola dove il vento la porta? Sarò io l'umile pianta che muore dove è nata? Certo è che bisogna rassegnarsi. Foglia o tronco, ci governa il destino.

– È fatalista?

– No davvero; dico il destino, per modo di dire, ed intendo una volontà superiore. Ma lasciamo la filosofia, per carità; – soggiunse ella, con un gesto di terrore. – Vede, signor conte? I miei conigli scappano. Queste povere bestiuole non hanno meritata una lezione così severa. Del resto, non la intenderebbero neanche. Basta a loro di aspettare ogni giorno la provvidenza mia, come l'aspetteranno a quest'ora le galline e i colombi.

– Andiamo! – disse Gino. – Se possiamo adoperarci per la felicità di qualcheduno, sulla terra, non dobbiamo farci pregare.

– Ecco un bel pensiero, signor conte. —

Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si avviò verso l'uscio. Gino la seguì, e richiuse diligentemente la porta, senza farselo dire da lei. Vedrete da questo piccolo particolare che il conte Malatesti non era uno sventato, e che entrava con molta sollecitudine nella gravità dell'ufficio.

Per quella mattina non più ragionamenti con la fanciulla dei Guerri; fu solamente quello scambio di parole che era necessario nelle piccole vicende, nelle insignificanti peripezìe d'una visita al pollaio e alla colombaia. Poi venne l'ora del pranzo; ed anche a tavola non furono che discorsi vani, o senza importanza, tra i quali il nostro giovanotto se la cavò discretamente, nascondendo il sentimento di tristezza che si era impadronito di lui.

Che cos'era avvenuto? Esplorare i segreti di un'anima è cosa difficile assai, e meglio varrebbe inventare di sana pianta. Ma le invenzioni non giovano che a patto di essere verisimili. Voi per esempio avrete sentito dire le mille volte che spesso avvenga di esser tristi senza ragione. Ma è proprio vero, questo? E non è a vederci piuttosto un effetto della nostra ignoranza, per difetto d'indagini? In quei momenti di tristezza, chi ben cerchi, c'è sempre il fatto d'uno squilibrio morale tra ciò che siamo e ciò che vorremmo e dovremmo essere. Sia luogo o genere di vita, o sentimento più intimo, se ciò che noi siamo per necessità, o che la nostra stoltezza ci ha condotti ad essere, non corrisponde a quello che intravvediamo di meglio, è naturale che la tristezza ci offuschi lo spirito. Ma se fossimo quel che vogliamo, o dobbiamo, saremmo poi più felici? Altro errore, pur troppo, altro inganno di prospettiva, poichè non ci contentiamo mai di quello che abbiamo, e desideriamo sempre ciò che è da raggiungere ancora. Così l'uomo è triste, e di simili tristezze è tessuto il drappo funebre della nostra esistenza.

Il conte Gino aveva poi, per argomento di tristezza, tutto quello che non diceva a sè stesso. Vi è occorso mai di ricevere una lettera e di lasciarla per qualche tempo chiusa sul tavolino, sperando che qualche noia più grande, magari una vera disgrazia, vi levi l'incomodo di leggere quello scritto, in cui fiutate il rimprovero, o una seccatura a cui non potrete sottrarvi senza venir meno a tutte le norme dell'onestà? Con pari sospensione d'animo viveva il conte Gino, a cui una parte della sua vita avrebbe potuto rimproverare quella avventura sui monti, quella volata al sereno, quella ebbrezza (chiamiamola pure così) quella ebbrezza di ossigeno. Ah, se gli fosse riescito di cancellare!.. Ma che cosa? Dio buono! Era qui il nodo della quistione, il punto che ricusava di guardare, la cosa, che non osava dire a sè stesso.

 

Capitolo V.
Il commissario e l'applicato

Ritornato quella sera a Querciola, il conte Gino Malatesti indovinò la ragione dei discorsi che il signor Aminta aveva fatti sottovoce al Mandelli. E ancora indovinò perchè il signor Francesco Guerri e suo figlio, ritiratisi a colloquio d'affari, lo avessero lasciato solo, fino all'ora del pranzo, in quella dolce libertà che gli aveva permesso di scendere nella stufa e di aver poi quella lunga conversazione con la bella Fiordispina.

La sua camera, in casa Mandelli, era completamente trasformata. Gino incominciò a vedere un letto nuovo, di ferro, col suo tappeto da piedi, il suo comodino accanto, il suo candeliere e perfino il grazioso arnese di velluto su cui posar l'orologio. Più in là era un cassettone, e vicino a questo, in un angolo, l'attaccapanni. Di rincontro alla finestra era una piccola scrivania, con carta, penne, calamaio, ed anche dei libri. Guardò quei volumi, e riconobbe la Divina Commedia, la Bibbia, un compendio di Storia romana, e finalmente un dizionario storico-geografico del Ducato di Modena.

Tutta quella roba era stata caricata, portata e messa a posto nella giornata. Parecchie persone, di certo, avevano lavorato all'impresa, sotto la scorta di Aminta, che infatti, appena finito il pranzo, era sparito da casa, non ritornando che verso sera, quando per il conte Gino era venuta l'ora di ritornare a Querciola. Ottimo fratello Aminta! Ma se egli aveva lavorato con tanta sollecitudine lassù, non mancavano traccie del pensiero di Fiordispina. I libri, sicuramente, li aveva scelti lei. Quel copertoio trapunto, che si vedeva disteso sul letto, quel grazioso arnese per deporvi l'orologio, quel piè di lampada ricamato che stava sulla scrivania, non erano forse opere sue? Aggiungete che a pian terreno, nella stalla del Mandelli, dov'era stata rinnovata la paglia, riposava il cavallo su cui Gino Malatesti aveva già fatto tre corse. Un famiglio dei Guerri, destinato al governo del cavallo, doveva rimanere a Querciola, come servitore di Gino.

Un sentimento di gratitudine si associò naturalmente nel cuor suo alla sensazione di piacere che gli aveva destato la vista di tante novità. Quella notte, sdraiato nel soffice letticciuolo, al tepore delle morbide coltri, al profumo delle lenzuola di lino (le aveva prevedute di canapa, e con molti stecchi per giunta), il nostro giovinotto sognò beatamente i suoi ospiti e benefattori delle Vaie. Era più che mai il figlio prediletto dei Guerri. Aminta gli aveva stretta la mano, giurandogli eterna amicizia; Fiordispina lo amava; il signor Francesco gli sorrideva, e Don Pietro Toschi, parroco delle Vaie, lasciata la pipa in canonica, si disponeva ad andare nella sagrestia, per vestire i sacri paramenti e dar la benedizione di rito. Così almeno pareva a Gino, perchè nel sogno non vediamo solamente gli atti, ma leggiamo anche nei cuori e indoviniamo le intenzioni della gente.

Per intanto, mutata facilmente la scena, egli passeggiava in un bosco di cerri, e Fiordispina era sospesa al suo braccio. Che pace, Dei immortali, che soavità, che fragranza d'idillio! Ecco, si erano fermati, e con le punte dei coltelli incidevano i loro nomi nei tronchi degli alberi: egli il nome di Fiordispina; ella il nome di Gino. Ma che malìa era quella? Aveva proprio scritto egli? La fanciulla dei Guerri veniva accanto a lui, per leggere il suo nome, e scambio di quello, vedeva inciso nella corteccia un altro nome, e ben chiaro: il nome di Polissena. – Che è ciò? domandava turbata. – Non so; come può essere avvenuto questo cambiamento? Io avevo pure scritto: Fiordispina. – Ebbene, quel che tu fai, conte, è ben fatto. Purchè non sia il nome di un'altra!..

Fremeva egli a quelle parole di lei; smaniando, si affrettava a cancellare; ma quel nome, che egli non intendeva come si fosse formato sotto la punta del suo coltello, quel nome restava, anche inciso nelle bianche fibre del tronco, dopo che egli ne aveva strappata la corteccia. E si disperava, tempestando di colpi quelle lettere fatali; ma Fiordispina non era là più a vederlo, Fiordispina era sparita; ed egli, gettato sdegnosamente il coltello, dava in uno scoppio di pianto.

Destatosi da quel brutto sogno, riebbe un po' di calma, non intieramente la serenità dello spirito. Oramai poteva capire come e perchè fosse rimasto malinconico, dopo il suo colloquio con la fanciulla dei Guerri. Ma infine, sorgendo il sole e cacciando davanti a sè le torpide nebbie della vetta del Cimone, infine, che cosa aveva egli fatto di male? Si era forse innamorato alle Vaie, mostrandosi infedele al suo amore di Modena? Il sole incominciava ad apparire dal monte, e un primo raggio batteva alto sulla finestra della sua camera. Gli parve allora che un simile dubbio non fosse neanche possibile. Maledettissimo sogno! Come lo aveva spaventato! Fortunatamente, nel suo esame di coscienza, fitto alla bella luce del giorno, il conte Gino Malatesti non trovò che cortesie e gentilezze, risposta naturale a gentilezze e cortesie. La gioventù, l'innocenza, la grazia, si sa, ispirano sempre un pochino di tenerezza, domandano qualche piccolo omaggio. È da cavalieri, poi, servire a tutte le dame, non amando che una. Egli non aveva detto niente di particolare alla fanciulla dei Guerri, niente che potesse apparire una dichiarazione d'amore, e da questo lato la marchesa Polissena poteva vivere pienamente tranquilla.

Doveva esser bella, in quell'ora del sonnellino d'oro, la regina de' suoi pensieri. Perchè ella certamente riposava ancora, in quel punto. Era una gran dormigliosa, la marchesa Polissena. E doveva star così bene, con la sua cuffiettina di pizzi, donde sbucavano le ciocche de' capegli dorati! Gino ripensò allora i bei giorni, le ore liete, e quella famosa corsa in Piemonte, che sicuramente aveva fornito al sospettoso governo ducale uno dei più forti capi d'accusa contro di lui. Strana donna, la marchesa Polissena! Curioso impasto di paure e di audacie, di rispetti umani e di cieche temerità! Perchè spesso, quasi sempre, egli era obbligato ad infingersi, a fare il cerimonioso, in obbedienza agli ordini della bionda signora. In casa di lei convenivano ufficiali dell'esercito ducale, consiglieri, magistrati, senza contare tutti i nobili, vecchi e giovani, pari di grado e d'importanza al conte Gino Malatesti. C'erano delle serate che la marchesa gli rivolgeva appena il discorso. Ma guai se egli, adattandosi a quel giuoco e volendo pur secondarlo, faceva il galante intorno a qualche altra. Passando daccanto a lui, con un pretesto, o chiamandolo per suo aiutante nella distribuzione del tè, gli gettava una di quelle parole che lo facevano tremare per ogni vena.

Dopo una di quelle collere, per l'appunto, era cascato il viaggio a Torino. Doveva fingere di avere anch'egli necessità di andare a Piacenza, ultima città dello Stato limitrofo ed amico; ottima occasione per accompagnare un tratto di strada la signora marchesa Baldovini, che noti interessi di famiglia chiamavano allora a Torino. Da Piacenza era sconfinato sul territorio piemontese, cedendo così volentieri ad un bel capriccio di lei, che era in uno de' suoi momenti di audacia, di temerità, di pazzia. Ma da Torino la marchesa Polissena era ritornata sola a Modena, ed egli aveva dovuto, per rispetto a lei, rimanere dell'altro in Piemonte. Non a Torino, veh! per causare il pericolo delle distrazioni. Polissena si era fatta accompagnare fino ad Alessandria, e là aveva condannato il conte Gino a rimanere tre giorni, a contemplare i rossi baluardi della cittadella, o a contar le ore sul quadrante del palazzo comunale. Questo rimanere più a lungo e da solo nel territorio scomunicato, aveva certamente insospettito il governo ducale. Francesco V poteva creder benissimo che quello del giovane conte Malatesti non fosse un viaggio a Citèra, per offrir sacrifizi alla madre d'Amore, ma un vero e proprio pellegrinaggio a Delfo, per consultare gli oracoli della Patria.

Ahi, Polissena! Da quel giorno gli sgherri avevano posto gli occhi su lui. Se egli soffriva il confine a Querciola, si poteva benissimo accusarne un discorso tra amici in festa, ma non senza farne risalire l'origine a quel viaggio, e per conseguenza all'amabile capriccio della marchesa Baldovini. Lassù, nei pressi del monte Cimone, gli era avvenuto di trovarsi solo, di respirare un istante più liberamente, senza il pericolo che la marchesa gli passasse daccanto e gli gittasse una di quelle parole che lo facevano tremare. Ma infine, come prima, nel salotto di lei, anche allora, alle falde del Cimone, egli non si sentiva in colpa. E perchè, poi, le sarebbe stato infedele? Gratitudine, sì, ne aveva molta ai signori delle Vaie, e doveva in qualche modo dimostrarla. Quelle cure amorevoli, quegli inviti a pranzo, erano cose di tutti i giorni; ma egli, nella condizione in cui era, non poteva neanche ritrarsene. Per altro, si sentiva sicuro di sè, avrebbe anche fatto buona guardia al suo cuore, contro gli inganni della fantasia, contro le tentazioni del tempo e del luogo. La cosa era necessaria altresì per riguardo a quella gentile fanciulla, così bella, così intelligente, ma pure così inesperta delle cose del mondo. Sarebbe stato brutto, indegno di lui, turbar la pace di quell'anima verginale. Al posto, adunque, signor Gino degnissimo, al posto! È così facile, quando si vuole davvero!

Chi gli diceva di no? Chi mai gli bisbigliava nel cuore che certe cose è più facile immaginarle che farle? Sicuramente un genio maligno, uno spirito noioso, che vive dentro di noi e fa la critica di tutti i nostri pensieri. Dovrebb'essere il diavolo della logica: un diavolo arguto, dopo tutto, e non cattivo come sembra; ma riesce ordinariamente antipatico, perchè contraddice volentieri e ci mette alla disperazione con le sue ironie sanguinose.

Ah sì, spirito malnato? Credi proprio che sia tanto difficile il fare una cosa, quando si vuole davvero? Aspetta un pochino anche tu, e vedrai come ci si riesca.

Davanti a quel fermo proposito, il genio maligno taceva, quasi umiliato, e ritirava le corna. Gino, frattanto, inforcava il cavallo, per ritornare alle Vaie.

Ci andò per due giorni ancora, abbastanza contento di se medesimo. Oramai, forte della sua risoluzione, il nostro giovinotto poteva credersi agguerrito al pericolo. Parlava liberamente con Fiordispina, non cercando mai, ma neanche sfuggendo l'occasione di trovarsi solo con lei. Più volentieri restava in conversazione con la famiglia riunita, e allora faceva pompa di tutto quello che sapeva, ragionando con garbo, girando le frasi con arte, dando alle parole tutte le più dolci inflessioni di voce. Non è forse lecito, questo? Non è anzi un dovere, quando vogliamo farci ascoltare senza troppa noia da un numeroso uditorio? Cercar di piacere alla gente non fu mai un delitto; è anzi una bella cosa, quando è l'unica che possiamo fare, a ricambio di tante gentili attenzioni che ha la gente sullodata per noi.

La sua presenza era molto gradita, nella casa dei Guerri. Anche i re conoscono la noia, e un discorritore ameno, che parli gravemente di mode e gaiamente di cose scientifiche, buon dilettante per ragionare senza sussiego di arte e di lettere, diplomatico raffinato per toccare, senza scoprirli, i segreti dei gabinetti, e per dipingere con un rapidissimo tocco i piccoli difetti dei sovrani esteri, che sono fratelli e cugini del padrone di casa, è veramente la man di Dio in un circolo intimo, donde il cerimoniale è per due ore sbandito. Per i re della montagna, il conte Gino era come una gaia nota di sole nel fosco della macchia; la sua presenza una bella meteora, la sua conversazione un fuoco d'artifizio. Anch'essi, tanto buoni e ricchi di quella gentilezza che non s'impara lì per lì, ma che è il frutto di una lunga educazione, fors'anco eredità di famiglia, anch'essi, dico, si facevano più amabili al contatto dell'ospite, fresco degli usi e delle garbatezze cittadine, brillavano anch'essi di quella vernice, che, a dirvi la cosa molto volgarmente, tutti i corpi son capaci di prendere per sola virtù di strofinamento. Ed avveniva allora nella casa dei Guerri ciò che spesso accade in una brigata di persone civili, quando, per opera non avvertita di uno, che abbia garbo e misura, tutti si accorgono con meraviglia di avere avuto più spirito. – Come è passato il tempo! si dice. E siamo proprio noi, che ci siamo divertiti così? —

 

Vi ho detto che Gino fu ancora per due giorni alle Vaie, con molta sicurezza di sè. Ci era andato il terzo giorno; ma la sua tranquillità era stata turbata sul più bello. Si stava appunto per prendere il caffè, quando vennero a chiamare il signor Aminta, che andò subito fuori, e ritornò dopo cinque minuti.

– Sai? – diss'egli a Gino. – Ci sono due signori a Pievepelago.

– Ah! – esclamò Gino, turbato. – Cercano forse di me?

– Lo credo, perchè hanno domandato la via di Querciola. L'uomo che è venuto ad avvertirmi in fretta mi dice che all'aria gli sembrano due impiegati del governo ducale.

– Due commissarii! Troppo onore; – borbottò Gino. – E come ne sei stato avvertito?

– Prevedevo la visita, – rispose Aminta, – ed ho stabilito il mio servizio di esplorazione.

– Grazie, mio buon amico e fratello! Ed ora, potranno esser qua da un momento all'altro.

– No, perchè si erano messi a tavola, quando il mio esploratore montava a cavallo. Del resto, puoi riceverli qui.

– Che! Non mi conviene davvero.

– E perchè? – domandò il signor Francesco. – Ella è in casa sua.

– Appunto per questo che a Lei piace di dire; – rispose Gino, ridendo. – I satelliti del tiranno vedrebbero che sto troppo bene, fra queste montagne. Cattivi come le scimmie, mi farebbero subito un brutto servizio presso l'autorità superiore, e questa, con un suo nuovo rescritto, mi manderebbe Dio sa dove.

– Allora scappi subito! – dissero le signore.

Aminta corse nella scuderia, a far sellare il cavallo di Gino. Per quel giorno, intanto, addio conversazione!

– Ci porti notizie, quando saranno ripartiti; – disse il signor Francesco, stringendo la mano al suo ospite.

– Oh, sicuramente; non dubiti. Signore mie, compiangano un povero condannato, che deve obbedire al precetto. —

Cinque minuti dopo, era a cavallo, e Aminta lo accompagnò fin sulla strada.

– Non correre tanto; – gli disse. – Per venire a Querciola debbano passare di qua. Se anche hanno trovato muli a Pievepelago, non c'è pericolo che vengano al trotto. Comunque, noi non offriremo loro i cavalli per raggiungerti. Quando ci rivedremo?

– Se mi lasciano, – disse Gino, – fo una trottata stasera.

– Bravo! Ti hanno guastata la fine del pranzo; vieni a cena.

– Eh! Perchè no? A rivederci. Se non posso liberarmi, ti mando Pellegrino con le mie notizie. —

Pellegrino era il famiglio dei Guerri, collocato da questi al servizio di Gino Malatesti.

Il nostro confinato era già da due ore nel suo eremo di Querciola, e incominciava a credere che quello di Pievepelago fosse stato un falso allarme, quando sentì un batter di ferri sul selciato della strada.

– Ah, ah, ci siamo! – disse Gino tra sè. – Ed hanno anche trovate le cavalcature, quei manigoldi! —

Lo scalpitìo, frattanto era cessato, perchè i cavalli, o muli che fossero, avevano raggiunto il colmo della salita, davanti alle prime case di Querciola. Non andò molto che Gino sentì un rumore di passi su per le scale.

Il vecchio Mandelli precedeva i forastieri. Affacciatosi all'uscio della camera, che Gino aveva lasciato socchiuso, disse al suo inquilino:

– Signor conte, son qua due signori che cercano di Lei.

– Entrino pure; – rispose Gino, smettendo di leggere, ma lasciando aperto sulla scrivania il Dizionario storico geografico dello Stato di Modena.

Il vecchio Mandelli si ritirò, e in sua vece si presentarono le due facce proibite che avevano guastata la digestione del conte Gino, facendolo correre con tanta fretta dalle Vaie a Querciola. Dico facce proibite per far piacere al nostro eroe; ma nel fatto erano due facce insignificanti; completamente rase, perchè a que' tempi non si amavano le barbe, e i pizzi e i mustacchi erano proibiti come le pistole corte, anzi come le pistole d'ogni misura e le armi d'ogni genere. I due possessori di quelle facce erano vestiti di nero, e i loro atti apparivano molto cerimoniosi, ma non senza quel po' di sussiego che ha sempre indicata la dignità di un ufficio governativo. Dal contegno dell'uno rispetto all'altro, dalla distanza che il secondo mantenne venendo dietro al primo, si capiva facilmente che quegli era inferiore di parecchi gradi al suo compagno di viaggio.

– Ella ci perdonerà, signor conte, se veniamo a scomodarla; – disse il superiore. – Adempiamo un incarico del governo.

– Facciano pure; – rispose Gino, accennando due seggiole, ma non degnandosi di domandare in che consistesse l'incarico.

– Niente di noioso o di lungo, per altro; – ripigliò l'oratore. – Una semplice ricognizione, e punto offensiva. Sua Eccellenza desiderava di sapere se Vossignoria ha trovato modo di collocarsi a Querciola.

– Ci sono venuto subito, appena ricevuto l'ordine; – rispose Gino, niente ingannato dalla forma garbata in cui quell'altro gli presentava la cosa.

– Veramente, – disse il commissario, – questo è un paese poco abitabile, se debbo giudicarne dalla strada che abbiamo fatta per giungerci, e dalla meschina apparenza delle case. M'immagino che Sua Eccellenza non lo conoscesse altrimenti che sulla carta. —

Gino rispose con un cenno del capo, che voleva dire e non dire. A quel discorso del signor commissario, in verità, non c'era nulla da rispondere.

– Siamo tra contadini a dirittura; – continuò il commissario. – Ed Ella, signor conte, non ci avrà distrazioni. —

Gino sospirò; poi rispose al signor commissario:

– Che farci? Il confine è una punizione, e come tale non ammette passatempi, oltre quelli che un uomo industrioso, ed anche di facile contentatura, sa trovarsi da sè.

– Studiando, non è vero? Ha qualche libro, come vedo.

– Poca roba, signor mio: la Bibbia, la Divina Commedia, una Storia Romana antica…

– Ah, buono studio! – esclamò il signor commissario.

– Certamente! – disse Gino. – È molto interessante. Par di vivere in tempi migliori.

– E stava per l'appunto vivendo cogli antichi, quando noi siamo venuti a disturbarla.

– No, per il momento facevo dell'altro; cercavo qualche notizia in questo Dizionario storico e geografico del Ducato. Desidero di conoscere questi paeselli di montagna, per fare qualche passeggiata.

– Ottima cosa, poichè si è in campagna; – disse il commissario. – E qui ci ha una bella prospettiva?

– Ne giudichi Lei, signor commissario. Si affacci pure alla finestra.

Vedrà molto verde. —

Il signor commissario si degnò di andare alla finestra, e di metter fuori il suo naso.

– Sì, veramente, molto verde; – diss'egli ridendo. – Nient'altro che verde. —

Gino, frattanto, si sentiva cacciar tra le dita qualche cosa, come una lettera, o un foglio di carta ripiegato.

Si volse a guardare il compagno del commissario, l'inferiore di grado, il semplice applicato, e vide ne' suoi occhi un lampo, un cenno d'intelligenza, una raccomandazione muta. Poi quel lampo si estinse; il cenno e la raccomandazione si smarrirono nella tinta scialba della sua faccia marmorea.

Il giovanotto ebbe a mala pena il tempo di far scorrere in tasca il foglio di carta, perchè il signor commissario si era già ritirato dal vano della finestra, per rivolgersi a lui.

– Del resto, – disse l'oratore del governo ducale, dopo aver data una guardatina in giro, – Ella è abbastanza bene, in questa cameretta.

– Con qualche mobile preso in affitto; – rispose Gino umilmente.

– Difatti, – riprese il commissario, – questi mobili non somigliano punto agli altri della sala d'ingresso, e stuonano anche con la misera apparenza della casa. Mi maraviglio che abbia potuto trovarne in questi dintorni.

– Appena giunto a Querciola ne dubitavo anch'io; – rispose Gino, seccato da quel discorso, ma vedendo la necessità di condurre il suo interlocutore fuori di strada. – Ma offrendo danaro… Ella mi capisce!

– Buona cosa averne molto; – osservò giudiziosamente quell'altro, che forse pensava in quel punto al magro stipendio per cui faceva da tanti anni un ingrato mestiere. – Ella è felice, signor conte!