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L'undecimo comandamento: Romanzo

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VIII

Abbiamo lasciato i nostri novizi al convento di San Bruno; andiamo a ripigliarli nelle loro celle. Ma non per condurli via, intendiamoci. Cotesto metterebbe conto al sottoprefetto di Castelnuovo, ma troncherebbe il filo del nostro racconto.

Frate Adelindo era rimasto un pochettino sconcertato, vedendo che la sua cella era separata da quella di frate Prospero, suo ottimo zio e compagno di clausura. Senza formarsi un giusto concetto del suo nuovo stato, il vezzoso fraticello aveva fatto assegnamento su d'un quartierino per due, e non si era appunto preparato all'idea di restar solo in un ritiro di due camerette, come un antico Camaldolese. Ma infine, ci voleva pazienza. Frate Adelindo voleva esser uomo, e con la pazienza tirò anche dentro il coraggio. L'uscio, del resto, era di quercia, salde le sbarre, e una persona sprangata là dentro poteva dormire tranquilla, specie in un luogo di pace, dov'erano tutti fratelli.

Padre Prospero batteva le labbra e tentennava la testa. Quella impresa seguitava a piacergli poco. E non gli piacevano punto punto le guardate curiose di fratel Giocondo, spartite in giuste proporzioni tra lui e frate Adelindo, ancora così poco frate all'aspetto, e così poco uomo per giunta.

A farlo parere più uomo non poteva certamente contribuire la buona volontà di suo zio. A farlo parere più frate doveva bastare una corsa di fratel Giocondo in sartoria. Si erano preparate le tonache pei cinque che si aspettavano in settimana; due potevano essere distratte da quella loro destinazione, per servire ai primi venuti. E fratel Giocondo, mentre s'incamminava alla sartoria, andava borbottando tra sè: – Quel giovinotto! Ma è troppo giovane! Pare una fanciulla. —

Lungo i corridoi, il nostro frate converso s'imbattè nel padre Bonaventura.

– Or bene, fratel Giocondo; – disse l'astronomo di San Bruno; – che novità abbiamo? Son venuti i cinque?

– No, padre; sono invece capitati i due, che non appartengono ai cinque.

– Due nuovi, dunque?

– Nuovi di zecca. Uno, anzi, mi pare fin troppo nuovo, e non capisco come il priore lo abbia ammesso.

– Fratel Giocondo, non discutiamo l'autorità del priore.

– Oh, non è per discutere. Dico che non capisco. Ma già, io non ho da capire. Fo il portinaio, io, il cantiniere, il fattorino, e il cerimoniere a tempo avanzato.

– Questo cumulo di occupazioni servirà a tenervi in esercizio; – disse il padre Bonaventura ridendo. – Ingrassate troppo, fratel Giocondo!

– I dispiaceri, padre, i dispiaceri! —

E fratel Giocondo se ne andò alla sartoria, per prendere le due tonache.

La voce dell'arrivo dei due ospiti nuovi si sparse subito per tutto il convento. Quel giorno, al refettorio, ci doveva essere un gran movimento di curiosità. I frati del nuovo ordine di San Bruno vivevano bensì fuori del mondo; ma un piccolo resto della vita passata non poteva non esserci negli animi loro, come non può non esserci in fondo al bicchiere quell'ombra di rosso che è indizio del vino da poco tempo bevuto. E poi, non si è mica detto che quei bravi eremiti rinunziassero ad ogni consuetudine della vita. Si erano formato il loro piccolo mondo, ma il piccolo mondo non esclude un movimento di curiosità; specie quando questa curiosità risguarda le persone che vengono a far vita con noi.

Alle cinque del pomeriggio la campana del convento suonò l'appello al refettorio. Tosto sbucarono i frati dalle loro celle, con una prontezza e con una simultaneità, che facevano credere aver essi aspettato quel momento con la mano sul saliscendi. C'erano tutti, presenti; il padre Anacleto, priore, e i padri Anselmo, Bonaventura, Natale, Restituto, Ottaviano. E tutti, andando lungo le arcate del portico, mandavano la loro sbirciatina agli usci delle due celle, da cui dovevano escire i nuovi ospiti del convento di San Bruno.

Uno di quegli usci si aperse, e ne balzò fuori un coso tondo, un cor contento in tonaca da frate. Era il signor Prospero. Alcuni secondi dopo si aperse l'altro e ne usci un bel padrino, su cui si posarono gli sguardi curiosi di tutta la famiglia fratesca. Dio santo, che figura d'angelo fatto frate! Angeli, arcangeli, serafini, cherubini, troni, dominazioni, virtù, potenze, principati, ditelo voi, a quale dei vostri cori e delle vostre gerarchie appartenesse quel gentile padrino biondo, con que' labbruzzi vermigli, quelle guance rosse e quegli occhietti ladri. In verità, io vi dico, se non fosse stato per quegli occhi, il padrino sarebbe stato preso per una monachina. Lo avrebbero forse lasciato supporre le guance che si tingevano del "color di fiamma viva"; ma il padrino, sicuramente, si era fatto forza, si era armato di coraggio, aveva alzato que' suoi occhietti pieni di malizia, aperte le labbra ad un sorriso arguto; ed ogni sospetto era svanito.

– Così giovane e venire a rinchiudersi qui dentro! – esclamarono i padri, raccolti in osservazione davanti all'uscio del refettorio.

Il priore udì quelle parole, che potevano essere anche un mezzo rimprovero alla sua condiscendenza soverchia. E, per farla finita con ogni mormorazione, così prese a parlare, indicando i nuovi venuti:

– Fratelli, vi presento due ospiti, due compagni, il padre Prospero e il padre Adelindo. È forse un po' troppo giovane, quest'ultimo, ed io non ho lasciato di osservarglielo. Ma egli a nessun patto vuole restar diviso da suo zio, e fa nobilmente sue le tristi cagioni che allontanano il padre Prospero dalle vanità e dalle afflizioni del mondo. —

Bisognava vedere in quel momento la faccia contenta del signor Prospero Gentili. Ma andiamo avanti, senza descrivere quello che ognuno di voi può figurarsi facilmente in cuor suo.

– Non mi sono tuttavia intieramente arreso alla sua insistenza; – continuò il padre Anacleto. – Dubitando della vocazione sua, che non può essere accertata finora, come fu accertata quella di tutti noi, l'ho accolto solamente come novizio; e come novizio, per conseguenza, ho accettato suo zio, non volendo separare con una troppo sollecita disparità di promesse due congiunti di sangue. Ho fatto una cosa nuova, non conforme alle nostre consuetudini, interpretando il principio che, dove la legge tace, s'intende libera l'azione.

– In dubiis libertas; – osservò il padre Bonaventura.

– Grazie, et in omnibus charitas; – ripigliò il padre Anacleto. – Io spero adunque che voi, miei cari fratelli in solitudine, non disapproverete questa novità, badando alle intenzioni che l'hanno dettata.

Il padrino guardò in viso i suoi giudici, e comprese che nessuno avrebbe detto di no.

– Savio consiglio; – mormorò il padre Atanasio.

– Come tutto ciò che esce dalla mente del nostro degno priore; – aggiunse il padre Restituto.

– Sia dunque così, col volere di Dio; – replicò il padre Anacleto, non aspettando più altri segni di approvazione. – E adesso, miei fratelli, andiamo a vedere come ci tratta il cuoco. Vi avverto, – soggiunse, rivolgendosi ai due novizi, – che qui si mangia male.

– E si beve peggio; – borbottò fratel Giocondo, che chiudeva la marcia.

Il padre Prospero credette obbligo suo di rispondere che egli e il suo nepote si sarebbero acconciati volentieri a tutto, pur di essere ammessi a vivere nella comunità di San Bruno. Povero signor Prospero! Ci aveva sempre addosso gli occhi del padrino biondo, che quando voleva una cosa, non c'era più verso di resistergli. Infine non si trattava più di andare al polo Artico, nè alle sorgenti del Nilo. E poi, con l'aiuto di Dio, quella pazzia del chiostro non sarebbe mica durata eternamente! Il padre Anacleto si era dimostrato veramente un buon diavolo, non accettandoli che in qualità di novizi. Ottimo padre Anacleto! Il meno che si potesse fare con lui, era di rispondergli a tono.

– Che? Anzi! Più sarà frugale il pasto, meglio sarà per la mia salute; – rispose il signor Prospero. – Ingrassavo troppo, quantunque senza mia colpa.

– Del moto, fratello, del moto! – raccomandò uno dei frati, che si trovava vicino al signor Prospero. – Bisogna combattere in tempo la polisarcia.

– Poli… – balbettò il signor Prospero, inchinandosi al suo nuovo interlocutore.

– …sarcìa; – riprese quell'altro, che era il medico della comunità. – È un composto di due vocaboli greci, polis e sarcos, e significa abbondanza di carne. Questo non sarebbe, a dir vero, un gran male; ma la parola si usa impropriamente a significare un eccesso di pinguedine, il che si esprimerebbe meglio con la parola polipionìa, ugualmente greca, pion volendo per l'appunto dir pingue.

– Vedete mo' che diavoli ci ho in corpo! – mormorò il signor Prospero. – Polisarcia! Polipionìa! Grazie tante, padre… Il suo nome, se è lecito!

– Tranquillo, per servirla. È il nome che ho scelto, entrando qua. E lo sono davvero, poichè inveni portum; e posso aggiungere col poeta: spes et fortuna valete; sat me lusistis, ludite nunc alios. —

Il signor Prospero amò meglio restare nella sua ignoranza, che domandare la traduzione del distico.

– Son cascato bene; – diss'egli tra sè. – Son tutti sapienti, qui dentro; ci hanno il greco e il latino sulla punta delle dita. Uno è astronomo, l'altro è chimico; un terzo archeologo; un quarto meccanico… Ma che Iddio mi benedica, o non sono agronomo, io? Un agronomo… agrodolce, per verità! Mi ha fatto tale il sottoprefetto di Castelnuovo. E la mia nepote mi fa frate. Si fermeranno qui l'uno e l'altra? —

Facendo queste riflessioni, il signor Prospero (anzi, diciamo a dirittura padre Prospero, per metterlo alla pari con tutti i suoi colleghi) si trovò seduto a tavola, fra il padre Tranquillo, medico, e il padre Marcellino, filosofo. Il suo nepote, o fosse caso, o fosse elezione, si trovò dall'altra parte della tavola, accanto al priore, con cui si era accompagnato, entrando in refettorio.

La sala era vasta, e lo appariva due cotanti di più, perchè bianca ed ignuda. I nuovi frati di San Bruno non avevano fatto nessuna spesa colà, non si erano incaricati di abbellire quella parte della loro abitazione. Avevano perfino lasciato in piedi un certo pulpito di fabbrica, destinato alla lettura durante il pasto. Per fortuna, lassù non si leggeva più nulla, non avendo la nuova regola di San Bruno reputato necessario di aggravare un cattivo pranzo con una uggiosa lettura. Gli antichi Camaldolesi andavano a prendere il loro nutrimento in quel refettorio una volta alla settimana; tutti gli altri giorni desinavano nelle loro celle, e la broda disciplinare passava da quelle ruote che ho detto. Poi, bevevano l'acqua in certe ciotole di terra cotta, che accostavano alla bocca, sostenendole con tutt'e due le palme. Un modo di bere piuttosto incomodo; ma era di rito. E i riformati di San Bruno, per accostarsi in qualche modo alle vecchie costumanze, avevano aboliti i bicchieri, attenendosi a certe ciotole di maiolica, che non avevano neanche il pregio di escire dalle fabbriche del Ginori.

 

Non l'abbiate per una ragazzata, vi prego. Il padre Anacleto, interrogato su quella stranezza apparente, avrebbe potuto darvene una ragione plausibilissima. Ciò che fa amar molto la tavola è la tovaglia, lo sfoggio del vasellame, lo scintillìo dei cristalli. Una mezza batteria di bicchieri a calice, sfaccettati, smerigliati, lucidi, opachi, quando spessi come il diamante, quando sottili come la mussolina, fanno bere tre volte più di quello che porterebbe il vostro bisogno. Provate in quella vece a bere il Reno o il Borgogna in una ciotola di terra cotta, rozzamente inverniciata. Quel vino vi parrà una povera cosa; manderete giù quel che vi occorre, non un centellino di più. Per contro, il vino cattivo vi parrà semplicemente mediocre, ed anche di quello berrete come e quanto mangiate, cioè a dire tutto quello che occorre per le ineluttabili necessità della vita.

Ammiriamo i riformati di San Bruno e lasciamo gridare i gaudenti. Anche la tavola è tra i piaceri e le vanità del mondo che lasciano tormento ed afflizione di spirito. Il pensatore è sobrio; il lavoratore non potrà sempre esser sobrio, ma non avrà mai vizi di gola.

Frate Adelindo, seduto alla destra del priore, era l'argomento della curiosità universale. Si voleva non averne l'aria, ma gli occhi correvano di tanto in tanto dal piatto a quella bionda testina, a quel collo di cigno che sbucava dall'orlo della cocolla color di tabacco.

– È molto giovane, il vostro nepote; – disse il padre Tranquillo all'orecchio del padre Prospero. – Non si adatterà alla nostra vita rinchiusa.

– Perchè? – disse di rimando il padre Prospero, che sentiva la necessità di nascondere il suo giuoco. – Sono appunto i giovani che possono adattarsi a certi sacrifizi. Ai panni vecchi non è facile far perdere le pieghe.

– Questo è vero per molti; – replicò il padre Tranquillo; – ma poichè qui ci si viene in forza di una vera e profonda vocazione, bisogna ammettere che la nuova piega sia già fatta prima d'entrare.

– Ah sì, la vocazione! – mormorò il padre Prospero. – Una gran cosa, la vocazione. Scusate, padre, la mia indiscretezza. Qual è stata la vostra vocazione?

– Seccato; – rispose il padre Tranquillo; – seccato del mondo; seccato in un modo da non dirsi. Facevo il medico, per utile del mio simile. Ed io avrò fatto male a lui; ma egli di certo ha fatto male a me. L'ho abbandonato come vedete, e me ne trovo bene. Auguro a lui altrettanto. Già, fratello mio, che serve il nasconderlo? Neanche la scienza medica può pretendere all'infallibilità. Richiede atti di fede continui; è teologia, o poco ci manca. Una cosa è certa, che la natura ha rimedi efficaci, e forze vive nell'organismo per farli operare. Noi, studiosi dell'arte salutare, non possiamo vantarci che di un po' d'accortezza nell'accomodare certi rimedi ai bisogni dell'uomo. Audacia somma nell'esperimento, audacia immensa nella dichiarazione della malattia, audacia infinita nell'attribuire alla natura gli errori dell'arte nostra e all'arte nostra i benefizi della natura; eccovi, padre Prospero, la medicina, da Ippocrate fino a Boerhaave, e da Boerhaave fino a me. Dico a me, per non far torto a nessuno; – soggiunse il padre Tranquillo, ridendo. – Empirismo che qualche volta riesce; dottrina che qualche volta azzecca giusto; dissidio quasi sempre tra la teorica e la pratica; questa è la scienza nostra. Seccato, vi dico io, padre Prospero, seccato dell'arte, seccato del mondo, seccato del resto. —

Evidentemente il padre Tranquillo non diceva tutto. Anzi, pensandoci bene, era facile di scorgere che non aveva detto nulla. Ma è questa l'arte degli uomini bene educati, che vogliono nascondere il loro pensiero, aver l'aria di prendervi a confidente e di spiattellarvi ogni cosa. Il padre Prospero fu grato di quelle confidenze al suo vicino di tavola, e gli giurò lì per lì un'amicizia eterna.

– Che bravo giovinotto! – diceva egli tra sè. – Col suo ingegno, poteva diventare un altro Galeno. Ed eccolo qua, invece, tra i giubilati, contento di averne cavato i piedi, come un altro lo sarebbe di averceli messi. In verità, non ho torto io a dolermi di essere uscito dalla via degli onori? —

Leggiadro collare della Corona d'Italia, tu danzavi sempre, immagine cara, davanti agli occhi del signor Prospero Gentili.

Di tanto in tanto quegli occhi si volgevano con paterna sollecitudine a quel biondo novizio che sedeva a fianco del priore, sostenendo abbastanza bene la sua parte di fraticello. Non arrossiva più, il serafino; continuava in quella vece a parlar poco, e quel poco con un suo accento particolare, come se le parole gli si formassero in gola, anzi che nella classica chiostra dei denti.

Nessuno, tranne il padre Prospero, doveva capire che quel vezzoso padrino si studiava d'ingrossare la voce, nel lodevole intento di parere tutt'altro da quel ch'egli era veramente. Riusciva egli nel suo tentativo? Non so. Forse ne dubitiamo noi, che siamo nel segreto, non potendo immaginare che altri non lo indovini alla prima. Comunque fosse, quello sforzo del leggiadro novizio dava al suo discorso una certa velatura di suoni gutturali, che non dispiaceva punto, anzi poteva parere una grazia di più.

– Gran diavola! – esclamava mentalmente il padre Prospero. – Che cosa si ripromette da questa sua impresa arrischiata? Spero bene che fra cinque o sei giorni si annoierà, e noi torneremo a Castelnuovo. —

Il pranzo finì e la comitiva andò a fare il chilo sotto una loggia che guardava la campagna. Il sole era già tramontato, e le ombre del crepuscolo incominciavano a salire dal burrone, nel cui fondo romoreggiavano le acque del torrente. I profili delle colline s'infoscavano sul primo piano del quadro; più lungi si tingevano di violetto e d'azzurro le vette digradanti dell'Appennino. Non gruppo di case, non traccia di campi coltivati, si vedeva d'intorno; la solitudine regnava sovrana, e nella solitudine si espandeva liberamente il pensiero.

Tutti i giorni, dopo il pranzo, i frati di San Bruno solevano dividersi in piccole brigate, ed anche in semplici coppie, per andare a diporto di qua o di là, assorti in familiari colloquii, che mutavano indirizzo secondo la composizione dei crocchi e gli umori del momento. Quel giorno, invece, dovevano raccogliersi tutti quanti sotto la loggia e star seduti a chiacchiera, come una società di buontemponi che metta in pratica il post prandium stabis della vecchia scuola di Salerno.

Il padre Adelindo, che aveva preso un pochettino di confidenza co' suoi compagni di tavola, notò una cert'aria di somiglianza che traspariva da tutte quelle fisonomie. Forse era da vederci un effetto della convivenza, essendo noto che ogni persona, come ogni cosa al mondo, assume il colore dell'ambiente in cui sia rimasta a lungo, e che certi modi di essere, di atteggiarsi, di discorrere, si copiano facilmente e quasi inavvertitamente gli uni dagli altri. Tutti i frati di San Bruno avevano poi, nella loro medesima apparenza di gioventù, una balìa, una padronanza, e vorrei dir quasi un possesso di scena, che accennava ad una età più matura. E questo forse era da attribuirsi in parte alle gravità dell'abito che indossavano, in parte alle burrasche per cui erano passati, prima di giungere a quel porto di rifugio.

Perchè si fossero raccolti in quella solitudine, mi pare di averlo già detto. Ma perchè avevano adottata quella foggia di vestire? Non potevano vivere in comunità, ed anche con una certa regola fratesca, senza l'impaccio della tonaca?

Lettori miei, il vecchio entra per una gran parte nella composizione del nuovo. Si rinunzia mal volentieri a certe anticaglie, quando si vogliono rinnovate le sensazioni che solevano accompagnarsi a quelle immagini del tempo trascorso. Si direbbe quasi che l'intima virtù di certe cose è tutta nella forma di cui erano rivestite. Gli Ebrei continuarono sempre, anche dopo l'uso comunemente invalso del ferro, a sacrificare con coltelli di selce. Dite ai Liberi Muratori di rinunziare ai loro simbolici riti, che rammentano i Templarii da una parte, e le compagnie artigiane medievali dall'altra, e vi diranno che appunto in quei riti è la forza loro, perchè c'è la poesia del loro istituto. Che più? Un amico mio ha giurato fede alle staffe, fermate in fondo ai calzoni, perchè questi non salgano su. Egli dice e sostiene che ciò gli è indispensabile, per creder sempre di avere vent'anni. Ora, se ciò basta a mantenere la sua illusione, vorremo noi lesinargli le staffe?

IX

Il convento di San Bruno, nel corso di una settimana, aveva mutato a dirittura d'aspetto. Prima, e sia detto senza ombra di mal animo, ci si dormiva molto; allora ci si vegliava, ci si viveva, ci si lavorava a gran furia. Avrete già indovinato che il gran lavoro della comunità di San Bruno era il giornale scientifico. Erano giunti i cinque nuovi colleghi aspettati; anch'essi nel vigore dell'età e pieni di buon volere. Le casse tipografiche erano state collocate a posto; il torchio egualmente; un gran disegno del padre Anacleto era sul punto d'incarnarsi, o se vi piace meglio, d'impiombarsi; perchè infatti era questione di piombo.

Di nove che erano pochi giorni addietro, i frati di San Bruno giungevano per tal modo al numero di sedici. Ed erano forse già troppi, per la quiete operosa a cui mirava il padre Anacleto.

– Fratelli, – aveva detto il priore, raccogliendo intorno a sè la cresciuta famiglia, – il nostro ordine accenna a voler prosperare velocemente. Dobbiamo rallegrarcene? Dobbiamo rammaricarcene? Certo, se ce ne rallegriamo, sarà per noi medesimi, non per il mondo, che mostra così di perdere ogni attrattiva sugli uomini. Ma anche noi dobbiamo badare ad un pericolo. L'essere in troppi nuoce, e forse sarà da pensare alla fondazione d'un nuovo convento, come fecero, per gli ordini loro, san Bruno e san Bernardo di Chiaravalle.

– Non siamo in troppi, finora; – osservò modestamente il padre Marcellino.

– Stiamo bene, così; – aggiunse il padre Restituto.

– Siamo come in famiglia; – ribadì il padre Atanasio. – Si sente una dolcezza nuova, che, per dirla col poeta, e guadagnandoci anche la rima, intender non la può chi non la prova. —

Il padre Atanasio esprimeva, assai meglio che non credesse egli in cuor suo, il pensiero di tutti. Era in tutti un sentimento di dolcezza che io non potrei significarvi appuntino, senza far capo ad un paragone di cucina. Ma badate, cucina poetica; una di quelle cucine ascose tra le gole dei nostri Appennini, cucina fuligginosa e nera, per modo che la fiammata dell'ampio cammino non disperda la sua luce benefica lungo le pareti, ma la concentri sulle otto o dieci persone beatamente sedute intorno al focolare, con la schiena protetta dall'alta spalliera delle cassapanche di quercia. Di fuori, cade a larghe falde la neve, e soffia acuto il rovaio; di dentro si prova la delizia dello stare al coperto e raccolti nella compagnia delle persone più care. La famiglia qui restringe i soavi suoi vincoli; l'ospitalità diventa amicizia; quella padellata di bruciate, che scoppiettano nel fuoco, vuol essere una cosa gustosa. Di tanto in tanto, e come per rendere più spiccato il confronto, si dà un'occhiata all'uscio, che si scuote ai buffi del vento; poi si torna a guardare la fiamma consolatrice. Dio di misericordia, per una di quelle serate sull'Appennino io rinunzierei non so che, perfino il mio ufficio di storiografo dell'ordine riformato di San Bruno. E come paiono sciocchi coloro che, avendo questa fortuna sotto la mano, si lagnano ancora e chiedono altro al destino! Ma pur troppo siamo tutti così; non intendiamo che tardi, essere le gioie della vita ristrette in poche immagini, in poche scene, quadretti di genere, anzi che di storia, e quasi sarei per dire di paese soltanto, anzichè di genere; perchè la figura non è sempre bella a vedere, e un po' di frappa con un raggio di sole attraverso può bastare alla pace dell'anima, come alla consolazione degli occhi.

 

Voi lo vedete, lettori; anche facendo una piccola digressione, mi trovo d'accordo coi frati di San Bruno. Poca gente, ma provata e simpatica, ecco il non plus ultra. Se c'è una bella figurina nel numero, tanto meglio; anzi credete pure che io la supponevo presente. È forse lei che ci fa amare le solitudini e riconoscere e abbandonare senza rimpianti le vanità' rumorose del mondo. Perchè, diciamolo pure, anche a risico di far insuperbire le donne, c'è sempre un po' di femminile nella nostra bontà. Quando c'è in noi della bontà, si capisce.

I miei monaci sentivano essi l'arcana influenza del serafino biondo? È lecito di sospettarlo. Sentite questa, che potrebbe mutare il sospetto in una mezza certezza. Il serafino, quel medesimo giorno che era entrato in convento, ricordando ciò che gli aveva detto in parlatorio il priore, si era arrisicato a toccare il tasto del giornale scientifico. E di là era subito nata tutta quella gran ressa che v'ho accennata più sopra. Perchè? I miei monaci sapevano pure che la loro rassegna non l'avrebbe letta nessuno, poichè essi non l'avrebbero mandata a nessuno di fuori via. Ma essi oramai sentivano di bastare a sè medesimi. Non se lo dicevano; forse non ci pensavano neanche; ma una nuova vena di tiepido umore era penetrata nel circolo vitale della comunità di San Bruno.

Quella medesima settimana comparvero finiti i primi saggi della operosità scientifica dei nostri claustrali. Cito ad esempio una memoria sulle stelle cadenti, del padre Bonaventura, che ne minacciava anche un'altra sulla costituzione fisica del pianeta Marte; uno studio sulla circolazione del sangue e sullo scambio molecolare, del padre Tranquillo; alcuni cenni sulla formazione geologica di Monte Acuto, del padre Ottaviano, e una dissertazione Sul passaggio di Annibale da Castelnuovo, del padre Anselmo, che nella sua qualità di bibliotecario, doveva essere l'erudito della compagnia. Padre Anacleto non voleva esser da meno de' suoi colleghi; aveva messo fuori certe note d'archeologia preistorica, raccapezzate lì per lì dopo il suo colloquio col duca di Francavilla. Ma perchè quelle note non davano ancora un appiglio ai disegni del padrino Adelindo, e perchè senza i disegni di quest'ultimo il giornale di San Bruno non poteva andarsi a riporre, il degno priore immaginò di finire i suoi studi con una descrizione degli scavi di Monte Acuto, che sarebbero stati disegnati dalla matita del serafino biondo. E perchè gli scavi in discorso erano ancora di là da venire, il padre Anacleto opinò che si procedesse immediatamente agli scavi.

La spedizione archeologica fu prontamente deliberata. Si vogava sul remo al duca di Francavilla; ma questi non era che un dilettante, e i nostri monaci volevano fare da senno. Inoltre, il signor duca faceva i suoi scavi nella caverna della Ripa; i nostri monaci scelsero un campo più lontano, sul pendìo settentrionale di Monte Acuto, nella caverna delle Streghe.

Non vi starò a dire perchè la chiamassero delle Streghe, lasciando immaginare a voi le leggende popolari che avevano assegnato quel luogo a notturno ritrovo delle amiche di Belzebù. Vi dirò invece, dando una sbirciatina nei quaderni del padre Anacleto, che il monte Acuto, studiato da quella parte, appariva incoronato da banchi di formazione terziaria, posti orizzontalmente sopra gli strati verticali della calcarea compatta giurassica, ond'era formato il nocciolo di quella catena montuosa. Quei banchi di calcarea grossolana, o meglio d'un sabbione indurito, erano tutti ripieni di gusci d'ostriche e d'altri bivalvi, come l'Arca diluvii, la Venus rugosa, la Terebratula bipartita, non senza tracce di polipi, di èchini, e d'altri resti organici poco determinabili.

La costiera del monte era brulla, o quasi; soltanto tra le fenditure della roccia spuntava qualche ciuffo d'erba, e qualche arbusto malinconico e scarno, che pareva maledire la sorte da cui era stato sbalestrato lassù. La caverna delle Streghe, vuoi per la difficoltà dell'accesso, vuoi per la tristezza del nome, non era mai stata esplorata. Soltanto poteva esserci stato qualche pastore, od anche qualche bandito, a rifugio; e delle scarse visite faceva fede una piccola traccia di sentiero, meglio intravveduta da lunge, che potuta seguitare da vicino.

Segnar meglio il sentiero e nei punti malagevoli renderlo più sicuro scavando qualche gradino nella roccia, fu la prima cura dei nostri esploratori. Intanto il priore, seguito dal serafino e dal padre Prospero, andava oltre, verso l'ingresso della caverna. Senonchè il padre Prospero, afflitto dalla sua polisarcìa che gli sembrava già due tanti più grave, dopo che il padre Tranquillo gliel'aveva battezzata col suo nome scientifico, protestò ben presto di non poter seguitare i due scoiattoli a cui si era accompagnato con una fiducia superiore alle proprie forze, e, come Mosè in vista della Terra promessa, si accasciò presso un cespuglio, in vista della buca, che gli pareva ancora troppo lontana, quantunque non ci fosse più a fare che un centinaio di passi.

– Andate, andate! – diss'egli. – Ricolgo il fiato e vi raggiungo. – E si sdraiò su d'un lastrone, soffiando come un mantice.

Il serafino biondo sorrise, lasciò lo zio in quella postura, che aveva pure i suoi pregi, e seguitò il padre Anacleto pei meandri sassosi del sentiero fino all'entrata della caverna.

Lo spettacolo era meraviglioso. I due esploratori si trovarono davanti ad una vasta fenditura orizzontale della roccia. Più che una fenditura, pareva una corrosione, una carie gigantesca del monte. Si entrava da quell'apertura in un atrio vastissimo, la cui vôlta, di colore rossastro, era in alcuni punti tappezzata di felci, e in altri faceva mostra di grappoli quarzosi, che scintillavano alla luce riflessa del sole. Un masso enorme, piantato in mezzo all'entrata, spartiva in due quella grande apertura, e intorno a quel masso un prunaio stendeva i suoi rami spinosi, che già facevano pompa delle vette fiorite. Quell'allegria di tinte delicate, che temperava l'orridezza selvaggia del luogo, colpì l'animo del serafino e gli strappò un grido di gioia.

Gentil serafino! Com'era giovane! La vista d'un fiore lo faceva andare in visibilio. E anch'egli era un bel fiore, bianco, roseo, come quello del rovo che gli stava dinanzi. Se egli si fosse guardato allora in uno specchio, metto pegno che avrebbe gettato un altro grido; ma non di gioia, bensì di paura, al vedersi così bello, troppo bello per un padrino, che volesse rimaner tale agli occhi della gente.

Il padre Anacleto, con atto cortese su cui spero non troverete nulla a ridire, si accostò al prunaio, spiccò una ciocca di fiori e l'offerse al suo giovine compagno.

– È strano, – diceva egli frattanto, quasi per rispondere al grido di gioia che la vista di quel prunaio fiorito aveva strappato al serafino biondo, – è strano trovar de' fiori quassù, dove è già molto se si trova un fil d'erba. —

Il serafino accettò il ramicello fiorito, senza risponder parola. Povero serafino, compatitelo, perchè era tutto confuso, e dal pensiero della sua bambinesca esclamazione e dalla molto cavalleresca ma poco monastica gentilezza del priore.

– Bella quiete! – diss'egli poscia, sviando la mente e lo sguardo di là, ov'essi stavano muti, con le spalle appoggiate alle sporgenze del masso.

– Sì; – rispose il priore, crollando malinconicamente la testa; – c'è sempre un luogo più quieto della solitudine in cui si vive. A noi pareva già tanto tranquillo il convento di San Bruno, e qui si sta meglio ancora. Ma forse, – soggiunse il padre Anacleto, sorridendo, – ciò avviene perchè laggiù siamo in molti, e qui non ci troviamo che in due.