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L'undecimo comandamento: Romanzo

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XI

La gita archeologica alla caverna delle Streghe parve stringere viemmeglio, se pure la cosa era possibile, i vincoli fraterni della famiglia di San Bruno. Tornati lassù, i miei frati da burla erano più amici che mai; solo al modo con cui si davano a vicenda il buon giorno e la buona sera, si sarebbe detto che erano sempre lì lì per abbracciarsi, non pure all'ombra discreta dei corridoi, ma anche alla viva luce del sole. I miei frati da burla si muovevano tutti in un'orbita, di cui Adelindo Ruzzani era il fuoco. Ma che serve più chiamarlo Adelindo? Diciamo Adele Ruzzani, poichè ognuno di quei frati aveva indovinata la donna. Per altro, non diremo Adele, quando si sarà in molti; e ciò per una ragione semplicissima, che i lettori non devono ignorare. Ognuno degli ospiti di San Bruno aveva, come ho detto, indovinato la donna; ma nessuno s'era pigliata la briga di annunziare la sua scoperta al compagno. Tirava ognuno, o cercava di tirare a sè; la qual cosa è stata espressa dai nostri antichi con la felicissima immagine del vogare alla galeotta.

Frate Adelindo! Il monachino, il serafino biondo! Tutti erano intorno a lui, si occupavano tutti di lui, e poco o punto delle varie faccende in cui per lo passato si spartiva la pacifica operosità del convento. Il giornale, come potete immaginare, andava per le lunghe; si scriveva poco e non si meditava affatto, nelle celle solitarie; gli strumenti dell'osservatorio dormivano sui cavalletti, o nelle buste di velluto; le storte del laboratorio di chimica giacevano sui fornelli senza fuoco; i libri della biblioteca non aspettavano più i frati, ma i topi e le tignuole. Dio mi perdoni se avviene ch'io tenga bordone ad una voce calunniosa; ma si credeva che lo stesso priore badasse poco agli uffici della sua carica, e non rivedesse neanche più i conti all'economo.

Ma che importava tutto ciò, se i frati di San Bruno erano di buon umore? Gente allegra il ciel l'aiuta, dice il proverbio. Beati i miei conventuali, che erano ancora nel periodo allegro, per solito il più breve, nel dramma delle umane passioni. Meno ilare, ad onta del nome, era fratel Giocondo. E perchè? Voi sapete, o lettori, che il nostro converso passava una gran parte del giorno all'ingresso del convento, in capo a quel ponte per cui bisognava passare, quando si voleva penetrare nell'eremo di San Bruno. Ora, quest'obbligo quotidiano faceva sì che il bravo converso fosse meno soggetto all'influenza benefica del serafino biondo, e per contro più esposto alle seccature che venivano di fuori.

E ne venivano molte, non dubitate. Capitavano a diecine, ogni giorno, i curiosi che volevano vedere il convento. Qualche volta erano brigate di buontemponi, o cavalcate di forestieri più o meno autentici; qualche altra erano signori travestiti, che domandavano di essere condotti al priore, per presentargli una supplica, un memoriale, e che so io. Tra gli altri ne venne uno (e fratel Giocondo manifestò il sospetto che fosse una donna; ma brutta, si affrettò a soggiungere) che domandava di confessarsi al padre Anacleto.

– Qui non si confessa; – aveva risposto il converso, alzando sdegnosamente le spalle. – Andate dai frati veri.

– Ma che convento è questo? – aveva ribattuto l'importuno.

– Il convento dei matti. Non è questo il nome che gli date voi altri di Castelnuovo? – replicò fratel Giocondo, che aveva fiutato il cittadino curioso, sotto le spoglie del penitente. – Andate, andate, ad arrostire i vostri peccati ad un'altra graticola. – Questi modi burberi di fratel Giocondo rispondevano ad un ordine severo del padre Anacleto, che si era annoiato da prima, e quindi impensierito di quel continuo viavai di curiosi e di facce sospette. Per solito non si ammettevano forestieri; ma perchè ne capitavano di rado, si usava anche la cortesia di lasciar visitare il convento a qualche giramondo riconosciuto per tale. Ma la frequenza delle visite non si spiegava più con la supposta qualità di viaggiatori. Evidentemente, erano Castelnovesi indiscreti che venivano a bracare i fatti altrui. E questa ancora non sarebbe stata che una seccatura, più o meno tollerabile, secondo i casi e gli umori. Ma il padre Anacleto aveva sospettato che ci fosse sotto dell'altro, e si era affrettato a proibire l'ingresso ad ogni genere di persone. I contadini, che portavano qualche cosa al convento, potevano contentarsi di trattare col frate converso; e neanche era necessario che capitassero in due, per portare un canestro di uova, o di frutta. Se poi qualcheduno voleva parlare con padre Atanasio, o con padre Marcellino, restasse sul ponte, a prendere una boccata d'aria fresca, fin tanto che il converso tornasse con la persona chiamata, o con un suo rifiuto di farsi vedere, come più spesso accadeva.

Una volta, per altro, fu chiamato il padre Prospero; e questi, non che ricusare di lasciarsi vedere al parlatorio del ponte, non mostrò nessuna meraviglia d'essere stato chiamato. Che voleva dir ciò? Voleva dire che la visita non gli giungeva inaspettata; che anzi gli era stata annunziata in una certa lettera, ricevuta il giorno prima; lettera da lui meditata a lungo, e non fatta leggere al serafino biondo. Ci aveva i suoi piccoli segreti, il signor Prospero Gentili! A dirvela schietta, il brav'uomo incominciava a seccarsi di tutto quel ronzìo quotidiano di frati apocrifi intorno al monachino biondo, che era senza fallo il più apocrifo di tutti. E la lettera misteriosa, che dieci giorni prima lo avrebbe sconturbato quel tanto, gli giunse invece gratissima, come l'annunzio d'un amico a chi s'annoia in campagna, anzi meglio, come la voce d'un salvatore a chi è sul punto d'affogare. Donde si vede chiaro che ogni cosa può tornar utile e piacevole, purchè giunga a suo tempo.

Seguitiamo il padre Prospero e vedremo anche noi il personaggio che lo faceva correre con tanta fretta al parlatorio del ponte. Ma già, voi siete capaci di averlo indovinato, o lettori, e mormorate già il nome del… Sicuro, avete indovinato, era lui.

Il signor Prospero entrò risoluto nella stanza del parlatorio. Ma come fu davanti al suo visitatore, e come si avvide che questi lo guardava con aria tra curiosa e canzonatoria, rimase lì grullo e confuso. Il pover'uomo, nell'atto di recarsi al colloquio, non aveva pensato ad una cosa; vo' dire a quella tonaca di color tabacco, che involgeva la sua rispettabile circonferenza. E il pensarci allora, sotto l'esame di quegli occhi indagatori, gli fece sentire quanto fosse ridicolo nella sua veste da frate.

Quell'altro aspettò che fosse partito il converso e l'uscio del parlatorio richiuso alle spalle del signor Prospero; indi si lasciò andare sopra uno dei seggioloni di cuoio che decoravano la sala, e diede in uno scoppio di risa.

– Ah, signor Prospero… anzi no, padre Prospero, mi permetta… voglia compatire… voglia scusare questo piccolo sfogo d'ilarità. Ma è proprio Lei? Sogno o son desto? come dicono in tragedia. Dovevo capitar qua, per vederla in tonaca e cocolla? Quanti voti ha già pronunziati, di grazia? Vuol permettermi, padre Prospero mio reverendissimo, che io le baci la santa mano? —

Il signor Prospero lasciò passare quella raffica di motteggi, a cui non oppose che un malinconico tentennamento del capo.

– Forza maggiore, signor cavaliere, forza maggiore! – diss'egli poscia, con aria contrita. – Potevo provarmi a far diverso da ciò che voleva quella birichina?

– Eh via! Un tutore, un uomo grave come Lei… quasi un commendatore! Non trovare in sè quel tanto di forza che bastasse a farle vincere un capriccio di ragazza! Sopra tutto, poi, non avvertirmi di nulla!

– Sì, sì, Lei ne parla a suo comodo! – rispose il signor Prospero. – Ma dovrebbe mettersi un po' ne' miei panni… Ne' miei panni d'allora, non in questi! – soggiunse, con una bonarietà che sapeva quasi di arguzia. – Dovrebbe considerare, signor cavaliere, che non era più tempo di oppormi, di far trionfare la mia volontà. Si figuri! Ero scapolo, e mi son conservato tale, perchè volevo troppo bene alla figliuola di mia sorella. Era il mio occhio destro, quel caro demonietto; e dal sinistro ci ho sempre veduto poco. L'Adelina aveva sei mesi, che io incominciavo già a fare tutto quello che voleva lei. Appena mi conobbe, mi tirò i baffi, ed io non l'ebbi per male. Poi, fatta più grandicella, prendeva un gusto matto a darmi noia, a stracciarmi il giornale, per farne gli uccellini e i cappelli da generale, a scompigliarmi lo scrittoio, a rovesciarmi la boccetta dell'inchiostro, per dipingere le sue signorine vestite all'ultima moda, a rubarmi il mio berretto da notte, per far la cuccia al suo gatto. Ma, siamo giusti, mi voleva un gran bene, e mi diceva "caro zio" in un certo modo! Era lei che ricamava le mie babbucce; la custodia dell'orologio appesa accanto al mio letto, l'ha fatta lei, come la mia papalina di velluto, con la nappina d'oro. Volevo ammogliarmi… Sì, anche questa idea stramba m'è passata per la testa. Adelina aveva allora undici anni. Domandai il suo riverito parere: ed ella me lo diede negativo. "Zio Prospero, mi disse, che bisogno hai tu di prender moglie? Non ci sono io, per aver cura delle cose tue, per ricamare le tue babbucce, e per badare che non ti manchi nulla, nè l'acqua fresca nella boccia di cristallo, nè il mazzo di rose nel vaso di porcellana?" Ella deve sapere, signor cavaliere, che amo molto le rose, e mi piace di averne in camera tutto l'anno. Mi sono adattato a non prender moglie; ho fatto allora, ho fatto sempre quel che voleva la mia cara prepotente. Insomma, signor cavaliere, mi dica un po' Lei; quando s'è preso il verso di obbedire, come si fa a comandare?

– Buon per Lei, che non ha preso moglie, perchè sarebbe caduto di Scilla in Cariddi! – osservò con l'usata profondità di giudizio il signor cavaliere. – Ma basta, cosa fatta capo ha. Ora bisogna vedere di uscir fuori da questo imbroglio.

– Dica Lei, proponga Lei; non domando altro.

 

– La cosa non è facile. In città si è mormorato assai, come può immaginarsi. Io l'ho saputo… subito. Io so tutto, ho l'obbligo di saper tutto. Non lo volevo credere, da principio; ma dovetti arrendermi alla certezza delle mie informazioni. Ho taciuto fin che ho potuto, quasi a rischio di passare per male informato. Ma infine, anche non ammettendo, non ho potuto negare troppo recisamente. La voce è corsa, signor Prospero; le Gamberini me l'hanno riferita, con un piacere da non dirsi. E adesso sarà un bel guaio, dover rimediare agli effetti. —

Il signor Prospero vide allora tutta la gravità della cosa, e ne rimase atterrato.

– Se si potesse negarlo! – esclamò.

– Si potrebbe, anche a rischio di non esser creduti. Ma già, quando non ci sono prove, tanto vale il nostro no, quanto il sì di mezzo mondo. Per altro, non bisognerebbe perder tempo. Vadano subito via, partano per Torino e ci restino un mese; questo mi sembra il meglio che possano fare. Io frattanto, avrei modo di preparare il terreno, dissiperei i sospetti, opporrei la certezza alla chiacchiere senza fondamento. Quanto all'andar via di qui, non ci pensino, me ne incarico io. Mando una carrozza, con persona fidatissima, che li conduca alla seconda stazione, dopo Castelnuovo. Partiranno di notte e nessuno li avrà veduti. Che gliene pare?

– Oh, essa non accetterà! – rispose il signor Prospero. – Quando s'è fitta in capo una cosa!..

– Ma di grazia signor Prospero, si potrebbe sapere che cosa si sia fitta in capo, la sua bella nepote? Vuol vivere in un chiostro? Lo cerchi di monache, almeno! E questi sciocchi di frati non si sono accorti di nulla?

– Che cosa vuole che le dica? Li ha stregati tutti, come ha stregato me. La chiamano il padrino. Padrino di qua, padrino di là, è sempre in ballo lei, non la lasciano un minuto. Nelle ore di ricreazione ella dipinge, all'aria aperta, sotto gli archi del porticato. E ci son tutti, a starla a vedere; uno le tiene i pennelli, un altro le porge i colori, un altro si mette in azione, un altro loda, un altro va in visibilio. Par d'essere in una casa dove ci sia un bambino, che tutti diventano bambini come lui, e più di lui, se occorre.

– E il priore?

– Il priore? è l'unico che non abbia persa la testa. Almeno, è il più grave di tutti.

– Dica il più pericoloso, signor Prospero.

– Perchè? Lo conosce forse?

– Non di persona; ma ho avuta la sua fotografia… ed anche parecchie informazioni sul conto suo. È un ferrarese…

– Ah, lo avrei dovuto indovinare all'accento.

– Ma più ancora alla stranezza della sua fantasia. Questo suo convento di frati che non son frati, è degno di quel capo balzano dell'Ariosto. Era un ufficiale di cavalleria. Ha lasciato il servizio militare per gettarsi nella politica, di cui si è presto annoiato. Ha avuto amori a bizeffe. Un bel giorno gli è saltata la manìa di riformare il mondo. E qui doveva finire in una specie di manicomio. Un bell'uomo, non lo nego; ma tanto più pericoloso; ne conviene?

– Se fosse ricco!.. – scappò detto al signor Prospero.

– Non tanto da poter pretendere alla mano della sua nepote; e non possiede neanche un titolo di nobiltà, che in questi casi vale ricchezza. Ma poi, ritenga, signor Prospero, quello è un matto tranquillo, che è come dire insanabile. C'è forse più da sperare che egli lasci la sua utopia, per prender moglie? Questi filosofi, questi riformatori, son tutti ostinati. Anche quando nel loro interno siano persuasi d'aver dato in ciampanelle, l'amor proprio li consiglia a tener duro. Badi, io le fo una profezia, se rimangono qua dentro; sua nepote, con quella sua testolina bizzarra, s'innamorerà di questo priore, o d'un altro della comunità. L'occasione fa l'uomo ladro, e Lei, signor Prospero…

– Non mi spaventi, per carità; – interruppe il povero zio, mettendosi le mani ai capegli. – Forse è un timore esagerato, il suo. Questi signori sono molto gentili, cavalieri compiti, ed anche quando s'immaginassero… o già si fossero immaginati…

– Mi piace la correzione, che le è venuta così spontanea; – ripigliò quell'altro. – Senza pensarci, Ella ha trovata la verità. Or dunque, signor Prospero, metta il cervello a partito. Che crede, che quando abbiano riconosciuta la donna nel suo finto nepote, glielo verranno a dire a Lei, perchè abbia tempo a provvedere?

– Capisco, capisco; – mormorò il signor Prospero. – Ma come si fa, ora?

Io non so che pesci pigliare.

– Accetti il mio consiglio, parli alla signorina, veda di persuaderla.

Se poi Ella farà un buco nell'acqua, provvederò io.

– Lei, signor cavaliere?

– Sì, io. Qualcheduno ha pur da trovarla, una via per uscirne.

– Ah, signor cavaliere, Ella mi rende la vita. Provveda Lei, trovi Lei questa via benedetta.

– Ma intendiamoci, ad un patto.

– Un patto?

– Sicuramente. E vorrebbe che io mi stillassi il cervello, che io giuocassi in questo affare la dignità del governo, senza un giusto compenso?

– Si spieghi.

– La contento subito. Cominci dal rispondere ad una mia domanda. Come vede lei il matrimonio che s'era combinato?

– Ma… io lo vedo ora come prima. Dubiterebbe di me?

– Eh, se così fosse, non ci dovrebbe vedere nulla di strano. Dopo essere fuggito da Castelnuovo a quel modo, senza avvertirmi di nulla! Non mi venga fuori con le scuse; non potrei fargliele buone. Con tutta la sua debolezza di zio, Ella non poteva ignorare che io mi sarei trovato negli impicci, e che quel povero duca mi avrebbe chiesto spiegazioni. È l'unico discendente di una delle prime famiglie d'Italia, e possiamo dire di Europa, non lo dimentichi. Non si può trattare con lui come col primo venuto. Che cosa dovevo rispondergli? Come colorire la loro partenza, anzi peggio, la loro fuga? Ho fatto come potevo; ho battuta la campagna. Dio guardi se avesse saputo…

– Ah sì, dice bene; se avesse saputo!..

– Capisco che un rimedio ci sarebbe sempre stato. Non c'era lei, in compagnia della sua nepote?

– Benissimo! Infatti, che cosa le dicevo dianzi? Essendoci io, colla mia nepote, mi pare…

– Sì, ma badi, signor Prospero; queste ragioni hanno valore con una persona di spirito. Non potrebbe farle valere coi signori di Castelnuovo. A questi bisognerà sempre poter dire che la cosa non è vera. Crederanno, non crederanno, padroni. Non avranno mica da sposarla loro! E quando la sua nepote sarà duchessa di Francavilla, voglio vedere a che cosa servirà loro il sostenere che è stata in un convento di frati. Ma torniamo a noi. Ella dunque mi assicura che è sempre dello stesso parere?

– Ma sì, cavaliere, ma sì! Creda che non desidero altro.

– E la signorina? Sa nulla ancora? Ha forse manifestato un desiderio diverso?

– No, non sa nulla, e non ha manifestato nulla. Ha voluto venir qua per un capriccio, una curiosità repentina… Ella sa, signor cavaliere, quando le donne vogliono una cosa…

– E quando hanno degli zii che non sanno volerne un'altra… Ho capito, signor Prospero, ho capito. Dunque, stringiamo il discorso. Lei parli alla sua nepote e veda di persuaderla. Lo faccia; è necessario, come preliminare. Essa dirà di non voler partire? E Lei mi manderà due righe di biglietto, che un mio fidato verrà a prendere domani. Al resto penserò io, appena ricevuti i suoi pregiati caratteri. Ah signor Prospero, signor Prospero! Quante noie, per Lei!

– Abbia pazienza, signor cavaliere! —

Il cavaliere Tiraquelli non fece altre parole. Diede con un gesto dignitoso la sua assoluzione al signor Prospero, ed usci dal parlatorio, per riprendere la via di Castelnuovo Bedonia.

XII

– Che cosa pensa di fare? – andava dicendo tra sè il signor Prospero Gentili, mentre rifaceva a lento passo il sentiero dei frassini. – Se non provvede lui, a levarmi di qua, io non ci riesco di certo. Parlare all'Adelina! persuaderla? io? Fossi matto! Quella diavola lì sarebbe capace di far peggio; d'innamorarsi del padre Anacleto, come s'è già innamorata del convento dei matti, solo a sentirne discorrere. No, no, io non le parlo di nulla; scrivo a lui, come se avessi fatto il discorso, e un conseguente buco nell'acqua; anzi preparo la lettera fin d'oggi, per non avere altre noie domani. Signor cavaliere degnissimo, a Lei preme il negozio, ci pensi Lei. Questo le diranno domani i miei pregiati caratteri. —

Tra questi ed altri pensieri di tal fatta, il signor Prospero giunse al convento. L'orologio del cortile segnava le due e mezzo. Nessuno dei frati era in vista, e la cosa parve strana al signor Prospero, che li aveva lasciati quasi tutti a soleggiarsi nel cortile, quando era stato chiamato al parlatorio del ponte. Ma più strano gli parve di non trovare il suo nepote, o sua nepote, secondo vi tornerà meglio detto. S'avvicinò all'uscio della sua cella e battè ripetutamente con le nocche delle dita, ma non ebbe risposta.

Andò allora lungo il corridoio, fino all'ingresso del capitolo. Giunto colà, gli venne udito un rumore confuso di voci. Girò la maniglia per entrare, ma l'uscio era chiuso di dentro. Che novità era quella? Per qual ragione si rinchiudevano i frati, se in convento non c'erano che loro? Il padre Prospero credette che fosse stato chiuso per inavvertenza, e si provò a bussare.

Poco dopo si udì il passo di un uomo che veniva ad aprire. Il catenaccio scorse sugli anelli, l'uscio si dischiuse a metà, e comparve nel vano la faccia del padre Atanasio.

– Ah, siete voi, padre Prospero?

– Sì, son io. C'è capitolo, a quanto pare.

– C'è capitolo; – rispose il padre Atanasio con aria evidentemente impacciata, e senza dischiudere intieramente l'uscio.

– Bene; – ripigliò il padre Prospero; – eccomi dunque a prendere la mia parte.

– Scusate; – replicò quell'altro; – si tratta di gravi faccende; e voi… siete ancora novizio. —

Il padre Prospero fu colpito da quella osservazione, altrettanto giudiziosa quanto inaspettata.

– È vero, perbacco! – diss'egli. – Sono ancora novizio e non ho voce in capitolo. Vuol dire che non ci sarà neanche il mio nepote?

– S'intende; andate dunque, ed abbiate pazienza; – rispose il padre Atanasio. – Tra una mezz'ora abbiamo finito. —

E con queste parole il padre Atanasio si accomiatò, richiudendo l'uscio sul naso al padre Prospero; padre di nome, ma novizio di fatto, ad onta delle sue cinquantotto primavere.

– Non è in capitolo; – mormorò il padre Prospero, allontanandosi. – Dove diavolo sarà? —

Così dicendo, proseguì fino in fondo al corridoio, dove era l'ingresso laterale alla chiesa.

La chiesa, come sapete, era stata convertita in biblioteca. Tra la chiesa e il capitolo c'era la sagrestia. Il padre Prospero entrò dunque in biblioteca, sperando di trovare colà quel diavolo di serafino biondo, che si era reso invisibile.

In chiesa non c'era anima nata. E ciò si capiva per i frati, che erano tutti a capitolo; ma non si capiva per il monachino, che a capitolo non c'era.

– Dove diavolo sarà andato? – tornò a chiedere il padre Prospero.

La domanda di certo fu fatta a voce alta, e qualcheduno di certo udì il suono della sua voce, poichè subito dopo il padre Prospero si sentì chiamare con un sibilo sommesso ma prolungato. Il suono veniva dall'alto. E il padre Prospero, prima di credere ad una chiamata del Signore, chè in verità non si sentiva tanto in grazia da meritarla, alzò gli occhi alla ringhiera che girava tutt'intorno al cornicione, fino all'arco del presbiterio. Proprio lassù, dal vano di un uscio che metteva sul ballatoio, vide apparire la testolina bionda del serafino.

– Ah! – gridò il padre Prospero. – Finalmente! —

Ma quell'altro gli mozzò le parole in bocca, mettendosi un dito sul labbro e ripetendo il suo sibilo; indi, quasi a commento della raccomandazione, gli accennò verso l'interno.

Il padre Prospero sapeva quello che già sapete voi, cioè che di là dalla sagrestia c'era il capitolo. Lì presso c'era l'andito per dove si andava in sagrestia; ma l'uscio di questa era chiuso. Per altro, in quell'andito medesimo c'era la scala che metteva al campanile, trasformato in osservatorio, e a mezza scala si riusciva da una parte sul cornicione della chiesa, dall'altra in certe stamberghe, le quali servivano probabilmente di seccatoio agli antichi frati di San Bruno, ed erano proprio sopra alla sagrestia, al capitolo, e alle celle del primo piano.

– Ah, capisco! – disse il padre Prospero tra sè. – Vorrà sentire quel che dicono i frati, nella loro adunanza segreta. Curiosità di donna! Solamente vorrei sapere come farà ad udire i loro discorsi dal pian di sopra. —

Il padre Prospero non sapeva, e i frati di San Bruno avevano dimenticato dal canto loro, che le stamberghe del pian di sopra avevano il solaio di legno, senz'altro ostacolo di mattoni e di calce tra esse e le sale del pian terreno. Non lo sapeva neanche il serafino, prima d'allora; ma lo aveva scoperto poc'anzi. Sapete il proverbio: chi cerca trova. Il serafino aveva cercato; era giusto che trovasse.

 

Ma perchè aveva cercato? Dovete sapere, umanissimi lettori, che quella mattina frate Adelindo si era avveduto d'una cert'aria di segreto con cui si salutavano i conventuali di San Bruno, e di certe paroline che si bisbigliavano passando. Inoltre, qualcheduno di loro aveva guardato lui con aria più affettuosa e più malinconica del solito. Intorno alle occhiate, agli affetti e alle malinconie de' suoi compagni, il serafino biondo aveva un'opinione già fatta; ma quel giorno gli parve che la malinconia abbondasse. C'era dunque dell'altro? Il serafino lo sospettò, quando seppe che i frati si raccoglievano quel giorno stesso a capitolo.

– Fratello, – gli aveva detto il padre Anacleto, – perdonerete se dobbiamo lasciarvi. Abbiamo una radunanza, chiesta da quattro dei nostri compagni, per un negozio urgente, a quanto dicono essi. Voi siete novizio…

– E non ci ho da entrare, non è così? – aveva ribattuto il serafino. – È giustissimo; fate pure. —

Giustissimo! fate pure! Ma, dentro di sè, il serafino biondo non trovò niente giusto che si discutesse, e probabilmente di lui (il cuore glielo diceva), senza che egli avesse a sentirne nulla. In pari tempo, promise a sè stesso che essi non avrebbero fatto nulla senza il suo beneplacito.

Perciò, a mala pena i conventuali di San Bruno incominciarono a recarsi in capitolo, egli, destramente, girando pel corridoio, era scivolato in chiesa. Cercava un luogo donde gli venisse fatto sentire qualcosa di tutti quei misteriosi discorsi, e andava attorno, assai più grazioso in vista, ma non meno avido, del leo rugiens quaerens quem devoret, di cui parlano le Scritture.

La sala del capitolo, come già si è veduto, aveva un uscio sul corridoio e un altro sulla sagrestia, che era attigua alla chiesa. Ora, dalla parte della chiesa la sagrestia era stata chiusa, certo in previsione di quella radunanza segretissima.

Entrato nell'anditino che era tra la chiesa e quell'uscio chiuso, il serafino biondo ebbe un'idea luminosa. Già, se le idee luminose non vengono ai serafini, a chi dovranno venire? Lettori, io lo domando a voi.

In quell'andito c'era la scala che metteva al campanile. Su per quella scala il serafino biondo c'era stato, per andare all'osservatorio del padre Bonaventura. E andando lassù, aveva anche veduti a mezza salita i due usci, uno dei quali dava sul cornicione della chiesa, e l'altro nel seccatoio. Pensare a quel seccatoio e infilar la scala del campanile fu un punto solo. In quelle due o tre camere, fatte nei soppalchi del tetto, i nuovi conventuali di San Bruno avevano raccolte tutte le cose inutili del monastero, le panche della chiesa, i palii degli altari, le tele polverose e sfondate, i tozzi candelabri di legno dorato, e via discorrendo. Il solaio era di legno. Ma anche il soffitto della sagrestia e del capitolo era di legno. Dunque? Dunque il serafino biondo ascese la scala col suo passo ventenne, e due minuti dopo mise il piede leggiero e guardingo su quel solaio benedetto, che prometteva tante consolazioni alla sua curiosità.

Veramente, a tutta prima, il nostro serafino mostrò di essere poco contento di quel solaio. Il palco era a doppio tavolato e le voci dei frati giungevano troppo confuse all'orecchio. Ma dopo essersi aggirato da una parte e dall'altra, come permettevano quei mucchi di anticaglie, che ingombravano la stanza, gli venne veduto un buco, largo quanto bastava perchè potesse passarci anche il pugno d'un serafino. Quel buco, saviamente scavato in prossimità dell'angolo che facevano due travi del palco insieme calettate, riusciva quasi sul mezzo della sala del capitolo, e dava modo, non solamente di udire tutto ciò che si dicesse laggiù, ma anche di vedere otto o dieci dei ventiquattro stalli di legno intagliato, che correvano intorno alle pareti. Quanto allo stallo più eminente, che era quello del priore, si poteva vederlo in pieno.

Come era stato fatto quel buco? Si trattava dell'opera vana di un topo, il quale avesse sperato di entrare da un palco morto ad una dispensa? O dell'opera utile d'un altro novizio, a cui premesse di sapere gli arcani del capitolo di San Bruno? Il serafino biondo non istette a meditarci su; ma salutò con animo grato quella tonda apertura, e v'applicò l'occhio da prima, indi l'orecchio.

I frati, in quel mentre, andavano ai loro posti, e il serafino biondo potè vedere il padre Anacleto che si era già rannicchiato nel suo stallo dalla spalliera intarsiata e dai bracciuoli in forma di mensole rovesciate.

Il cuore gli batteva forte, al serafino biondo. Egli sentiva di fare una cosa non bella, a spiare in quel modo i segreti degli altri. Ma infine si trattava di lui, laggiù; ne aveva il presentimento, e i presentimenti ingannano di rado. Del resto, a mettere la coscienza in pace, egli aveva fatto dentro di sè questo ragionamento:

– Se parlano di me, è giusto che io sappia che cosa dicono. Se parleranno d'altro, io me ne accorgerò alle prime, e me ne andrò subito subito. —

Mentre egli poneva il suo dilemma, i frati incominciavano la loro discussione.

– Padre Restituto, – disse il priore, – voi avete fatto una proposta…

– Non io solo; – interruppe il padre Restituto; – l'hanno fatta con me il padre Agapito, il padre Costanzo, il padre Ilarione.

– È strano, – osservò il padre Anselmo, volgendosi al suo vicino di destra, che era il padre Marcellino, – è strano che questi tre aiutanti del padre Restituto siano tutti nuovi venuti.

– L'ultimo a comparir fu Gambastorta; – rispose il padre Marcellino.

Ma la sua risposta e l'osservazione del padre Anselmo, profferite a mezza voce, non giunsero all'orecchio del monachino, quantunque fosse attentissimo.

– Bene; – diceva frattanto il priore; – siate anche quattro. Esponete le vostre ragioni; i nostri fratelli le ascolteranno, e nella loro saviezza risolveranno.

– Ecco, dunque; – incominciò a dire il padre Restituto. – A voler parlar nello stile degli antichi frati di San Bruno, direi che c'è scandalo, o principio di scandalo, nella nostra comunità. Ma poichè frati all'antica non siamo, e un certo frasario va lasciato da banda, dirò pianamente, ma con uguale schiettezza, che la nostra comunità, per una certa intrusione, contraria a tutte le nostre consuetudini, anzi allo stesso principio della nostra fondazione, corre grave pericolo di andarsene a rotoli.

– La cosa è grave; – notò il padre Anacleto, – ed io nella mia qualità di priore, dovrò metterci un pronto rimedio.

– Noi lo speriamo; – osservò il padre Ilarione.

In quel mentre si udì bussare all'uscio.

– Battono, dal corridoio. Chi sarà mai? – disse il padre Atanasio.

– Il padre Prospero o il padre Adelindo; – entrò a dire il padre Marcellino.

– Padre Prospero, forse; – notò il priore; – quanto al padrino, io stesso l'ho avvertito poc'anzi che, nella sua qualità di novizio, non poteva entrare in capitolo. Lo avrei detto anche al padre Prospero, se lo avessi incontrato.

– E adesso che facciamo? – domandò il padre Atanasio.

– Andate voi, fratello, che siete più vicino all'uscio; – gli disse il priore; – ditegli che è novizio e che abbia pazienza, se lo lasciamo fuori. —

La discussione fu per pochi istanti sospesa. Il serafino biondo approfittò della interruzione, per alzarsi dalla sua incomoda postura e ricogliere il fiato. Pensava, intanto, pensava alla misteriosa proposta del padre Restituto e de' suoi bravi compagni. Misteriosa! In verità non lo era gran fatto. Quegli accenni allo scandalo, al pericolo di scioglimento della comunità, e ciò per una intrusione contraria alle consuetudini del convento, non potevano risguardare che lui, il vezzoso monachino. E quei nuovi venuti, che tenevano bordone per l'appunto al padre Restituto! Bei tipi, davvero! Il serafino ne sapeva qualche cosa. Capitati gli ultimi nella comunità, si erano mostrati i più caldi nelle tenerezze per lui.