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L'undecimo comandamento: Romanzo

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XVIII

Il lettore che è giunto fin qua, con una pazienza e con una cortesia di cui debbo rendergli grazie, vorrà sapere che discorsi facessero insieme il padre Anacleto, priore di San Bruno, e il monachino Adelindo. Li ha visti fermarsi, andare di costa, fermarsi da capo, sempre in atto di persone infervorate nella conversazione, e certamente s'immagina che dovessero parlare di cose molto gravi.

Ma per allora non c'era nulla di questo. Anzi, debbo confessare che quel modo di andare e di gesticolare non era altro che una trovata dei due personaggi, a cui dispiaceva di essere seguitati. Era una specie di quel giuoco che si fa tra due amici per via, quando si vuol cansare l'intromissione d'un terzo; del terzo incomodo, come è stato battezzato dall'uso.

Il guaio si fu che quella mimica, con cui dovevano tener lontani i compagni, fece ridere il padrino e ridere di consenso il priore. Per un dialogo serio, si cominciava bene, come vedete! Ma già, solo a vederlo, quel grazioso monachino, passava la voglia dei discorsi uggiosi, e veniva quella, dirò così, di mangiarselo, come si mangia un marzapane.

Ridendo a quel modo, giunsero presso un sedile di pietra, a cui faceva ombra una pianta d'alloro. Il serafino biondo si fermò sui due piedi.

– Che cosa sono queste gravi cose che avete a dirmi, signor priore? Sedete là, come si conviene alla dignità dell'ufficio, mentre io starò in piedi davanti a voi, da quel povero novizio che sono. —

Le parole erano di celia, ma non dissimulavano abbastanza una certa inquietudine nervosa, che si era impadronita del monachino.

– Ma no; – proseguì egli, senza dar tempo al priore di aprir bocca, – ditemi prima di tutto perchè non siete venuto da noi, lassù al romitorio delle Querci.

– Son io che fo la parte del novizio, e il priore siete voi, padrino Adelindo; – osservò il padre Anacleto. – Ma è vero altresì, – soggiunse egli a mezza voce, quasi parlasse a sè stesso, – che ho fatto una cosa da novizio.

– Ah! – esclamò il padrino, che aveva udita la frase. – Dunque volete confessare?

– Ecco qua; – disse il priore, non senza un pochino di confusione. – Liberatomi dalla compagnia del sottoprefetto, desideravo sapere dove foste, per dar notizia a voi e al vostro zio di ciò che era avvenuto. Fratel Giocondo mi disse che eravate alle Querci. Venni lassù e sentii le vostre voci. Stavo per avvicinarmi, quando mi accorsi che era con voi il padre Agapito. E ciò non mi andava.

– Perchè?

– Me lo domandate? Per il discorso che dovevo farvi, il padre Agapito mi riesciva d'inciampo. —

Non era ciò che s'aspettava il serafino biondo. Pure, gli bisognò contentarsene.

– Ma dunque è assai grave ciò che vi ha raccontato il sottoprefetto? – chiese egli, tanto per dir qualche cosa.

– Sì, giudicatene voi. È venuto, con lo scopo apparente di conoscermi, e con l'altro, reale e non saputo dissimulare, d'intrattenermi su certi ospiti di San Bruno. —

Così dicendo, il padre Anacleto fissava gli occhi in volto al monachino, per vedere che effetto gli facesse l'esordio. Ma il monachino se ne stava là ritto, davanti al priore, con gli occhi e il naso in aria, e il labbro inferiore un pochettino sporgente, col proposito evidentissimo di secondare la mossa degli occhi e del naso. E quando io vi dico così asciuttamente gli occhi e il naso, credete pure, o lettori, che io faccio forza al mio naturale ed anche un pochettino alla giustizia. Due epiteti, via, ci vorrebbero, e per quegli occhi e per quel naso. In quanto alla bocca, poi, giuro per le labbra di san Giovanni Grisostomo, che ce ne vorrebbero tre.

– Per esempio, – continuò il padre Anacleto, vedendo che il monachino biondo non si commoveva punto della sua entrata in materia, – egli mi ha detto che il padre Prospero Gentili è un signore di Castelnuovo Bedonia, uomo per bene e molto rispettato in città.

– Oh, grazie tante della sua degnazione! – esclamò il monachino, che subito riprese la sua aria di me la rido.

– E m'ha aggiunto, – proseguì il padre Anacleto, – che il signor Prospero è zio e tutore d'un fior di ragazza, la signorina Adele Ruzzani. —

Una vampa di rossore tinse il volto del serafino biondo; ma non ci fu altro segno di commozione in lui, che restò fermo nel suo atteggiamento statuario.

– Mia sorella; – diss'egli, guardando in aria.

– Ah! – esclamò il priore. – Vostra… sorella? E avete avuto il coraggio di lasciarla sola?

– Oh, non c'è bisogno di farle la guardia; – ribattè il serafino, senza muovere la testa, ma lasciando cadere dall'alto un'occhiata tra curiosa e canzonatoria al padre Anacleto; – ed ella si difenderà abbastanza bene da sè. Sarà vana, sarà sciocca; alcuni, anzi, pretendono che sia un po' matta…

– Eh, mi pare che, con tante belle qualità, la non ci abbia a star male; – osservò sarcasticamente il padre Anacleto.

Ma il monachino fu pronto alla parata, e ribattè il colpo del padre Anacleto, prima che questi potesse avvedersi d'esser giunto alla misura.

– Badate, signor priore; – disse il monachino; – io non ammetto nulla di ciò che pretendono gli altri, e voi farete ottima cosa, sopra tutto cavalleresca, a tenere da me. Volevo dire soltanto che, anco ammettendo ciò che agli altri, amici e nemici, piace di farla parere, Adele Ruzzani è una buona figliuola. In questo, almeno, signor priore, non eravate già della mia opinione?

– Dirò volentieri di sì, quantunque io non conosca vostra sorella. Ma questo non è strettamente necessario, se posso giudicarla da voi. Rispondetemi ora, e non istate con gli occhi rivolti alle nuvole, ve ne prego. Dimenticate per un momento la patria; – soggiunse il priore, con una sottile galanteria che fece sorridere il serafino, nell'atto che chinava gli occhi d'un punto. – Come va che voi siete qui a San Bruno? la vostra sorella, così buona, vi ha lasciato partire da casa? da quella casa che è tanto cara e fida ai giovani pari vostri? E voi perchè separarvi da lei, per venirvi a chiudere in una società di malinconici come la nostra? Quali afflizioni sono state le vostre?

– Vedo l'aria di trionfo con cui mi fate la vostra domanda; – notò il serafino. – Già, io, così giovane come sono, non posso, non debbo aver dispiaceri. Perciò, non mi riescirà di rispondere; balbetterò, mi confonderò, e voi, nella vostra autorità priorale, compatirete il mio stato. Disingannatevi, signor priore; so dire la mia ragione. Da bambino, m'hanno avvezzato a fare tutto ciò che volevo. È un difetto, lo capisco; ma io non me ne lagno. Sappiate intanto che su questo difetto io ci ho innestata una piccola qualità: la schiettezza. Dico sempre quello che penso, io.

– Ecco una bella digressione; – osservò il padre Anacleto. – Come pittura del vostro carattere, la gradisco moltissimo; come lezione a me, non so di averla meritata.

– Scontroso priore! Nè pittura, nè lezione; – replicò il serafino; – è stata una dichiarazione preliminare. Dopo di che, vengo subito a dirvi le mie afflizioni. Esse si confondono con quelle di mia sorella; i suoi dispiaceri sono per l'appunto i miei. Ammettete questo ravvicinamento di personaggi, e il resto va da sè.

– Ammetto anche la consustanzialità; – disse il padre Anacleto. – Proseguite.

– Mia sorella, per questa medesima consustanzialità che voi avete trovata così opportunamente, – osservò il monachino biondo, – la pensa in ogni cosa come la penso io. Giovanissima, le pare di esser vissuta già molto; quello spirito di libero esame, che ha sempre recato in ogni particolarità della vita, le tien luogo d'esperienza e l'aiuta a vedere i tranelli ond'è seminata la strada. Non è bruttissima; almeno, quel che le manca in bellezza, lo possiede in ricchezza. E perciò molti si sono fatti avanti a chiedere la sua mano, e in famiglia s'era parlato di maritarla…

– Ah! – scappò detto al priore.

– Vi dispiace? – chiese il serafino, fermandosi a mezzo.

– Dispiace a voi, deve dispiacere anche a me; – disse il padre Anacleto, correggendosi in tempo. – Non mi dite voi forse che tutti quei vagheggini e pretendenti non erano degni di lei?

– In verità, non ho detto questo.

– Ma si sottintende, e sta come se fosse detto. Se così non fosse, perchè vi dorrebbe di certi corteggiamenti interessati?

– È vero; – rispose il monachino. – Diciamo dunque, non già che i partiti fossero indegni di lei, ma semplicemente che le spiacevano, come continuano a spiacerle. Tra gli altri quell'ultimo che le è stato proposto, con modi abbastanza incalzanti e in circostanze tali, che l'hanno mortalmente seccata.

– E messa in fuga da Castelnuovo, non è vero? – chiese argutamente il priore.

Ma il serafino biondo non raccolse la celia.

– Avrà torto, può darsi; – diss'egli continuando; – voglio anche ammettere che il sapersi ricca l'abbia anche un pochino guastata. Non già col farla insuperbire, intendiamoci! La ricchezza non fa girar la testa che agli sciocchi. La gente che ragiona non desidera la ricchezza per altro, fuorchè per procacciarsi tutte le possibili soddisfazioni intellettuali e morali. Mia sorella, invece, l'amerebbe per la soddisfazione del viaggiare, del veder sempre nuovo paese e nuovo orizzonte. Ma è donna, la poverina. Non la vedete voi, la noia dell'esser donna, in una società così mal combinata come la nostra? Dicono che sia la migliore delle esistenti, e bisogna rassegnarsi. Ma non senza qualche atto di protesta, ve l'assicuro. Ah, benedetti gli uomini! Voi, per esempio, voi, signor priore, lo avete potuto colorire, il vostro disegno. La società vi tornava molesta, e vi siete appartato dalla società. Una donna non può. La sua ricchezza e la sua libertà, quando possiede l'una cosa e l'altra, non le servono a nulla; debbono essere confiscate a benefizio di un altro, che sta per giungere, che sarà Tizio, sarà Caio, e che ella dovrà scegliere fra i cinque o sei più importuni, mentre forse le sarebbe piaciuto assai più di aspettare dal caso la conoscenza di Sempronio.

 

– Sempronio! – ripetè il priore, con accento malinconico che colpì il serafino biondo.

– Che c'è, signor priore? – domandò questi, fermandosi ad un tratto. – Vi dà forse noia, questo nome… antico?

– No, anzi! Continuate. —

E sospirava, così dicendo, il povero padre Anacleto.

– Tizio e Caio, nel caso di mia sorella, – notò il monachino, proseguendo il discorso, – rappresentano il tornaconto, l'egoismo, la caccia alla dote, la volgarità mascolina, tanto più ributtante quanto più lavora a nascondersi sotto le apparenze d'un amore profondo, nato lì per lì come i funghi, e cresciuto gigante nello spazio di una settimana. Sempronio, invece, il povero Sempronio sarebbe la sincerità, l'amor vero, che nasce anche lui lì per lì…

– Come indovinare che è l'amor vero, se nasce lì per lì, come l'altro? – interruppe il padre Anacleto.

– C'è della gente che lo conosce, come si conoscono i funghi mangerecci dai velenosi; – rispose il monachino, ridendo. – A buon conto, i velenosi risplendono di più; mettono in mostra i più vivi colori. Vogliono sedurre, i bugiardi! Quegli altri, invece, sono più modesti, più umili, più timidi; si direbbe anzi che amino nascondersi, confondersi con le foglie secche ond'è coperto il terreno.

– Anche questo è un giuoco facile a imparare; – osservò il padre Anacleto, – e guai al povero cercatore, o alla povera cercatrice, se Tizio e Caio si mettono in testa di parergli Sempronio. – Il monachino tentennò la testa, in atto d'incredulità.

– No, non ci riescono; – diss'egli. – L'esperienza in causa propria vien presto; e Tizio e Caio, per dissimulare che facciano, si tradiscono sempre in qualche nonnulla. Sempronio, quando c'è, s'indovina. Almeno, tale è la mia opinione.

– Indovinarlo, quando c'è, non dico di no; – ribattè il padre Anacleto. – Ma badate, padrino Adelindo, è assai difficile trovarlo.

– Sono con voi. Mia sorella, difatti, non lo ha trovato. Inchini, genuflessioni, occhiate, sospiri, spasimi, n'ha avuti a bizzeffe; ma era tutta merce di Tizio e Caio.

– Povera sorella! – esclamò il padre Anacleto. – Intendo la sua tristezza. E l'ultimo dei Tizi, o dei Caj, com'è andato a finire?

– L'ultimo? Stava appunto per cominciare. E comincierà da senno, se mia sorella ritorna a Castelnuovo. Voi ora intenderete perchè mi dispiacerebbe di vederla andare laggiù. Col mondo inframmettente che vuol dire la sua in ogni cosa, coi parenti che non amano le zitelle in casa, con tutte le ciarle noiose, con tutti i sarcasmi che opprimono una povera ragazza, voi capirete, signor priore, che un giorno o l'altro bisogna prendere una risoluzione. Ed è doloroso il prenderla, quando si sa anticipatamente che sarà una risoluzione cattiva.

– Già, – disse il padre Anacleto, – quando la ragazza aspetta… d'incontrare Sempronio. Vuol dire che il cuore di vostra sorella non ha ancora parlato? —

La domanda era ardita, e il serafino biondo stette un pochino perplesso.

– No, ch'io sappia; – diss'egli. – Se pure, più tardi, dopo la mia partenza da Castelnuovo…

– Ah! credete possibile che dopo la vostra partenza si sia trovato un… Sempronio? Sarebbe un peccato! – disse il padre Anacleto, al cui pensiero si raffigurò in quel mentre l'immagine del padre Agapito, che raccoglieva tralci di fiammole, sotto il romitorio delle Querci. – Auguro a vostra sorella di non concedere così ciecamente il suo cuore. Gli uomini valgono così poco! —

Il serafino socchiuse gli occhi e diede al padre Anacleto una sbirciatina, donde trapelava il suo umor gaio e malizioso.

– Signor priore, – diss'egli poscia, con quel suo misto di timidezza e di confidenza che gli tornava così bene al viso, – siete forse venuto a San Bruno per ira contra gli uomini? Io, veramente, credevo che fosse per un altro genere di malinconia.

– Fratello mio, – disse il priore, – c'è stato un po' di tutto.

– Raccontate!

– A che servirebbe?

– Non badate a ciò; raccontate, ve ne prego, raccontate. —

E così dicendo, il serafino biondo, con atto di curiosità infantile, andava a sedersi accanto al padre Anacleto.

– Non v'aspettate un racconto come il secondo libro dell'Eneide; – rispose il priore, sorridendo. – Io mi sbrigherò in pochi versi, perchè la mia storia è molto comune. Ho creduto di amare…

– E vi hanno tradito? – chiese il serafino, interrompendo. – Ma qui c'è da farne due, di libri.

– No, v'ingannate. Se m'aveste lasciato finire! Ho creduto di amare… e non era vero. —

Il serafino stette alquanto sopra di sè, meditando la frase del padre Anacleto; quindi, con un'aria di sommo candore, rispose:

– M'hanno detto che tutti gli uomini siano usi a parlare così.

– Davvero? E chi ve lo ha detto, padrino Adelindo? – chiese il priore, rizzando il capo e guardando in faccia il serafino. – Sarebbe questo, per avventura, un frutto dell'esperienza… di vostra sorella?

– Ecco, voi andate in collera; – notò il serafino, arrossendo. – Vi ho proprio toccato sul vivo. Senza volerlo, badate, senza volerlo.

– Non vado in collera, e voi non m'avete toccato sul vivo; – replicò il padre Anacleto. – Mi avete chiesto una confessione, ed io ve l'ho fatta sinceramente. Ma già, dovevo capire che certe cose vanno tenute per sè.

– No, anzi, dite ogni cosa. E non era vero, avete detto. Come vi siete accorto che non era vero? E se vi siete accorto che non era vero, perchè mai, riconosciuto l'errore, siete venuto a chiudervi in questa solitudine?

– Padrino, padrino, voi siete un gran curiosaccio! – disse il priore, cansando di rispondere. – Ho conosciuto nella mia giovinezza un uomo insigne, grande per l'ingegno, e tuttavia bambino per la cara ingenuità de' suoi modi. Perchè la tal cosa? perchè la tal altra? Era questa la sua forma consueta di dialogo. Gli dicevate: bella giornata, quest'oggi! E lui subito a domandarvi: perchè mi dici questo? Ma… perchè mi pare una bella giornata; e non c'è altra ragione che questa. No, rispondeva lui, ce ne dev'essere un'altra; tu non puoi dire che è una bella giornata, senza averci una ragione più intima. E via di questo passo, il mio illustre amico ci aveva la manìa degli interrogatorii; per modo che io lo nominai di mia autorità presidente perpetuo di tutte le commissioni d'inchiesta del felicissimo regno d'Italia.

– Dev'essere stato un gran simpaticone, quel vostro amico! – osservò il serafino. – Egli aveva la manìa del sapere; perciò merita tutta la mia stima. E a lui, signor priore, rispondevate come ora a me, continuando a schermirvi?

– Pazzerello! – esclamò il padre Anacleto, volgendo un'occhiata amorevole al serafino, e reprimendo in pari tempo un sospiro. – Bisognerà contentarvi ad ogni costo. Sappiate dunque che io non mi sono accorto fin d'allora che non era vero. Anzi, ho sofferto molto, da principio. Credevo di non doverne guarire mai più. L'amore… Ma scusate, padrino; questi non sono discorsi da farsi a voi.

– Perchè?

– Perchè siete giovane, molto giovane, e non siete passato ancora per queste trafile. Stando qui, poi, non dovrete passarci.

– Ah! – gridò il serafino. – Resterò dunque? —

Il padre Anacleto si scosse, come uomo che d'improvviso si sveglia.

– Scusate; – diss'egli; – non pensavo ora a questa necessità… dolorosa. Voi uscirete, padrino Adelindo. Perchè, infatti, che cosa rimarreste a far voi, nell'eremo di San Bruno, in questa solitudine di giovani vecchi, in queste tenebre anticipate, mentre tutto risplende intorno a voi, mentre tutte le voci del creato vi salutano e vi richiamano alla vita?

– E mentre tutto mi scaccia di qui, incominciando da voi, non è così? – chiese il serafino.

Il priore stette un istante perplesso.

– No, non è proprio così. Io non vi scaccio; è la forza delle cose che vi consiglia a ritornare nel mondo.

– Per trovarci le afflizioni di cui mi parlavate poc'anzi?

– No, voi non le troverete; – rispose il padre Anacleto. – Se sarete buona, se sarete sincera… Vedete, signorina, vi chiamo come bisogna chiamarvi, perchè questo incognito non può essere conservato più a lungo. Vedete, signorina, ciò che nuoce un pochino a voi donne è il vostro desiderio di piacere. Scusabile vanità, non lo nego, ma che porta le sue conseguenze spiacevoli. Gli uomini vi considerano schiave e vi proclamano regine. Vi lasciate lodare, ossequiare, incensare, e voi siete le vittime di questa lode, di questo ossequio, di questo incenso continuo. Così avviene che, mentre cento uomini si contentano di un ricambio superficiale d'affetto, che essi medesimi hanno voluto così, e v'ingannano allegramente, ce n'è uno che si trova ingannato e ne soffre, poichè il vostro carattere s'è fatto leggero, e voi non avete potuto dare a quell'uno ciò ch'egli chiedeva da voi, la sincerità, la fede, quello spirito di perfetta rinunzia della vostra volontà, dei vostri capricci, senza cui non è amor vero e durevole. Siate schietta, come siete bella; non vi compiacete nelle piccole vittorie dell'amor proprio, nei piccoli trionfi della vanità, ed aspettate. L'uomo degno di voi, quel Sempronio che dicevate poc'anzi, non tarderà a giungere, e voi lo amerete com'egli vi amerà; nè egli nè voi avrete forse mestieri di dirvelo. Qui, nella solitudine di San Bruno, un povero priore pregherà per voi e sarà lieto di sapervi felice. —

Il serafino biondo era stato ad udire con molto raccoglimento la predica. Ma, come il padre Anacleto ebbe finito, egli saltò su e rispose, con accento commosso:

– Venite fuori! Il mondo vi chiama, non lo sentite voi forse, signor priore? Le cicale hanno finito di stridere; i grilli non hanno ancora incominciato. Ma le voci del mondo suonano per voi, come suoneranno per me. Che fate voi della vostra gioventù, voi che date consigli? Non avete amato davvero… Sono le vostre parole, ed io non vi credo un bugiardo. Venite fuori, dunque, e non istate ad intristire in quest'eremo!

– Serafino! serafino! – esclamò il padre Anacleto. – Non vi ho ancora detto ogni cosa. La vita, per l'uomo, non si compone tutta d'amore. È nell'indole nostra, pur troppo, che essa sia più complessa; in noi è una varietà di uffici, che non è fortunatamente in voi. Sappiate adunque che ci sono molte altre cose, le quali m'hanno fatto prendere in uggia il civile consorzio. Non lo credete? Eppure è così. Quando si è veduta l'invidia al posto dell'emulazione, l'egoismo al posto della fratellanza… —

Il serafino interruppe alle prime quella triste rassegna con una crollata di spalle.

– Tornate all'altro motivo, ve ne prego; – soggiunse. – Questo, che accennate, val poco; anzi non val nulla affatto. Quante volte, nella vostra vita, avete trovato… che non era vero? —

Il padre Anacleto rimase un istante perplesso. Ma gli occhi scrutatori del monachino gli erano addosso. Perciò, fatta una pronta risoluzione, rispose:

– Parecchie volte; mettete anche cinque.

– Ah, meglio così; – disse il monachino, dopo aver fatta anche lui la sua piccola controscena. – Se m'aveste detto una volta sola, m'avreste fatto paura.

– Paura! perchè?

– Perchè? me lo domandate il perchè? Avevo creduto che non me lo domandereste; – rispose il monachino, con aria tra corrucciata e confusa.

Il padre Anacleto non vide lì per lì che il corruccio.

– Se v'ho offeso, perdonate; – diss'egli. – Io sono un pochettino ignorante. Vivo così fuori del mondo, che certe delicatezze mi riescono difficili oramai. Se dovessi intendere per un certo verso… se mi apponessi al vero… qualcheduno che so io mi salterebbe agli occhi.

– Qualcheduno! Chi?

– Il padre Agapito, per esempio.

– Ah, ecco il… sospettoso; – esclamò il padrino, con una sospensione, che accennava alla voglia di usare un altro epiteto. – Siete sospettoso voi?

– Ferocemente? – disse il padre Anacleto, intendendo di rispondere all'epiteto che non era venuto fuori. – Ed eccovi per l'appunto una ragione per star qui, lontano dal mondo e dalle sue tentazioni. Sospettoso e fantastico, cioè nato per essere infelice. Non vi pare che io faccia bene a ritirarmi in disparte?

– Eh! – rispose il monachino, con un sorrisetto più malizioso che mai; – mi pare che siate in certe materie un po'… —

E s'interruppe aspettando, che l'altro gli ripigliasse la frase. Il padre Anacleto obbedì a quel tacito invito.

– Vile, volevate dire? Sì, ditemi pure che sono un vile. Sfuggo almeno al ridicolo. Non getto alle turbe il segreto delle mie debolezze. Mi chiudo in questa solitudine della mente e del cuore. Ho l'apparenza della felicità, e conquisto la pace.

– Una pace di tomba; gran bella cosa! – esclamò il serafino, – E credete di fare il vostro dovere? Anzi, dirò di più, credete di non esser debitore di nulla al mondo, per poter farne impunemente ciò che fate? Signor priore, lasciate che una donna, una fanciulla, si attenti di darvi una lezione; direte poi se ho torto, ed io m'inchinerò al vostro giudizio. Voi, ammaestrato dall'esperienza, m'istruirete nei misteri della vita, nelle guerre ch'io non conosco, nelle viltà, più o meno sapienti, che io aborro istintivamente, e davanti alle quali ho chiusi gli occhi finora. Son donna, e non posso e non devo vedere ogni cosa. Ma posso dirvi, indovinando… Lo sapete pure, i più famosi indovini erano donne.

 

– Siete sul tripode, mia bella pitonessa; parlate; – rispose il padre Anacleto.

– Benissimo. Io dunque vi dico che, se la vita è una guerra, bisogna saperla accettare com'è. Il soldato che si ritira davanti al pericolo, non è un soldato. Qualunque siano le sue ragioni, fossero anche quelle di Achille, il ritirarsi sotto la tenda non è stato e non sarà mai bello. Sapete voi perchè siete nato? E se non lo sapete, perchè vi mettete a vivere come se non foste nato, sottraendo una forza al concerto di forze di cui ha mestieri la natura?.. Ho letto i miei libri anch'io, come vedete; – disse il serafino, ridendo. – Non ho esperienza mia; metto a profitto quella degli altri. Sentite qua, priore; Iddio si è pure scomodato a dare i suoi comandamenti all'uomo!..

– Dieci! Ed io non fo contro a nessuno dei dieci.

– Ma all'undicesimo? Qui vi voglio. C'è l'undicesimo, che li riassume tutti; o, per dire più esattamente, i dieci, che conoscete voi, ne suppongono un undicesimo ed ultimo.

– Ah sì? E qual è, di grazia, questo undicesimo?

– Eccolo qua. Non so se lo esprimo bene; ma voi mi correggerete, mettendolo in bella forma, e lo farete incidere nelle tavole della legge. Starai nel consorzio de' tuoi simili; vivrai della loro medesima vita; amerai e soffrirai con essi, perchè non ti è dato sottrarti alla legge comune.

– Egregiamente! – esclamò con ironico accento il padre Anacleto. – Ma la pena? Non c'è legge che valga, senza la sua sanzione penale. Spero che non mi vorrete già minacciare le pene dell'altra vita!

– Anche quelle, se occorre; – rispose il serafino. – Ma c'è una pena anche in questa, non dubitate.

– E quale?

– Pensateci, padre Anacleto, pensateci! E frattanto, ritorniamo al vostro ordine. Debbo restare, o partire? —

Il padre Anacleto guardò come trasognato quel biondo monachino che lo aveva messo con le spalle al muro. Voleva fargli la lezione, e per contro l'aveva ricevuta. E come se ciò non bastasse, quel malizioso padrino, dopo averlo così ridotto, gli diceva con piglio quasi beffardo: a voi, ricordate il perchè m'avete fatto venire a questo colloquio; debbo restare, o partire?

Partire! Era presto detto. Quella era stata anzi la prima idea del priore. Ma che diamine gli saltava in testa, al monachino, di richiamare il padre Anacleto all'adempimento di un dovere, proprio nel punto ch'egli se n'era scordato? Restare, poi! Come si sarebbe potuto dirgli di restare, dopo le rivelazioni del sottoprefetto di Castelnuovo, e la notizia che ne avevano avuta tutti i conventuali di San Bruno? E quella pena nella vita presente! Che cosa era quella pena? E perchè doveva pensarci lui, per indovinarla? Non era meglio andare per la più breve e dirgliela di volo?

Turbato da tutti quei dubbi, il padre Anacleto balzò in piedi e si diede a passeggiare lungo il viale. A passi concitati, si capisce; e rotando gli occhi, e mordendosi le labbra. Questo di mordersi le labbra, di rotar gli occhi e di fare le volte del leone, è un modo come un altro, per cercare un'idea: ma debbo soggiungere, per amore di sincerità, che esso non è sempre di effetto sicuro.

Una fiera battaglia si combatteva nell'anima del padre Anacleto. I tempi trascorsi gli ripassarono tutti dinanzi, mutandosi e rimutandosi senza posa, come le immagini bizzarre di un caleidoscopio. Vide i giorni in cui aveva amato e sofferto, ringraziato il cielo e bestemmiato… Sì, anche bestemmiato, perchè l'uomo non è un angelo, e le sue ire hanno sempre mestieri d'uno sfogo volgarmente feroce. Aveva egli amato mai veramente? Poc'anzi, rispondendo al serafino, aveva detto di no, e creduto di rispondere il vero. Ma infine, poco o molto che fosse, aveva amato; diciamo pure che aveva amato secondo l'età, con più leggerezza, per vanità di carattere e per ardore di sensi; ma, ad ogni modo, aveva amato e si era trovato nel caso di soffrire così profondamente, come se quell'amore fosse il più grande, il più solenne di tutta la sua vita. Ma in quel punto, e facendo senza volerlo un esame di coscienza, il padre Anacleto notava di non essersi mai trovato così oppresso da due pensieri ad un tempo; anzi tutto dalla vergogna di confessarsi debole ad una donna che non gli aveva lasciato intender nulla del proprio cuore e poteva ridere saporitamente di lui; inoltre, dal voto della comunità di San Bruno, che, se pure non faceva di lui un frate, non impegnava meno la sua fede di gentiluomo. E poi, quelle ombre moleste de' suoi compagni, che s'erano invaghiti del serafino! e quella ghirlanda di fiammole, passate dalle mani del padre Agapito a quella testina bionda che gli aveva fatto perdere il senno! Dio! Non possedere ancora la certezza di essere amato ed essere già così ferocemente sospettoso! Ma che sospettoso d'Egitto? Là, nel segreto della sua coscienza, queste ipocrisie non avevano corso. Geloso, bisognava dire; ferocemente, diabolicamente geloso.

Il padre Anacleto apparteneva a quella classe d'uomini nei quali predomina la fantasia, e che perciò soffrono il doppio degli altri. La mente si finge terrori e sospetti nuovi, e li ripercuote sul cuore. Uomini siffatti hanno paura di non essere amati, anche nei casi in cui ogni altro figlio d'Adamo si crederebbe già d'essere il re del creato. Dico il re del creato, perchè, infatti, l'uomo che si sente amato, o ne ha l'illusione, va sempre col pensiero a questo apogèo della felicità, che è l'impero del mondo. Non così i fantastici, dei quali vi ho detto; essi dubitano sempre, e di tutto. Forse vedono meglio degli altri; perchè, andiamo in fondo, qual è la creatura di cui sia certo l'affetto, anche quando ve lo ha dimostrato? Non siamo noi esseri mutabili, secondo le varie impressioni? E non è possibile che una donna già mezzo vostra, anzi vostra del tutto, si cangi in un punto? Sono capricci indefinibili, quelli che muovono il cuore, come sono quantità imponderabili quelle che danno il crollo alla bilancia. Più delicato è il congegno, più è soggetto alle influenze esteriori.

Del resto, mettete pure che il padre Anacleto non pensasse nulla di tutto ciò che son venuto esponendo. Egli andava su e giù, non pensando affatto; faceva come l'ubbriaco, che cerca un filo e non lo trova, o che, vedendone parecchi, tra le idee confuse che gli si affacciano alla mente, non ne afferra nessuno. Una volta si fermò davanti al serafino, come se volesse dirgli qualche cosa; poi si volse di schianto e proseguì la sua via. Si pentì subito subito, e tornò indietro; si fermò da capo, e la parola gli tremava sulle labbra. "Vi amo!" voleva dirgli. Ma no; era una frase volgare. E poi, l'avesse anche detta, che cosa si sarebbe sentito rispondere? Se il monachino biondo gli avesse riso in faccia? Perciò non disse nulla; si contentò di guardare il serafino nel bianco degli occhi. E il serafino lo guardava a sua volta con una fermezza quasi beffarda, come se volesse dirgli: oh, se non incominci tu, bel priore, non parlo io di sicuro!

Finalmente, poichè tutto ha un fine quaggiù, anche i contrasti di un'anima innamorata, il padre Anacleto prese una risoluzione. Era forse la peggio; ma compatitelo, egli non era padrone di scegliere.

– Avete ragione; – diss'egli; – partirete.

– Ah! – esclamò il serafino.

Il padre Anacleto si pentì subito di averla detta; ma non era più tempo. Del resto, quella esclamazione del serafino non significava rammarico; era una esclamazione breve, senza espressione, senza colore; si poteva anche interpretarla per un grido di allegrezza.