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L'undecimo comandamento: Romanzo

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IV

La società raccolta intorno al duca di Francavilla s'era fatta seria, a mano a mano che egli procedeva nella sua narrazione.

– È una rinunzia al mondo, senza uscire dal mondo; – osservò il più sentenzioso tra tutti i sottoprefetti del regno.

– Così la intendono difatti; – ripigliò il duca di Francavilla. – Ho veduto finalmente il priore; un uomo sui trentacinque, o giù di lì; bruno di capegli, di fattezze regolari con due occhioni intelligenti che prendono risalto dalla bianchezza del viso. Anch'egli porta la tunica color tabacco, ma dallo scollo gli escono fuori i solini della camicia, che rompono la monotonia del vestiario, e porta in capo una berretta di velluto, tagliata artisticamente, sulla foggia del Cinquecento. Mi accolse benissimo, quantunque gli occhi indagatori tradissero un'ombra di sospetto. Gli raccontai sinceramente chi fossi, perchè mi trovassi a Castelnuovo e, pel momento, lassù. Egli allora ad interrogarmi sulle caverne, sugli scavi, e sulla profondità de' miei studi, che è poca davvero. Si vedeva chiara l'intenzione di darmi l'esame; ma io feci mostra di non avvedermi di nulla e gli sciorinai tutta la mia povera scienza. Ebbi la fortuna di entrargli in grazia; il suo volto si rasserenò e la sua lingua si sciolse. – "Voi ci guadagnate la mano; – mi disse; – anche noi volevamo intraprendere qualche ricerca di questo genere; perchè qui, nel convento di San Bruno, si vuol bastare a molte cose e fare un piccolo mondo per noi." – "Non c'è il grande?" osservai. – "Grande, sì, – mi rispose, – ma noioso troppo, con le sue invidie, co' suoi rancori, e con tutte l'altre malinconie che guastano ogni cosa. Nessuno può viverci a modo suo; e questo sarebbe il meno male; – soggiunse con aria benevola; – ma il guaio è questo, che nessuno può adoperarsi per gli altri, senza esserne pagato di mala moneta. Faccia il mondo i fatti suoi e ci viva dentro chi vuole; noi, tirati in disparte, avremo tutto il buono del mondo, e respingeremo il cattivo." – "Incominciando dalle donne?" osai domandargli.

– Ah, ci siamo! – gridarono le signore. – E che cosa le ha risposto?

– Rimase a tutta prima in silenzio, guardandomi fisso. Veramente, m'ero spinto un po' troppo. Ma la mia aria non era d'uomo che avesse gettato là un frizzo per dar noia al proprio interlocutore, bensì di un uomo che amava illuminarsi nella discussione. E il priore lo intese, poichè, fatto un sorriso malinconico e data una crollatina di testa, mi rispose… Aspettino, signore mie, vorrei ricordarmi con precisione di tutto. Un ragionamento così bello!..

– Via, per farcelo parere più bello, questo benedetto discorso, non ce lo faccia aspettar troppo; – gridarono le dame, con quel tono di familiare autorità, che dimostrava il conto in cui era tenuto il personaggio.

– Pazienza, lo ripeterò male; ma non sarà colpa mia; – ripigliò il duca di Francavilla. – "Signore, mi disse il frate, non è così che l'intendiamo noi altri. La nostra comunità non ha ufficio di odiare le donne. Esse non entrano nel nostro credo, non fanno parte del nostro ideale, ecco tutto. Si odiano forse i diamanti, per la semplice ragione che non si portano in dito?"

– Ha detto questo, il priore? – domandò la signora Morselli.

– Per l'appunto, signora, e m'è sembrato abbastanza gentile. Non pare anche a lei?

– Sì, per un uomo che sfugge le donne, non c'è male. Continui, la prego.

– Questa, dissi io, è l'opinione della comunità; ma personalmente, quale concetto si formano delle donne? – "Signore mio, personalmente si sfuggono; si sono sfuggite. Ognuno di noi è venuto qua con la seconda vocazione. Si meraviglia di questa mia distinzione? Pure è naturalissima. Ogni uomo ha due vocazioni, nella sua gioventù. La prima, che è vera o falsa, senza che a tutta prima si possa discernere; donde vengono i tardi pentimenti, le smanie e le lunghe agonie del chiostro. Sant'Antonio, romito volontario nella Tebaide, raccolto da mane a sera nelle sue sante meditazioni, vedeva ad ogni tratto il demonio che assumeva tutte le forme de' suoi desiderii soffocati e delle sue ambizioni represse. Santa Teresa sofferse indicibili tormenti, rimpianse più volte il suo voto, e l'ardente misticismo della sua vita e le cagioni della sua morte provarono qual grande sacrificio avesse fatto, e certamente superiore alle sue forze. Non è da fidarsi della prima vocazione. Perciò, la società moderna fa bene a sopprimere, in quel modo che può, tutti gli ordini monastici, fondati sulla indissolubilità d'un voto pronunziato prima del tempo. La seconda vocazione è vera, perchè essa càpita all'uomo esperto nelle battaglie della vita, ed egli vi si abbandona con piena cognizione di causa. Non mi dicano male di questa vocazione e non muovano guerra a' suoi legittimi affetti; lascino a tutti i cuori feriti, a tutte le anime deluse, il loro rifugio nella solitudine, il loro conforto nella pace di un fraterno ritrovo." – "Come è vero!" gridai. La mia esclamazione gli piacque, poichè egli continuò, infervorandosi: – "Voi dunque lo vedete, o signore, ci siamo raccolti in parecchi, tutti colpiti dai medesimi disinganni. Eravamo tre, da principio, come la prima compagnia di san Bruno, e ci eravamo affratellati nei nostri dolori. Non già i dolori dei vent'anni, che son passeggeri come i nembi di primavera; bensì i dolori dei trenta, che hanno una radice più profonda e si nutrono nell'amara esperienza del mondo." – "Scusate, – interruppi, – voi qui parlate dei dolori che reca all'uomo un affetto infelice; ma l'uomo non vive soltanto per l'amore; c'è l'ambizione, potente diversivo; c'è il desiderio di esser utile al suo simile. La politica, per esempio…" – Non mi lasciò finire. E per quanto io m'immagini di far dispiacere al nostro ottimo signor sottoprefetto…

– Dica pure, dica pure! – rispose il cavalier Tiraquelli, a cui era dedicata quella sospensione rettorica.

– Sì, – ripigliò il duca di Francavilla, – a giudizio del mio interlocutore la politica e il desiderio di adoperarsi a pro' del suo simile, sono altrettante afflizioni di spirito. – "È vero, – mi rispose, – ad una certa età l'uomo incomincia a sentire questi filantropici stimoli, d'esser consigliere comunale, deputato, amministratore d'opere pie, membro d'un consiglio agrario, capitano della guardia nazionale…"

– Signor Prospero, – disse il sottoprefetto, interrompendo, non senza un perchè, il duca di Francavilla, – questa è per noi.

– Anzi, tutta per me; – replicò il signor Prospero. – Ma io non me ne lagno. Continui, signor duca, continui. —

Il duca di Francavilla rimase a tutta prima un po' sconcertato; ma intese benissimo che il sottoprefetto voleva offrirgli un appiglio a correggere con le sue note il discorso del priore di San Bruno.

– Non son io che parlo, è il priore; – disse egli; —relata refero, e ambasciatore non porta pena. Non è vero, signor Gentili?

– Gliel ho già detto; continui. Capitano della guardia nazionale lo ero così poco, che il giudizio di questo priore dei matti non potrebbe neanche risguardarmi. Del resto, io non sono un ambizioso pentito, – soggiunse con amabile ipocrisia il signor Prospero, – e senza mestieri di farmi frate.

– Torno dunque con animo tranquillo al priore di San Bruno; – ripigliò il duca di Francavilla. – "Appunto nella politica, diceva egli, toccano all'uomo le delusioni peggiori. Che cos'è la politica, e in genere la passione dell'uomo per la cosa pubblica? Per gli uni è soddisfazione di vanità personale, o giuoco d'interesse; per gli altri uno sfogo d'amor patrio, sentimento nobilissimo tra tutti. Lascio i primi, che non meritano neanche la nostra indignazione, e bado solamente ai secondi. Che conforto è il loro? Che onesta soddisfazione derivano dal tempo e dall'ingegno che sprecano e dalle amarezze che ingoiano? La persuasione di aver fatto opera inutile, oltre che sospetta. E allora vi domando io, con che animo consigliare ad un galantuomo di star saldo nel suo ufficio di palo, che non arresta nulla, e sarà egli stesso travolto? Avete osservata mai, – soggiunse il priore, – la corrente d'un fiume, in un giorno di piena? Rami, tronchi d'alberi, quanto è caduto sotto il gorgo invasore, va via rapidamente a fior d'acqua. Un ramo, un fuscello, quel che volete, lentamente si allontana dalla via diritta. Un vortice ha turbato il suo corso, un fiotto lo ha mandato fuori di strada. E quel ramo, quel fuscello, tentenna un istante, indi a mano a mano si scosta. Sono molti con esso, nella corrente del fiume; parecchi, come attratti da una forza irresistibile, tornano al mezzo, per essere travolti dall'onda; altri se ne allontanano sempre più, e riescono ad afferrare il punto in cui l'acqua, risospinta dalla piena, si ristagna, offrendo a quei rami, a quei fuscellini, un rifugio, un asilo. Io ho sempre pensato che quei fuscellini possiedano un'anima, la coscienza e la volontà di non essere travolti dalla corrente." – "Scusate, – interruppi, – ma l'acqua stagnante è limacciosa, solo la corrente è limpida." – "Volete dire che il mio paragone non corre? – ripigliò il priore, sorridendo. – Sia pure; rivoltatelo, fate che il torbido sia nel mezzo della corrente e il limpido sui lati. Oppure, non vedete nel paragone che il tumulto e la calma." —

– Caspiterina, che sfarzo di ragionamento, per dirle che hanno seguito il rumores fuge di Catone e che odiano il mondo! – esclamò il ricevitore del registro.

– No, mio signore; – rispose il duca di Francavilla; – non odiano il mondo, a rigore di termini. Anche su questo capitolo, come su quello delle donne, ci hanno le loro idee capricciose. – "Il mondo non è brutto, – mi diceva per l'appunto il priore; – il crederlo tale è un errore di coloro che hanno già la mania suicida nel sangue. Il mondo è quello che è, un complesso di bene e di male, con sovrabbondanza di male o di bene, secondo gli umori e la condizione di chi giudica. In ogni sua parte, il mondo può offrire qualche allegrezza, o qualche consolazione, come può offrirne la vita, in ogni classe sociale. L'uomo di senno, in qualunque condizione egli sia, a qualunque classe appartenga, misura il pro e il contro della sua partecipazione, non già con gli occhi dell'egoista, che bada a sè, ma con quelli del generoso, che vuol fare tutto ciò che è utile altrui. E lo fa, all'occorrenza, non badando a speranze di premio, nè guastandosi il sangue, se le trova fallaci; lo fa, sopratutto, perchè giova al suo simile, e solamente nel caso in cui egli è persuaso di giovare. Tra tutte le fatiche una sola è grave, l'inutile. E l'uomo, governandosi in quella guisa, senza sdegno, senza debolezze, senza vani rimpianti, cerca di mettere al sicuro la sua parte di felicità. Non vedete Cincinnato, che coltiva i suoi campi, e prima e dopo i ripetuti onori del consolato, della dittatura e dello interregno? Scipione Africano è inescusabile davvero, perchè va troppo tardi a digerire nella quiete di Literno gli amari bocconi che gli hanno fatto inghiottire i suoi concittadini. Se ci fosse andato prima, non lo avrebbero trovato superbo, nè arrogante, e non gli avrebbero dato del ladro, o poco meno, come fecero, con molto accanimento, in pubblica assemblea; ed egli, educando fiori in riva al suo lago, esule volontario e benevolo, non sarebbe morto arrabbiato." – Così parlò, signore mie, il priore di San Bruno, con molta bontà e senza quel tono cattedratico, che io, compendiando le sue parole, ho dovuto dare al discorso.

 

– Confessi, signor duca, – osservò la sottoprefetessa, – ch'Ella è innamorato del discorso ed anche dell'oratore.

– Sì, non lo nego, ho trovato del buono nell'uno e nell'altro. E poi, quella cortese accoglienza del refettorio, mi ha messo di buon umore, mi ha fatto parer grazioso, tollerabile, anche quel branco di matti.

– Saluteremo dunque un nuovo frate di San Bruno? – domandò la signora Morselli.

– Se parla per me, non credo; – rispose il duca. – Ho ben altre idee per il capo!

– E ben altri uffici l'aspettano nel mondo; – aggiunse gravemente il sottoprefetto, dando un'occhiata al signor Prospero, commendatore di là da venire.

– Non ho ambizione, – rispose modestamente il duca; – ma siccome il mondo non mi ha fatto nulla, e non ho ragione di fuggire il bel sesso, che mi è tanto cortese della sua attenzione in questo momento, io non mi farò frate, lo giuro. Dico soltanto che anche lassù, per qualche settimana, ci si potrebbe vivere. È intenzione di quei frati di avere nel loro convento ogni cosa necessaria, ed anche molte delle superflue, che pure aiutano tanto ad abbellire la vita e a coltivare lo spirito. A farla breve, si foggiano un piccolo mondo nel grande, e ci si chiudono dentro.

– E dal grande, – chiese il sottoprefetto, col suo solito acume, – non filtrerà nulla di gramo nel piccolo?

– Sostengono di no, cavaliere mio. La loro teorica, come ho avuto l'onore di dirle, è fondata sulla serietà della seconda vocazione. Uomini provati alle battaglie e infastiditi dalle vanità della vita, si ritirano al deserto, non portando altro con sè che il desiderio della pace. Quali ambizioni minute potrebbero turbarli nel loro ritiro, se hanno rinunziato alle grandi? L'Ariosto ha collocata la discordia in un convento di frati. Ma questi hanno giurato di non volercela a nessun patto. Per dare il buon esempio, il priore, a mala pena saranno arrivati i cinque nuovi compagni che si aspettano, convocherà il capitolo, per rassegnare la sua dignità, accettata pro tempore e nel solo intento di dare indirizzo al suo ordine.

– Ed è un bel giovane, questo priore? – domandò la signora Morselli.

– Tanto simpatico; – rispose il duca.

– E in che modo s'è ridotto lassù? Che disinganni ha potuto avere?

– Signora mia, glie l'avrei chiesto volentieri, ma ho avuto paura di passare per un curioso. Lassù non amano i curiosi, e ho dovuto tenermi la voglia in petto.

– E gli altri frati, come sono?

– Belli e brutti, giovani e maturi; ce n'è per tutti i gusti.

– Oh, stiano pure da sè; – gridò la signora Morselli. – Nessuna donna vorrà piangere la loro fuga dal mondo. Quantunque, – soggiunse, – bisognerebbe trovare il modo di farli pentire. Questo loro proponimento mi pare una sfida bella e buona, e Lei, signor cavaliere, dovrebbe raccoglierla.

– Ci penserò; – disse il sottoprefetto, con accento solenne. – Qualche cosa si potrà fare certamente. Perchè infine, Ella ha ragione, signora; qui c'è un principio di mal esempio. Nessuno può sottrarsi agli obblighi della convivenza sociale; è cànone di filosofia civile. Siamo tutti operai, del pensiero o del braccio. Una società bene costituita non può ammettere queste diserzioni, e un savio governo dee volgere tutta la sua autorità a rimediarci. Questi tentativi di ribellione alla legge morale, anche non espressamente vietati dal codice, vogliono essere repressi, con quel diritto che emana dallo spirito, se non dalla lettera del codice. L'uomo che si apparta è come il lavorante che si arresta, ritardando col fatto suo il compimento dell'opera comune. Sventura ai popoli in cui s'infiltra questo male del ritirarsi in disparte, poichè allora la decadenza incomincia! Abbandonare le vie del consorzio benevolo, per pochi o molti dolori che se ne temano, è un rinunziare anticipatamente all'onore e al frutto delle utili iniziative, in cui c'è campo per tutte le operosità; un rinnegare la saviezza vigilante del governo, che tutto vede, punisce e premia quando occorre, ed ha balsami anche per la virtù male ricompensata. Questa, almeno, – conchiuse il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, – è la mia opinione. – E si concentrò gloriosamente nel vuoto sonoro delle sue frasi, lasciando che i suoi uditori argomentassero, da quel piccolo saggio, con quante chiacchiere si governi il mondo.

V

Arrivato a questo punto della mia narrazione mi par di sentire il lettore che esclama: – Un nuovo ordine monastico nel secolo decimonono! E, quel che è peggio, senza l'accompagnamento dello scopo religioso! nel solo intento di appartarsi dal mondo! Eh via!

Lettore umanissimo, e perchè no? Siamo davanti ad un caso strano, lo capisco. Ma il secolo decimonono, in riga di pazzie, va forse celebrato come la perla dei secoli? O non ne ha già fatte fin d'ora più di tutti i suoi riveritissimi predecessori? Vedete l'Icaria di Cabet, il Falanstero di Saint-Simon, il mormonismo, lo spiritismo, il comunismo, il nichilismo, e tanti altri tentativi di cataclismo. Io non voglio certamente paragonare tutta questa grazia di Dio con un povero convento di matti; mi fermo, anzi, a stabilire come esso sia il meno spiccato, il più innocente, il più roseo, tra tanti bei saggi della incontentabilità umana; i quali, germogliati all'ombra delle patrie leggi e fiorenti al sole della libertà…

Ma qui m'accorgo di metter mano ad una retorica, sulla quale il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia potrebbe vantare il diritto della priorità. Prior in tempore, potior in jure; lasciamo dunque la retorica al degnissimo cavalier Tiraquelli, e ripigliamo il filo del nostro racconto.

Il monastero di San Bruno aspettava in quei giorni un rinforzo. Erano cinque i nuovi ospiti, cinque le anime deluse che la seconda vocazione spingeva a cercare la pace in quel nido di laici regolari, sotto il governo temporaneo di padre Anacleto. Con questo nome era riconosciuto il priore. Fratel Giocondo aveva ricevuto ordine di dar passo ai cinque nuovi compagni, a mala pena si fossero presentati sul ponte, chiedendo d'essere avviati al convento.

La stessa mattina in cui aveva ricevuto quell'ordine del priore, il nostro converso dischiuse i battenti della torre a due ospiti. Veramente, gliene avevano annunziato cinque; ma non era poi necessario che dovessero capitargli tutti insieme. – Sono già due; – osservò egli giudiziosamente in cuor suo, – gli altri verranno dopo.

E rivolto ai due visitatori, domandò loro col sorriso sulle labbra:

– Vengono per farsi frati?

– È il nostro desiderio; – disse il più giovane dei due, mentre l'altro crollava la testa in atto di santa rassegnazione.

Erano due tipi diversi, nell'età, nell'aspetto, nella espressione. Il giovine era biondo, di belle fattezze e di proporzioni elegantissime, ma un pochettino impacciato ne' suoi abiti di viaggio. Come mai, sul limitare della vita, sentiva il desiderio di rinchiudersi in un convento? Quali dispiaceri potevano averlo colpito, con quella figura di arcangelo in vacanza, che pareva fatta a bella posta per vincere ogni resistenza? E il vecchio, così grasso, tondo, rubicondo e lucente, di che cosa poteva egli lagnarsi? Forse il cuoco gli aveva mandata a male una salsa? Ma bastava ciò per disamorare del mondo un bofficione di quella fatta?

Ahimè, lettori, pur troppo le apparenze ingannano. E nel caso presente ingannavano più che mai.

Scambiate le poche parole necessarie e pagato il contadino che aveva portate le loro valigie, i due viaggiatori seguirono il converso, a cui il più giovine dei due sorrise amabilmente, come si sorride in paese straniero ad una faccia conosciuta. Entrati nel bosco, risalirono il viale dei frassini, svoltarono tra i due poggi che sapete, videro il convento in mezzo alla sua conca di verdura, ridiscesero e finalmente giunsero al parlatorio.

– Vado ad avvertire il padre priore; – disse fratello Giocondo. – Intanto farò mettere le loro valigie nella foresteria.

– Benissimo! – rispose l'arcangelo in vacanza; e parve (mi scusi l'ombra dell'Ariosto, se guasto un verso all'Orlando) e parve Gabriel che dicesse: ave.

Prima di andarsene di là, il frate converso diede una sbirciata ai due viaggiatori.

– Sarà un bel fratino, in fede mia! – diss'egli tra sè. – Ma lo accetterà il priore, che vuole la seconda vocazione? Speriamo che il su' babbo ne abbia per due; – soggiunse, pensando al più vecchio dei nuovi venuti. – Quello là è uomo da prendere di primo acchito il posto di cantiniere. – Il parlatorio era, come tutti i parlatorii di frati, una stanza seminuda e fredda. – Nè i laici regolari, che avevano preso il posto dei Camaldolesi, si erano dati pensiero di abbellire quella parte dell'edifizio; una tavola di noce contro il muro, otto seggioloni in giro, un quadro scorniciato alla parete, erano tutti gli arredi della stanza. Il quadro rappresentava Mastino II della Scala; un uomo dalla barba di color castano, con un berrettone di pelo in testa, il sorcotto rosso sulla maglia di ferro, e la faccia veduta di profilo, forse per lodevole intendimento del pittore di far sapere alla posterità che quel pessimo arnese non aveva il tipo greco. Che diamine faceva Mastino II nel parlatorio di San Bruno? Quel che fanno tanti vecchi ritratti nelle case moderne. Avanzi di eredità trapassate più volte, compre fatte da un antenato in un momento di buona luna, non si sa il più delle volte chi siano; o quando si sa, resta il dubbio intorno alla strada che hanno fatta per giungere in casa.

Non c'era da guardar nulla, in quel ritratto, almeno cent'anni più giovane del suo originale. Veduto il nome di Mastino II, che era scritto a lettere gialle nel fondo del quadro, secondo il costume del quattrocento, il più giovane dei due viaggiatori si volse all'altro, e sorrise ammiccando, come se volesse prendersi spasso di lui.

– È proprio così? Non si ritorna indietro? – gli chiese quell'altro, con un piglio malinconico che faceva un bizzarro contrasto con la sua florida cera.

Il giovine aggrottò le ciglia in atto di chi non vuol sentire osservazioni ed è lì lì per escire dai gangheri.

– Zio, te l'ho detto; o fai a modo mio, o mando giù un veleno. Bada a te, di qui non si sfugge.

– Ma vedete un po'! – disse quell'altro, salutato col nome di zio. – Son dilemmi da farsi?

– Eh, sicuramente; quando si ha a fare con un ostinato come te!.. Al polo, no; all'equatore nemmeno…

– Ma era un'impresa da matti! – esclamò il povero uomo.

– Non esciamo dunque di strada; – ribattè il giovine, crollando la testa con un piglio d'autorità consapevole; – eccoci a casa nostra, nel convento dei matti. – Con quel biondo cherubino non si poteva vincerla nè impattarla. Lo zio fece come Giacobbe nella sua pugna con l'angelo; si diede per vinto ed alzò gli occhi al cielo, in atto di offerta e di rassegnazione, ma non senza aver data una sbirciatina malinconica all'occhiello del soprabito, che sarebbe rimasto vergine del brigidino commendatorio. E sospirò, tra un'occhiata e l'altra.

L'uscio del parlatorio si aperse e fratel Giocondo annunziò la venuta del priore. Lo zio, ricordandosi d'essere stato capitano della guardia nazionale, assunse un'aria dignitosa, se non a dirittura marziale. Il nepote scosse leggiadramente la sua zazzerina bionda, compose le labbra ad un sorrisetto malizioso e volse gli occhi all'entrata, per ricevere la prima impressione.

 

C'era un fil di ridicolo in quella condizione di laici che volevano parer frati. Ma bisogna dire ad onor loro che non si curavano affatto di ciò, e che la noncuranza prendeva carattere di dignità. Vivevano in quella solitudine non cercando nessuno; chi ci andava doveva accettarli come volevano essere. Frati o non frati, avevano scritta sulla porta del monastero la sentenza inventata dal Rabelais: Fais ce que voudras, e non si occupavano d'altro.

Il padre Anacleto, degno priore di San Bruno, non era grave che a mezzo, e portava con disinvoltura cavalleresca la sua tonaca lunga, di color tabacco. Aveva la barba nera, finissima, un po' rada e corta sulle guance, i capegli riccioluti e lucenti, la fronte ampia, lo sguardo aperto, il naso diritto e fine, il labbro sottile e vermiglio. Il primo sentimento che destava a vederlo, era di schietta simpatia; il secondo di stupore e di curiosità. Come poteva essere che un uomo così giovane e d'aspetto così piacente si fosse dato ad un genere di vita, che era una rinunzia anticipata a tante allegre vittorie? Ma guardandolo attentamente, nel corso della conversazione, si notavano alcune rughe sottili sulla fronte, le quali talvolta si raccoglievano a fascio nel mezzo delle sopracciglia; si vedevano certe contrazioni improvvise di labbra, certe nubi di tristezza sugli occhi, e si capiva allora che quell'uomo era vissuto molto in breve spazio di tempo, e che le burrasche della vita potevano aver fatto assai più che solcargli la fronte, o adombrargli lo sguardo.

Aveva in mano la sua berretta di velluto, e la sporse avanti, in atto di salutare, mentre con una occhiata cercava di abbracciare i due visitatori e di coglierne a volo i pensieri.

– In che posso servire le Signorie loro? – dimandò, poichè li ebbe invitati a sedere.

Lo zio aperse le labbra per rispondergli, ma non gli venne fatto di spiccicare una sillaba. Perciò, rinunziando ad una impresa che vedeva superiore alle sue forze, si volse al nepote con la muta preghiera dello sguardo. L'arcangelo in vacanza crollò leggermente le spalle, in atto di stizza non potuta nascondere, per quella che gli pareva una insigne debolezza d'animo, e rispose tutto d'un fiato:

– Signore, siamo due che vogliamo ascriverci alla regola di San Bruno. – Il priore sorrise, e, con accento pacato che non escludeva un senso d'arguzia, ripigliò:

– Si dice San Bruno per mo' di dire. Ma sanno proprio le Signorie loro di che cosa si tratta? L'ordine è forse un tantino burlesco nella forma, poichè non siamo frati, ma è serio nella sostanza, poichè abbiamo una parola d'onore, la quale ci obbliga come il più solenne dei voti.

– Lo sappiamo; – replicò l'arcangelo. – Si vien qua per vivere fuori del mondo, non curando le sue vanità dolorose.

– È vero, – disse il priore, inchinandosi, – ma non è tutto il vero. Ciò ch'Ella dice, mio giovine signore, ognuno di noi potrebbe farlo da sè, ritirandosi per sua elezione a vivere in campagna. Qui, invece, viviamo uniti, foggiandoci il nostro piccolo mondo, riveduto e corretto, senza le noie del grande, ma con tutto il buono, con tutto l'utile che può trovarsi nella vita. Rinunziamo agli affetti pericolosi che lasciano tracce di dolore e di amarezza, ma vogliamo e pratichiamo la carità fraterna, che è un santo bisogno del cuore: rinunziamo alle ambizioni, ma ci dedichiamo allo studio, che affina l'intelligenza ed è poi il naturale ufficio dello spirito.

– Lo sappiamo, padre, e Le domandiamo di poterci dedicare con Lei a questo genere di vita.

– Ma badi; – osservò il priore. – È un genere di vita più alto, o più umile, secondo si guarda, ma certamente diverso da quello che si fa generalmente e a cui c'indirizza la nostra educazione e l'ardore delle nostre passioni. Perciò, a non aver pentimenti, è necessaria una vocazione sincera, e riconosciuta tale, mercè il confronto, che può farsi solamente quando si è vissuto a lungo tra gli uomini. Non basta un desiderio onesto di pace, o una poetica aspirazione alle squisite compiacenze della solitudine; è necessario che il desiderio sia profondo e l'aspirazione provata nei disinganni della vita. Che il mondo offra amarezze e dolori in molto maggior numero e quantità dei piaceri e delle consolazioni, è cosa nota oramai, e può esser creduta anche, sulla fede dei vecchi, da coloro che non ne hanno fatta la triste esperienza in sè medesimi. Ma altro è l'accettare per vera una massima, altro il conformarvi tutta quanta la vita. Si conosce il bene e si loda, ma ci si attiene al peggio, o ci si torna quando fa comodo. Da questo rifugio, invece, non si ritorna più indietro. Donde la conseguenza che ci si debba venire… (mi scusi, ma la franchezza è necessaria)… che ci si debba venire ad una età più matura, che non sia, per esempio, la sua.

– Ho ventidue anni; – disse arditamente l'arcangelo.

– Sia pure, ma non è molto. E poi, Ella non ha neanche l'ombra dei baffi.

– Scusi, che gliene importa a lei? —

Il priore sorrise, a quella involontaria scappata del biondino.

– A me, nulla; – rispose. – Ma non vorrei aver l'aria di accalappiar minorenni.

– Son solo; non ho che mio zio; – ribattè il giovine. – E mio zio, qui presente, si fa frate con me.

– Davvero? – chiese il priore, volgendosi allo zio.

– Davvero; – rispose questi, facendo il gesto dello et cum spiritu tuo.

Il padre Anacleto ebbe un istante di raccoglimento; indi alzò la fronte, come un uomo che ha preso un partito e si dispone a parlare. Ma il pensiero del nostro personaggio doveva essere difficile ad esprimersi, anche per un uomo della sua autorità, perchè egli, dopo aver sollevata la fronte, stette parecchi secondi immobile, con gli occhi fissi sul volto del giovane cherubino. Questi arrossì fino alla radice dei capegli, ma non chinò altrimenti i suoi.

– Mi perdonano la franchezza? – incominciò finalmente il priore.

– Dica liberamente.

– Ma badino, – soggiunse, – voglio essere schietto, anche a risico di parere… scortese.

– Non le riuscirà; – disse il cherubino, che non aveva ancora ombra di baffi, ma dimostrava già di aver molto giudizio.

– Grazie; – rispose il priore, cascando e sapendo di cascare. – Volevo dire che dubiterò; e il dubbio è sempre scortese; ne conviene?

– Secondo la maniera di esprimerlo; – ripigliò il cherubino.

– Orbene, – disse il priore, stringendosi nelle spalle, – prendiamo la forma più mite. Qui vedo due cose, egualmente temibili. O si tratta d'uno scherzo… —

A queste parole, il cherubino scattò sulla sedia.

– Non c'è scherzo, qui; – interruppe egli vivacemente; – La prego a crederlo; lo giuro sul mio onore. M'ingannerò… c'inganneremo, – soggiunse, ravvedendosi tosto, – ma è un nostro desiderio sincero di viver qui, se Ella non ce ne reputa indegni. Siamo gente per bene, pronti a sopportare la nostra parte di spese, a metter fuori quanto occorre, e più ancora, per vivere in questa comunità di San Bruno. L'idea è superiore alla mia età, dice Lei. Che cosa ne sa? Scusi, veh! Non sono ancora sotto la sua tutela. Riconoscerò domani la sua autorità, la sua giurisdizione. Per oggi almeno mi lasci dire liberamente quello che penso. Che cosa ne sa? Metta che io sia vissuto nel mondo quanto occorre per capire che esso non val nulla, che è bugiardo, sciocco e noioso. Non basta, forse, per venire a rifugio quassù?

– Eh, non basterebbe; – disse il priore, crollando la testa e sorridendo. – Ma lasciamola lì. Io le aveva accennato un mio dubbio. Le è dispiaciuto e non voglio tornarci su. L'ardore che Ella ha messo a ribatterlo, mi dice chiaro che non debbo ripeterlo, neanche spiegandolo.