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L'undecimo comandamento: Romanzo

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– È vero; – osservò candidamente il serafino.

E nel profferire la frase guardò involontariamente il priore. Era bello, il padre Anacleto, con la sua barba nera e lucente, i suoi grandi occhi turchini, le labbra di corallo tenero, e la pelle fine, morbida e perlata, che somigliava ad un fiore di pomo. Inoltre, parlava con un accento così dolce, e così penetrante ad un tempo! Il serafino non aveva mai osservata prima d'allora una cosa simile. E quella scoperta, e il pensiero di averla fatta, lo turbarono grandemente, senza che pure egli ne sapesse il come e il perchè.

– Dove sarà rimasto mio zio? – gridò egli ad un tratto.

E si spiccò dall'ingresso della caverna, per andare verso la china del monte.

– Vado io, se permettete; – gridò il priore, trattenendolo con un cenno della mano. – Voi siete così giovane, amico mio! Riposatevi. —

Il serafino chinò la testa e si ritrasse per lasciar passare il compagno. Nello sguardo a lui rivolto dal priore egli aveva creduto di scorgere un'aria di mezzo rimprovero, e fu quasi pentito del suo movimento involontario. Poteva anche pentirsi della piccola bugia che gli era sfuggita, anche quella involontariamente. O non lo aveva egli veduto, dov'era rimasto suo zio? Ma già, benedetti giovani, quando incominciano a confondersi!

Il padre Anacleto scendeva giù pel sentiero, e il serafino stava fermo sull'ingresso della caverna a guardarlo. Agli occhi suoi il priore non aveva più una tunica da frate, in quel punto; era un cavaliere del milletrecento e indossava il lucco fiorentino. Anche il cappuccio poteva stare, poichè era una foggia medievale comune a tutti, e monaci e cavalieri.

– Padre Anacleto! – mormorò il serafino. – Quali dispiaceri lo avranno condotto a fare questa vita solitaria? Se non avessi avuta questa sciocca paura… avrei potuto domandarglielo. Non voglio aver paura. Non l'avrò più! —

Il padre Prospero, cercato con una premura che egli era ben lungi dal sospettare possibile, stava a colloquio col padre Tranquillo, che lo aveva raggiunto da pochi momenti. Il degno uomo si era fermato e sdraiato in quel punto della salita per ricogliere il fiato, e continuava ancora in quella rumorosa occupazione, quando gli capitò dinanzi il medico della comunità di San Bruno.

– Su, su! – gli disse il padre Tranquillo. – Queste passeggiate sono il rimedio della polisarcìa.

– Speriamolo; – rispose il padre Prospero. – Ma proprio credete che sia una cosa grave?

– Grave! Secondo s'intende. Per esempio, se non pesa a voi, tutto quel carico di oleina e di stearina che portate continuamente addosso, il male non è grave di certo.

– Ah! stearina? oleina? E poichè siamo a parlare di queste materie combustibili e illuminanti, vorreste dirmi, padre Tranquillo, che cosa potrei fare per liberarmene.

– Regime di vita! regime di vita! Da che deriva la polisarcìa, infatti? Cause remote assegnate a questo incomodo dell'umanità sono: il clima freddo e umido, che qui non c'entra affatto; il temperamento linfatico, che nel caso vostro mi pare c'entri anche meno; finalmente la vita sedentaria e l'uso di cibi in quantità soverchia e troppo nutritivi. Quale di queste due ultime cause abbia avuto maggior parte nel vostro aumento di volume, fratello carissimo, io non so, perchè da troppo pochi giorni ci conosciamo e voi non mi avete fatte le vostre confidenze; ma io sospetto che tutt'e due ci abbiano lavorato. Del resto, i rimedi son molti, e tutti adatti, qualunque sia stata la causa del male. Aria sottile e montanina… eccola qui! Esercizi del corpo… eccoli qui! Cioè no, non li vedo per ora, poichè siete seduto: ma per venire fin qua, e per tornare al convento, avrete fatto un bel po' di ginnastica. Vi raccomanderei inoltre l'uso dei subacidi; non già dell'aceto, che potrebbe esser cagione di flògosi.

– Flògosi! – esclamò il padre Prospero. – Di grazia, che bestia è?

– Non fate caso; è una delle nostre parole difficili, con cui si cerca d'ingrossare un pochettino le molestie dell'infermo, e le benemerenze del medico. Dite pure infiammazione; è lo stesso che flògosi. Eravamo ai subacidi; aggiungo le acque sulfureo-saline, quelle di Seltz e di Sedlitz, e segnatamente la dieta.

– Ah, sì la dieta? Mi sembra che il cuoco di San Bruno la faccia fare anche ai magri; – osservò il padre Prospero. – Del resto, meglio così; una cura fatta in comune è più tollerabile. —

Con questi discorsi il padre Prospero teneva a bada il compagno. E sapete perchè? Per non dargli il passo alla caverna. Il padre Prospero era seduto a mezzo del sentiero, e per lasciar passare il padre Tranquillo avrebbe dovuto star su; la qual cosa gli comodava poco, anzi nulla.

In quel mezzo capitò il priore. Stretto da fronte e da tergo, il povero signor Gentili doveva fare di necessità virtù e rimettersi in piedi.

– Temevo che vi fosse intervenuto qualche guaio; – disse il padre Anacleto, arrisicando anche lui la sua piccola bugia.

– Oh no, si chiacchierava di medicina con padre Tranquillo, che è veramente un pozzo di scienza. Padre, voi siete un gran medico, e se non mi guarirete di questa pappagorgia, la colpa non sarà vostra sicuramente.

– Avanti, dunque, e del moto; – concluse il padre Tranquillo. – Andiamo a vedere questa caverna.

– È stupenda; – disse il priore.

Anch'egli aveva fretta di giungere, e certo nel lodevole intento di dar principio agli scavi. Anche gli altri compagni, tracciato alla meglio il sentiero, incominciavano a venire sulle orme dei primi.

Giunta la comitiva ad una svolta del sentiero d'onde si vedeva l'apertura della roccia che formava l'ingresso della caverna, si parò davanti agli occhi dei nostri viaggiatori la bella figura del serafino, che era rimasto là, accanto al masso, nella postura in cui lo aveva lasciato il padre Anacleto.

– Miracolo! – gridò il padre Atanasio. – Un'apparizione!

– San Bruno adolescente! – soggiunse il padre Ottaviano.

– Dite piuttosto santa Teresa, o qualche altra santa claustrale; – entrò a dire il padre Marcellino.

Quel paragone femmineo, del resto naturalissimo per chiunque avesse veduto in quel punto il fraticello solitario, ritto in piedi sull'ingresso della caverna, turbò fortemente il padre Prospero, che temeva sempre di vedere scoperto il segreto della signorina Adele Ruzzani, sua bella e capricciosa nepote.

– Sì, infatti… – balbettò egli. – Il mio nepote ha una faccia che sembra piuttosto una ragazza. Beato lui, che conserva la sua gioventù!

– Rimpiangereste forse la vostra? – domandò il priore. – Essa non vi servirebbe a nulla, nel chiostro di San Bruno.

– Eh, dopo tutto, – rispose il padre Prospero, – ed anche a non servirsene affatto, mi pare che la gioventù… Ditelo voi, padre Tranquillo, che sapete tante cose. La gioventù è proprio così inutile, come mostra di credere il nostro degno priore?

– La gioventù, – disse il padre Tranquillo, – è uno degli elementi della salute. Direi quasi che è il solo. Almeno, – soggiunse, temperando la frase, – si potrebbe sostenerlo con qualche apparenza di verità. Infatti, tutto ciò che noi facciamo per la nostra salute, quando la gioventù se n'è andata, non è che un seguito di palliativi, più o meno felici, per dissimulare la mancanza di un elemento essenziale. —

Ne parlavano con molta tranquillità, di palliativi e di salute, essendo tutti così giovani, che il più vecchio di loro passava a mala pena i quaranta. Ed era strano il vederli, anche più strano del vedere quel biondo serafino in abito di frate; era strano, dico, di vedere tanti uomini, giovani ancora, e già stanchi delle tempeste della vita; stanchi delle tempeste, e così felici, così allegri nella piccola compagnia di naufraghi che erano riusciti a formarsi entro una piega dell'Appennino. Il contrasto tra il grande e il piccolo mondo, tra la società naturale e l'artificiale, non poteva essere più spiccato di così. E il vantaggio restava alla società artificiale, per la semplicissima ragione che la naturale si è fatta da sè, laddove l'artificiale ce la foggiamo da per noi, e ci prendiamo gusto fino a tanto che dura.

Ma in fin de' conti, o non è la medesima cosa nel gran mondo? L'umanità vive, con tutti i suoi dirizzoni e con tutte le sue tirannie; noi in quella vece passiamo. Guastarci il sangue, che giova? O non è forse meglio lasciar correre tutto ciò che vuol correre, e lasciar stare tutto ciò che vuol stare? A voler fare diverso, non si cava un ragno da un buco. Lasciate pure che gridino contro l'egoismo del piccolo mondo, e contro la stravaganza delle società artificiali. Al diritto della tirannia si contrappone il diritto della resistenza; e sono naturali ambedue.

Vi siete già accorti, o lettori, che io cedo un pochettino all'influsso dell'ambiente. Sto coi frati e zappo l'orto.

X

Il monachino biondo era assai lungi dallo immaginarsi d'aver fatto quella grande impressione sull'animo de' suoi compagni. La bellezza è sempre consapevole, non lo nego; ma una donna che si traveste da uomo sa anche di perdere il cinquanta per cento delle sue attrattive. E frate Adelindo non badava punto a quegl'impeti spontanei d'ammirazione che la sua faccia di serafino destava tra i riformati di San Bruno, come essi burlescamente si chiamavano qualche volta. Confidava, nella sua giovanile audacia, di non essere scoperto, e godeva la novità di quella vita, senza sapere come sarebbe andata a finire.

Ma proprio senza saperlo? S'ha a credere che il biondo monachino non avesse uno scopo? No, lettori, non lo credete. Ma, per intanto, venite con me. La miglior maniera per averne l'intiero, è quella di far procedere il racconto.

Entrati sotto l'atrio della caverna, i conventuali di San Bruno ammirarono quel saggio architettonico di madre natura e tutte le fioriture ond'era stato adornato dall'incomparabile artista. Poscia, come i visitatori d'una casa che vogliono veder tutto fin da principio, andarono ad esplorare i tenebrosi recessi del luogo. La caverna si estendeva un mezzo miglio nelle viscere del monte, ora restringendosi, ora allargandosi da capo, ma tutta d'un filo, come una grande spaccatura interna del monte. La causa di quella spaccatura? Forse era da vederci l'ultimo sfiatatoio rimasto al vulcano che aveva sollevato dal fondo dei mari antichissimi quello strato calcareo; forse era effetto più modesto e più lento di una erosione delle acque. Io non mi ci confondo, e lascio la soluzione del problema agli studi del padre Anacleto.

 

Qua e là i nostri esploratori si abbattevano in fantastiche vedute, che sarebbero state una vera fortuna per l'albo di frate Adelindo, se il nostro serafino pittore ci avesse avuto là dentro un raggio di sole, scambio del lume incerto d'una torcia di resina. La via in qualche punto risaliva, stretta fra due ordini di stalagmiti, che si addensavano le une sulle altre come i colonnini d'un chiostro; altrove si arrotondava la vôlta in cupolette alabastrine, o si allungava in peducci e festoni, campati in aria che era una vaghezza a vederli. Frequentissime occorrevano lungo le scabre pareti le pile dell'acqua benedetta, esempi illustrativi dell'antico adagio: gutta cavat lapidem. Ma la meraviglia più grande fu una specie di cattedra, formata su d'un rialzo dello scoglio dal largo tondeggiamento di una grossa stalagmite, e incoronata in alto da un mezzo cerchio di stalattiti, che raffiguravano un baldacchino. Il fraticello biondo, gettato uno de' suoi soliti gridi d'ammirazione ingenua, era corso a piantarsi su quella cattedra, restando là in piedi, elegante a vedersi come un santo di Donatello nella sua nicchia di marmo. E il padre Ottaviano aveva subito proposto di chiamare quel punto della caverna "il pergamo di frate Adelindo". Gli altri avevano approvato; il serafino si era fatto rosso come una fravola, e si era affrettato a saltare da quel tronco di colonna, per timore che a qualcheduno, nel lodevole intento di agevolargli la calata, venisse il ticchio di andarlo a pigliare di peso.

La ricreazione era finita e incominciava il lavoro. Vi ho già detto che il padre Anacleto era andato nella caverna delle Streghe per trovare qualche saggio d'archeologia preistorica, dei cocci, delle armi di selce, delle ossa lavorate e via discorrendo. La caverna doveva essere stata abitata, come tutte le altre degli Appennini, nei tempi in cui l'uomo non aveva ancora imparato l'arte di fabbricarsi una casa di pietra, e le capanne non offrivano bastante riparo contro le fiere dei boschi, o contro gli assalti delle vicine tribù. Le tracce dell'uomo preistorico erano evidenti anche nella caverna delle Streghe. A quell'altezza dal suolo coltivabile, in una cavità rocciosa come quella, lo strato di terriccio appariva profondo, e certamente non ci si era formato da sè, per l'azione dell'acqua sulla pietra, poichè questa era troppo salda, e quella filtrava in così poca quantità, da bastare appena al sostentamento delle felci che tappezzavano alcune parti della vôlta.

Restava un dubbio. La caverna aveva servito come abitazione, o solamente come luogo di sepoltura? Quei poveri rappresentanti della specie umana, nei primi tempi dell'epoca quaternaria, solevano vivere nelle caverne donde avevano cacciate le fiere; ma in alcune di esse, meno accessibili, o più lontane dai luoghi donde traevano il sostentamento, usavano compiere i riti funebri, dopo averci sepolti i loro trapassati. Spesso, o perchè i luoghi di rifugio fossero scarsi, o scarsa la reverenza delle tombe, una medesima caverna era abitazione e sepolcreto ad un tempo, ed il focolare destinato al banchetto funebre era lo stesso focolare domestico, che seguitava a dar fiamma sulla fossa del morto.

Il padre Anacleto si proponeva di chiarire più tardi a quale dei due generi appartenesse la caverna delle Streghe. Prima di tutto importava di rinvenire le traccie dell'uomo, di qualunque natura si fossero. E il nostro esploratore, dato uno sguardo in giro, per argomentare dalla curva delle pareti da qual lato fosse la maggior profondità del terreno, deliberò d'incominciare gli scavi poco lontano dal mezzo dell'atrio, e verso l'interno della montagna. Frattanto, nell'angolo più lontano, sotto la direzione di fratello Giocondo, e con l'assistenza del padre Prospero, s'impiantava un focolare posticcio, per riscaldare le conserve alimentari che doveano servire alla colazione.

I primi colpi di vanga furono dati alla svelta e con molta confidenza. Ma come fu scotennato il terreno, l'opera procedette a mano a mano più riguardosa, volendo il padre Anacleto por mente a tutti gli avanzi che si sarebbero rinvenuti, e sopratutto riscontrare nel taglio verticale del terreno la successione degli strati, certamente riconoscibili alla diversità di colore e di composizione, corrispondenti qualche volta ad età d'uomini, ma più spesso a gradi e a ricorsi di civiltà, presso quelle povere genti che in Italia precedettero l'arrivo e la diffusione della schiatta pelasgica.

Infatti, nei primi strati, s'incominciarono a trovare rottami di stoviglie, il cui colore rosso carico significava una diligente cottura, e le sagome tondeggianti, e qualche traccia d'ornato lineare, accennavano un certo grado di perfezione a cui era giunta l'industria figulina. E questo poteva denotare che gli abitanti della caverna, ancora mezzo selvaggi, erano in relazione con gente più civile, o abitante al piano, o venuta pur dianzi da lontano paese, presso cui le arti più utili alla vita erano già bastantemente avanzate. Proseguendo gli scavi, i cocci apparivano di forma più rozza, e di meno diligente cottura, fino al segno di parere a mala pena riscaldati al fuoco; indizio evidentissimo d'una industria casalinga, che non conosceva commerci, nè intendeva nulla di perfezionamento nell'arte. Quanto alle ossa lavorate e alle armi di selce, non se ne vedeva pur l'ombra. Cosa naturalissima, fintanto che non si scoprisse una tomba. Infatti, le armi di pietra e le ossa ridotte ad uso domestico, essendo allora preziosissime per la difficoltà del loro adattamento, erano più rare, ed era già molto che se ne mettesse un saggio accanto ai cadaveri, quasi a non privare i morti di ciò che avevano avuto di più caro e di più utile in vita.

Il padre Anacleto spiegava ad alta voce tutte queste belle cose, mentre dava occhio al proseguimento dell'opera. Gli strati del terreno si succedevano con varia vicenda di chiaro e di scuro. Tutto ad un tratto, le vanghe diedero un suono sordo, come di cosa asciutta e consistente che si sfaldi. E venne fuori una sostanza grigia, lamellare, in cui si riconobbe tosto uno strato di ceneri.

Qui per l'appunto cascava il dubbio. Erano quelle ceneri un avanzo di banchetto funebre, o indizi d'un focolare domestico? Il padre Anacleto, interrogato dal serafino biondo, che prendeva tanto diletto in quella esplorazione quanto suo zio ne prendeva negli apparecchi della colazione, mostrò di credere al banchetto funebre, anzichè al focolare domestico. E ne disse anche le ragioni; verbigrazia la postura del deposito, che non corrispondeva alla naturale collocazione d'un focolare. La caverna essendo abitata da una famiglia, o da un aggregato di famiglie consanguinee sotto l'autorità d'un capo, non era da credersi che il focolare fosse posto quasi nel mezzo, per dar noia a tutti; laddove la presenza delle ceneri, intesa come avanzo d'un banchetto funebre, si spiegava benissimo colà, portando la consuetudine che il fuoco si accendesse sulla tomba del congiunto, a cui si facevano i funerali.

Accanto a quell'ammasso di cenere si scopersero altri cocci ed ossa di animali domestici, ma rotte irregolarmente, e qua e là intaccate da solchi poco profondi. I banchettanti ci avevano di sicuro lavorato attorno coi denti.

L'attenzione degli esploratori andava a mano a mano crescendo. Ma essa arrivò al colmo, quando, a forse un metro e mezzo di profondità, le vanghe diedero un suono metallico, scoprendo la grigia e scabra superficie di una falda di sasso.

Il priore non volle che il lastrone fosse subito alzato; ma fece scavare torno torno il terreno ed allargare la buca. Mercè questa operazione, fu posto in chiaro che quel lastrone orizzontale posava su altri quattro, verticalmente piantati.

Un silenzio religioso regnava nella caverna. Qualche cosa di sepolto cinque o diecimil'anni addietro stava per ritornare alla luce.

– A voi, fratello Adelindo, – disse il priore, – copiate questa forma di sepoltura, prima che sia scoperchiata. —

Il serafino biondo mise mano al suo albo e segnò con pochi tratti sulla carta il fondo della buca, sul cui orlo si era seduto. Com'ebbe date le ultime ombreggiature al disegno, si tirò da banda e fu rimosso il lastrone.

Apparve prima di tutto… Cioè, diciamo le cose come stanno, non apparve niente; che non poteva dirsi qualche cosa, almeno per gli occhi, il terriccio nerastro di cui era piena la buca. Ma rimuovendolo con garbo, incominciarono a presentarsi al tatto, quindi alla vista, alcuni frammenti d'ossa, in cui, e per la forma loro, e per la collocazione che avevano, il padre Anacleto ravvisò le coste di uno scheletro umano. Mescolati a questo si rinvennero parecchi ossicini di forma irregolare e di grandezze diverse, che potevano appartenere al carpo e al metacarpo delle mani. Così era difatti, e si trovarono anche le falangi delle dita; segno che il cadavere era stato composto là dentro con le mani incrociate sul petto. Proseguendo l'opera con ogni diligenza maggiore, per non iscompigliare la disposizione anatomica delle parti, si scopersero i radii e gli omeri, indi il teschio, e via via tutte le membra in quella postura di persona raggomitolata, a cui era stato costretto il cadavere, per farlo capire in quella piccola buca.

Il serafino biondo aveva ripigliato il suo albo. E quegli avanzi d'un corpo raccolto nel sonno eterno furono ritratti dalla matita sulla carta; dopo di che, pezzo per pezzo, lo scheletro fu levato dalla fossa e collocato in un canestro. Il teschio era benissimo conservato, e la bianchezza e la porosità del tessuto osseo facevano fede di molta antichità, non meno che della asciuttezza del suolo. Del resto, la sua superficie allappava la lingua; cioè a dire vi lasciava quella impressione, accompagnata da un cotale asciugamento, che fanno sulle labbra, e sul palato, certe sostanze acerbe od amare. Voi qui, lettori umanissimi, farete le maraviglie, ed anche qualche gesto di orrore, pensando che se quelle ossa allappavano la lingua, bisogna dire che qualche lingua ci si fosse accostata. Ma che volete farci? I dotti son fabbricati così, e non c'è verso di mutarli. Sanno che quel gusto d'asciutto ed acerbo nella superficie delle ossa è indizio d'antichità, e l'accertamento d'un fatto così importante val pure un piccolo sacrifizio. Del resto, o non avete mai veduto nei quadri santa Maria Maddalena al deserto? Anche lei bacia un teschio, e senza averci la scusa nell'amore della scienza. Pure, nessuno di voi inorridisce, vedendo una cosa simile. Non inorridite dunque, vi prego, se vedete il padre Anacleto accostare la lingua all'osso frontale, o al parietale d'un povero sepolto di cinquanta o cento secoli fa.

E tiriamo innanzi. Le suture del cranio, molto visibili nella loro indentatura, indicavano una persona giovane; l'altezza mediocre dello scheletro e la forma del pelvi lasciavano argomentare che fosse lo scheletro d'una donna. I denti erano piccoli, bianchi perlati, e lo smalto era integro; fatto maraviglioso, quantunque abbastanza comune in simili scoperte. Accanto al teschio, e proprio all'altezza dell'orecchio, era una piccola coppa d'argilla nera, in cui si rinvenne una sostanza grumosa e rossiccia. Era la terra d'ocra, di cui gli antichissimi nostri progenitori, non dissimilmente dai moderni selvaggi d'America, usavano tingersi le membra. Un'altra particolarità indicava che quello scheletro apparteneva ad una donna, ed era la mancanza d'armi nel sepolcro, mentre c'erano in quella vece parecchi aghi e punteruoli d'osso di cervo, quelli riconoscibili dalla cruna, questi dal capo tondeggiante. Una cinquantina di conchiglie bucate, che si raccolsero nel terriccio a poca distanza dalle prime vertebre, dimostrava che la donna era stata sepolta con la sua collana, e che essa era certamente di condizione non povera, poichè aveva un monile di quella fatta, composto di tal materia che doveva esser cavata da luogo lontano. Rammentate infatti che la caverna era sull'Appennino, e distante parecchie giornate dal mare.

Tutti quegli avanzi, raccolti con diligenza dal fondo della buca, erano a mano a mano deposti in un canestro. Il padre Anacleto ci vedeva il principio d'un museo preistorico di San Bruno. La caverna delle Streghe, vasta com'era, poteva dar tesori alla scienza; verbigrazia una cinquantina di scheletri, che, tenuti ritti con acconcie legature di fil di ferro, e disposti in bell'ordine, con tutti gli utensili, armi, amuleti ed ornamenti rinvenuti nelle tombe, avrebbero raccontata una bella pagina di storia delle prime genti italiche, e dati gli elementi ad ingegnose induzioni. Sarebbe riuscito in verità un museo da attirare molti curiosi al monastero di San Bruno. Ma, come sapete, quei bizzarri conventuali non gradivano le visite del prossimo, e la loro scienza amavano tenersela tutta per sè.

 

Frattanto, il monachino biondo avrebbe ricavati i disegni di tutta quella ricca collezione scientifica. Udendo i discorsi del padre Anacleto, egli si rallegrava in cuor suo di possedere quel piccolo talento del disegno, un talento che non faceva chiasso, ma che per contro era altrettanto più utile, e che tramutava lui, adolescente accettato per grazia al convento, in un personaggio necessario.

Bisognava vederlo, il nostro serafino, seduto sulla proda del fosso col suo ginocchio piegato, l'albo sul ginocchio e la matita in aria. Il soggetto dei suoi disegni era malinconico. Per la prima volta in sua vita, Adelindo Ruzzani adoperava la matita a copiare gli scheletri. Ma che cosa non si farebbe per l'amore della scienza?

E i frati gli erano tutti intorno, un po' per vedere i suoi tratti di matita, un po' per contemplare quel grazioso profilo di monachino, che somigliava tanto a quello d'una bella ragazza. – Bene, bravo, stupendo! – erano le parole con cui essi incoraggiavano il pittore. Metto pegno che Raffaello d'Urbino non ebbe tante lodi dai personaggi che andavano nel suo studio, a vederlo lavorare. Ma sono anche disposto ad ammettere che Raffaello ne avrebbe avuto altrettante, se, scambio di esser lui, fosse stato, ad esempio… la Fornarina.