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L'undecimo comandamento: Romanzo

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XVI

Intanto Adele fra le ombrose piante…

Ma no, parliamo anzi tutto del padre Anacleto. Voi lo avete visto assai brutto, nella sua conversazione col sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, e non solamente perchè lo annoiasse quella visita del rappresentante del governo. Gli erano rimaste scolpite in mente le parole del fratello Giocondo, e le andava considerando da tutti i lati. "Per non lasciarli soli!" Ma era proprio necessario che non andassero soli a passeggiare nel bosco, mentre il bosco era rinchiuso nella cinta del convento, e a forse dugento passi da casa? Ed era proprio necessario che quella cura cavalleresca se la prendesse il padre Agapito? Egli non aveva mai osservato il padre Agapito con occhio d'artista; ma in quel momento, pensandoci su, gli pareva il più giovane e il più bello tra tutti i conventuali di San Bruno. E proprio lui ad accompagnare la signorina e lo zio, per non lasciarli soli!

Si aggiunga che il sottoprefetto, con tutte le sue chiacchiere, gli faceva perdere un tempo prezioso. Quanti altri discorsi non si sarebbero fatti in quel mezzo, e più gustosi, nel romitorio delle Querci? E lui, frattanto, il povero priore, a dirsela col sottoprefetto, per cagione di madonna! E lui a sentirsi gettar là il sospetto che un pretendente alla mano di Adele Ruzzani potesse uscir fuori dal convento laico di San Bruno! E quel pretendente di cui egli negava l'esistenza, non poteva essere il padre Agapito in persona? Questo pensiero gli aveva dato una stretta al cuore; lo aveva fatto scattare come una molla; lo aveva reso ingiusto con lei, feroce col signor Prospero, rabbioso col padre Agapito, e in fine, e sopra tutto, scontento di sè medesimo. Oh, scontento, poi, in un modo da non dirsi!

Il povero priore non lo sapeva mica, che diavolo s'avesse in corpo. Son io, che, dovendo pure dipingervi l'uomo, mi trovo costretto a lasciarvelo indovinare. Se uno in quel punto gli fosse capitato davanti e gli avesse spifferato lì chiaro e tondo quello che noi ora pensiamo di lui, altro che scattare come una molla! Scommetto che il nostro ottimo priore sarebbe saltato come saltano qualche volta le polveriere, per un tiro bene aggiustato di artiglierie nemiche, o per imprudenza di amici e custodi. Lui, per esempio, lui innamorato? lui, l'uomo della pace, il cuor morto ad ogni affetto, e l'inventore benemerito della seconda vocazione? Oh, mai!

Accompagnato il sottoprefetto fino all'ingresso del ponte (e con che gusto, immaginatelo voi), il padre Anacleto se ne ritornò verso il convento. Erano le tre del pomeriggio. Il cielo appariva sereno, di zaffiro sbiancato e asperso di una polvere d'oro, sotto la vampa del sole. Il vecchio monastero di San Bruno aveva un'aria di festa, quasi di gioventù. Spariscono le rughe dal volto, alla luce dei doppieri, in una festa da ballo. Ed anche un muro screpolato, un intonaco annerito e corroso da un centinaio d'inverni, può apparir bello, quando vi batton sopra i raggi del sole. E poi, le mura del convento di San Bruno prendevano come un aspetto di vita dalle alte finestre, coi davanzali sporgenti, donde ricadevano in fuori le mostre variopinte dei violaciocchi, delle verbene e dei garofani schiattoni; bella usanza svecchiata dagli antichi conventuali, che amavano tutti di avere il loro orto pensile, come un invito ai sorrisi del sole nelle prime ore del giorno. Il portone era spalancato, e di là dalla mezz'ombra dell'androne, si vedeva scherzare tra i colonnini del chiostro una luce più viva, forse perchè riflessa dalle mura rintonacate di fresco; e insieme con quella luce spiccavano tra i vani le tinte vermiglie dei vivaci oleandri e le gialle delle eleganti giorgine.

Il lieto spettacolo dell'ingresso non attrasse il padre Anacleto. Nel lume di quella apertura donde gli veniva tanta varietà di toni più caldi, si disegnavano a tratti e sparivano certi profili scuri come chiazze di terra d'ombra. Erano i compagni del padre Anacleto, che andavano e venivano lungo le arcate del chiostro. Per solito, intorno a quell'ora, i frati di San Bruno, a riposarsi dalle ore di studio, si raccoglievano a chiacchierare, ed erano tra loro discorsi interminabili d'arte, di filosofia e di politica. Sì, anche di politica. Questa poco piacevole materia di discorso entrava anche a San Bruno, ma di sbieco, come di rimbalzo, e senza la millesima parte di quella che i matematici direbbero la sua forza iniziale. Politica svigorita, insomma; politica passata allo staccio, e che aveva lasciato per via tutto il noioso accompagnamento delle ragioni personali. Se sapeste come si parla bene di politica, quando non se ne spera e non se ne aspetta nulla, nè di prima, nè di seconda mano! Si gode come tanti astronomi, quando cade tra loro il discorso sulle rivoluzioni di Marte, sulle malinconie di Saturno, e sugli splendori di Venere.

Al padre Anacleto parve che quei frati si muovessero con una volubilità maggiore dell'usata, o almeno con più spigliatezza, indizio di vivacità, di allegrezza maggiore, e chi più n'ha ne metta. E la cosa gli piacque; perchè, come vi ho detto, il padre Anacleto non era in uno dei suoi giorni migliori, e tutto gli dava noia.

Voltò a destra, seguendo il sentiero che rasentava le mura del convento. Ed anche colà ogni cosa rideva al sole, più che egli non avesse veduto mai; forse perchè non gli era accaduto mai di osservare tanto contrasto fra l'aspetto delle cose e lo stato dell'anima sua. Il sentiero correva in mezzo a due file di erbe umilissime, di quelle tali erbe che solo un botanico riconosce. Mettete che fossero pastinache da un lato, e romici dall'altro. Ma le pastinache avevano gli ombrellini fioriti d'un bianco così splendido, le romici avevano le foglie d'un verde così insolente, che egli non si ricordava di avere mai visto l'eguale; forse perchè non gli era accaduto di osservare tanto contrasto… Diavolo! ripetevo una frase già detta poc'anzi. Scusate, lettori, mi fermo in tempo e non vi dico più altro.

E i calabroni, che andavano ronzando qua e là nella frappa! E le farfalle screziate d'oro, che aliavano di fiore in fiore! E le cavallette, che saltavano di cespuglio in cespuglio! E le cicale, che facevano il loro verso monotono da ogni tronco d'albero, lungo la strada! E le lucertole, che guizzavano da un sasso all'altro! E gl'insetti di cento specie diverse, che susurravano d'ogni parte il loro inno alla vita! Tutte le forme delle operosità, tutte le voci dell'esistenza, stringevano d'ogni parte il padre Anacleto, che andava… Dove andava? Or ora lo saprete, se già non l'avete indovinato.

A mano a mano che egli s'inoltrava, la via si faceva più scabra. Il terreno scoglioso dava ospitalità ad erbe di più facile contentatura. Ma in quella stagione le erbe di primavera cedevano il campo alle erbe d'estate, e si vedevano intiere famiglie di cadaveri ritti, che un soffio di vento avrebbe abbattuti, o l'urto d'un piede mandati in frantumi. La più parte erano imbrèntini, che nel maggio avevano fatto pompa delle bianche corolle e degli stami dorati, ma che allora mostravano i calici disseccati e le foglie bruciate dal sole. Ma tutto non era vecchio, nè moribondo, colà. In mezzo a quel seccume di cespugli, le eriche spingevano in alto le loro vette verdeggianti, gremite di fiorellini; e i prunai facevano pompa dei loro frutti rossicci che solo l'autunno avrebbe maturati; e il timo vestiva a nuovo i suoi piccoli rami serpeggianti, e la vitalba stendeva d'arbusto in arbusto le sue braccia sottili. Ogni cosa mostrava di vivere; anche la morte, poichè essa metteva in mostra i germi di una vita futura. Dai calici inariditi apparivano le capsule semi aperte, coi grani pronti a balzar fuori, per dar vita a nuove generazioni di piante. E la vampa del sole incombeva su tutto, con lo sguardo tranquillo e possente dell'eterno signore, che sa di possedere e di essere amato.

Ancora una volta, mi domanderete, dove andava il priore? E qui, se non mi risolvessi a dirvelo io, sareste capaci di dirmelo voi, facendomi perdere il merito dell'annunzio. Passin passino, il padre Anacleto se ne andava al romitorio delle Querci.

Il piccolo edifizio fratesco, chiamato con questo nome, sorgeva su d'un poggio alle spalle del convento. Di lassù si allargava la prospettiva, e in mezzo a due contrafforti del monte si spiegava in lontananza una valle, nel cui fondo, ove il cielo si confondeva col piano, appariva qualche cosa di bianco, che doveva essere la piccola città di Castelnuovo Bedonia. Veduto di lassù, il capoluogo del circondario amministrato dal cavaliere Eudossio Tiraquelli non riesciva punto noioso; anzi, il serafino biondo, appena giunto sul colmo dell'erta, aveva dichiarato che quello era l'unico punto da dove si potesse contemplare con qualche apparenza di gusto il suo domicilio legale.

L'eremo prendeva il nome da un filare di querci, che incominciava a vedersi in prossimità della sua vetta. Le querci costeggiavano il sentiero sassoso che metteva a quella solitudine. Ma la più parte degli alberi era stata tagliata dai primi compratori del convento. Restavano solamente cinque o sei querci, dai tronchi bistorti, che avevano avuta la fortuna di non parer buone a nulla, e di esser lasciate in piedi sul ciglio natale, donde protendevano i loro rami sfoggiati su d'una piega laterale del colle.

La pace del luogo era fatta per rasserenare uno spirito anche più turbato di quello del padre Anacleto. Al canto delle cicale, che sembrerebbe così monotono e fastidioso in città, si avvezzava facilmente l'orecchio in quella solitudine aprica. Il saltellare delle locuste, l'aliare delle farfalle di cespuglio in cespuglio, il trapassar veloce delle libellule dal corpo sottile e dai riflessi metallici, tutto, perfino quel confuso tremolìo dell'aria, che sembrava un continuo brulicar di vapori da terra ai raggi assidui del sole, doveva rallegrare lo sguardo del viandante, o, alla più trista, fargli dimenticare per un momento le molestie della vita. Ma all'orecchio del padre Anacleto era giunto un altro rumore, che non gli consentiva di tener dietro al canto delle cicale. E il suo occhio cercava qualcheduno, di cui quel rumore indicava la vicinanza.

 

Avrete già inteso che quello era un rumore di voci. Esso veniva per l'appunto dalla insenatura del poggio che era protetta dall'ombra delle querci. Il padre Anacleto si avanzò guardingo, per quella propensione naturale che abbiamo tutti a cogliere qualche segreto in aria, e che in lui era accresciuta da ragioni particolari, veramente inutili a dirsi.

Si avanzò guardingo, come vi ho detto, allungò il collo tra due cespugli, e vide… Vide tal cosa che aveva il torto grandissimo di rassomigliare maledettamente ad una scena d'idillio. Lo saprete anche voi, lettori umanissimi; non c'è cosa che dia noia come un idillio, nel quale noi stessi non abbiamo una parte, ed una parte primaria, per giunta.

Accenniamo la scena. Anzi tutto il padre Prospero, sdraiato sul tappeto, in verità non troppo soffice e non troppo verdeggiante, del prato, con la testa posata contro la sporgenza d'un sasso e col suo fazzoletto sugli occhi, per ripararsi dai raggi del sole che sforacchiavano in alto la frappa. Accanto al padre Prospero il serafino biondo, seduto con una quantità di fiori in grembo. Più lungi, accanto ad un prunaio, il padre Agapito, che stendeva le mani davanti a sè, per cogliere certi ramoscelli fioriti e recarli al serafino biondo.

– Date qua, – diceva il monachino, – e non ne cogliete più altri. Vorreste per caso seppellirmi sotto i fiori? Ce n'ho già per tre ghirlande, non che per una. —

Il padre Agapito si era affrettato ad obbedire, e portava al serafino biondo due bei rami sarmentosi di fiammola. Se nol sapete, la fiammola è la più vaga e la più odorosa delle nostre clematiti. Nasce spontanea ne' boschi e ricinge con le sue braccia flessuose i tronchi degli alberi, s'intreccia coi prunai, serpeggia, s'innalza e ricade graziosamente, facendo pompa di bei fiorellini bianchi e stellati, dal cui mezzo si rizzano gli stami filiformi a pennacchio.

Di que' sottili ramicelli il serafino biondo aveva intrecciata una ghirlanda, e, cedendo ad un moto di vanità infantile, se n'era cinto le tempia. Pareva uno di quei leggiadri fraticelli incoronati, che occorrono così frequenti nelle tavole dipinte del Quattrocento, così piene di poesia e di sentimento religioso.

– Che ragazzate! – esclamò il priore stizzito.

Perdonate questo sfogo di malumore al padre Anacleto. Egli aveva veduto il padre Agapito piantarsi davanti al serafino, e rimaner là estatico, in adorazione, come un domenicano, o un francescano qualunque, al cospetto della Madonna, in una di quelle tavole che vi ho accennate poc'anzi.

Gli era venuta la voglia di balzar fuori dal suo nascondiglio. Ma il pensiero di capitar là come un guastafeste lo trattenne. Era un pensiero pieno di amarezza, che egli non conosceva ancora, o che forse aveva dimenticato da un pezzo. Il povero padre Anacleto stette alquanto sopra di sè, come studiando quel nuovo sentimento del suo cuore; indi scosse sdegnosamente la testa e si allontanò dal suo osservatorio. Lentamente da prima, per non farsi sentire; indi a precipizio, per la via che metteva al convento.

Tratto tratto si fermava lì sui due piedi, senza che ne apparisse il perchè; rotava gli occhi, si mordeva le labbra, crollava la testa, quindi ripigliava l'aìre. Ahi, padre Anacleto! Quanto mutato da quel degno priore d'una volta, che viveva contento a San Bruno, nella placida rinunzia e nel benevolo disprezzo dell'universo mondo! Era lui che aveva inventata la frase. E su lui la natura, eterna prepotente, vendicava l'umanità conculcata.

Niente gli andava a versi, in quel punto; nè il sole, che lo coglieva di sbieco, obbligandolo a torcer gli occhi; nè lo stridìo delle cicale, di cui si accorgeva la prima volta in quel giorno; nè lo svolazzare degli insetti, mosconi e libellule, che venivano a far le capate contro le sue guance imperlate di sudore, o farfalloni e vanesse, che gli facevano davanti agli occhi la loro danza capricciosa. Un bel ramarro verde si soleggiava sul colmo d'uno scoglio, e lo guardava con due occhietti lucidi come rubini. Sapete che il ramarro è l'amico dell'uomo. Io forse un giorno vi racconterò la storia della mia amicizia con due ramarri; amicizia che costò loro la vita. Ma per non allontanarmi dal ramarro del padre Anacleto, vi dirò che il saurio innocente se ne stava lassù, guatando il passeggero e ansando con le fauci semiaperte. Parve al priore di essere canzonato da quella graziosa bestiuola? Od era forse più vero che in quel momento non volesse veder nessuno, nè uomo, nè bestia? Fatto sta che il priore si chinò, raccolse un sasso da terra e lo levò in alto per castigare l'insolente. Per fortuna, il ramarro vide quel braccio in aria, e guizzò via come folgore. Del resto, anche il padre Anacleto, pentito di quel moto di collera irragionevole, lasciava ricadere la pietra.

– Diavolo! – borbottò egli, riprendendo la sua via. – Bisogna farla finita; se no, si perde la pace. —

Tornò al convento, senza fare altre fermate, o monologhi. I suoi frati erano quasi tutti sotto il portico, e in attesa del pranzo stavano ragionando di politica. Vi ho già detto che quell'argomento non era sbandito da San Bruno. Si può parlar di politica senza guastarsi il sangue, quando non c'entrano le ragioni personali, nè di prima, nè di seconda mano; in quella stessa guisa che si può toccare impunemente una vipera, o un serpente a sonagli, se a questi interessantissimi ofidii siano stati strappati prima i denti del veleno. Resta sempre la necessità di toccarli con precauzione, per cansare le strette. E così la politica, anche come discorso accademico, vuol essere trattata coi guanti.

Per quell'onesto riguardo che tutti usavano al padre Anacleto, gli si domandò il suo parere su d'un punto controverso. Ma il priore, che in ogni altra circostanza avrebbe trovato il modo di contentare le due parti, trovando il buono, o almeno la buona intenzione da per tutto, per quella volta si allontanò dal suo metodo e ne disse di tutti i colori. Niente andava più bene in Italia. Si era in un ronco. O saltava il ministero, o si sarebbe andati incontro a grossi guai.

– Priore, o che l'avete fatto anche al sottoprefetto, questo discorso? – chiese facetamente il padre Tranquillo.

– Gliel'avrei fatto sicuro, se avesse chiesta la mia opinione; – rispose il padre Anacleto. – Egli è venuto invece a parlarmi di tutt'altro. Sapete di che?

– Sentiamo; – dissero tutti, raccogliendosi intorno al priore.

– Dei due novizi che abbiamo accettati a San Bruno. —

Così disse il priore, e si pentì subito di aver cominciato. Ma i due novizi erano stati meno fortunati del ramarro. Il sasso era gettato e non si tirava più indietro col desiderio.

– Oh diamine! – esclamò il padre Atanasio. – E come c'entra il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia?

– C'entra… c'entra, – balbettò il priore, che oramai doveva dir tutto, – perchè il padre Prospero è un vecchio tutore di Castelnuovo.

– Un nobile ufficio quello di tutore! – disse il padre Tranquillo. – E forse il nostro novizio ha dilapidate le sostanze del pupillo?

– Magari lo avesse fatto, che non ci avremmo a veder nulla noi altri! – scappò detto al priore.

– Che ha fatto dunque di male? – gridò il padre Bonaventura.

– Avete incominciato; dovete dirci ogni cosa; – soggiunse il padre Restituto.

– Ha condotto il suo pupillo tra noi; – rispose con voce sepolcrale il priore.

– Ah! il padrino Adelindo? – esclamarono tutti.

– Che non è un padrino; – ripigliò il padre Anacleto. – Il pupillo, signori miei, è… una pupilla.

– Grande scoperta! – gridò il padre Restituto. – Lo avevamo detto, noi altri, e voi non volevate crederlo. —

La faccia del priore si rabbruscò, a quell'escita del padre Restituto, capo dell'opposizione in capitolo.

– Adagio, Biagio! – osservò il padre Tranquillo, prendendo le difese del superiore. – Il nostro degno priore, se ben ricordo le sue parole, non ha già detto di non volerlo credere. Ha detto che, quando pure il monachino fosse stato… una monachina, non c'era da far nulla, e che la nostra cavalleria doveva far le viste di non accorgersi della cosa.

– E forse ho avuto torto; – soggiunse gravemente il priore. – Eravamo allora nel dubbio; oggi abbiamo la certezza. Il padrino Adelindo non è altro che Adele Ruzzani, una ragazza di Castelnuovo, pupilla del signor Prospero Gentili, suo zio materno, e fortunata erede d'un vistoso patrimonio. Un capriccio di testolina bizzarra l'ha condotta qui, nel convento dei matti… come dicono cortesemente laggiù! Il tutore è uno sciocco. Almeno, la sua condiscendenza al disegno stravagante della nepote ce lo fa avere per tale.

– Quel caro padre Prospero! – notò pietosamente il padre Anselmo.

– E noi – proseguì il priore, senza por mente all'interruzione – siamo qui in un bivio curioso; o di perdere la nostra cara tranquillità monastica, ritenendo una donna tra noi, o di mostrarci ridicoli, fingendo di non saperlo. Che ve ne pare?

– Non vedo il ridicolo; – disse il padre Restituto.

– Come? Voi, per l'appunto, che gridavate più di tutti?

– Mi son convertito alle vostre ragioni; – rispose il padre Restituto, con un candore che sapeva d'ironia. – Del resto, amico priore, se voi mettete a' voti le due corna del dilemma, ci troverete in maggioranza pel ridicolo. Scusate, è un gusto come un altro, e chi si contenta gode. Il padrino Adelindo, poichè io sto sempre per chiamarlo così, è un ottimo ragazzo. È la luce e l'allegria del convento. Quando non c'è lui, par d'essere al buio. Infatti, signori, – conchiuse il padre Restituto, levando la voce e stendendo la mano, – ecco un raggio di sole. —

Proprio in quel punto, appariva dall'androne il serafino biondo, seguito dal padre Prospero e dal padre Agapito.

Quest'ultimo aveva una cera non troppo contenta. Forse gli dispiaceva che la passeggiata fosse finita; forse aveva avuto qualche piccola contrarietà. Più allegro era il padre Prospero, che si toglieva finalmente dal sole, e si avvicinava per giunta al refettorio. Quella mattina il cuoco gli aveva promesso un desinare di suo gusto, con una certa replica d'agnellotti, che gli erano maledettamente piaciuti il giorno prima, e il padre Prospero, mandando a quel paese i consigli del medico, si abbandonava tutto alla voluttà di una pregustazione, che era già per la sua incipiente polisarcia un prezioso alleato.

Precedendo di qualche passo i compagni, il padrino Adelindo entrava nel chiostro. Il viso, incoronato da quella bionda zazzerina che sapete, si mostrava tutto di un incarnatino tenero, pari al colore delle rose bengalesi, che trasparisce da una velatura di bianco. E gli occhi! Che dirvi degli occhi? Si capiva, vedendoli, anche il riso di Beatrice, che ha esercitata la pazienza di tanti commentatori della Divina Commedia. Ricorderete, o lettori, che Beatrice rideva con gli occhi.

Accenno un fatto nuovo, che s'intenderà di leggieri, quando si pensi che per la prima volta si vedeva il monachino biondo senza più dubitare del vero esser suo.

– Come mai si è potuta fidare di venir qua in veste d'uomo? – chiedevano gli astanti in cuor loro.

E la tacita domanda era naturale in tutta la comunità di San Bruno. Coloro che avevano creduto un uomo il biondo novizio, dovevano riconoscere di aver avute le traveggole; tutti gli altri potevano maravigliarsi che i loro compagni le avessero avute. E negli uni e negli altri era l'obbligo oramai di riconoscere la donna, anche facendo le viste di durar nell'inganno.

Gl'inchini al biondo serafino furono molti; i complimenti per il suo aspetto fiorente si alternarono con le premurose domande intorno alla sua passeggiata. Poco mancò che taluni non gli offrissero il braccio, per condurlo in refettorio. Arcano potere di due begli occhi!

– Bisogna finirla; – borbottava il priore, rimasto alquanto in disparte, – bisogna finirla! —

Il serafino biondo si accostò a lui col suo leggiadro sorriso. Al giocondo lume dei due smeraldi, onde Amore gli aveva scoccate le sue armi (permettete che io vi significhi la cosa con una immagine dantesca), il povero priore si sentì rimescolare il sangue nelle vene. E facendo forza a sè medesimo, e cercando di dare alla sua faccia una espressione più severa del solito, così disse al serafino biondo:

– Non avete più la vostra ghirlanda di fiammole?

– Ah! – esclamò il serafino. – Eravate lassù? Ma perchè non venirci a trovare? —

Il padre Anacleto non credette opportuno di rispondere.

– Del resto, avete fatto bene; – soggiunse il serafino. – Si parlava tanto di voi!

 

– Di me? – chiese il priore, inarcando le ciglia. – E che cosa si è potuto dire di me?

– Non male, sicuramente. Anzi ho pensato ad un certo punto che dovessero fischiarvi gli orecchi. Si parlava, tra l'altre cose, della gran noia che vi dava quel sottoprefetto con la sua lunga fermata. —

Così dicendo, il serafino fissava gli occhi addosso al priore, come se volesse leggergli in faccia il segreto di quella visita.

– Ah, sì; – disse il padre Anacleto; – quel sottoprefetto è un cert'uomo!..

– Che cosa voleva da voi? È lecito saperlo?

– Ve lo dirò più tardi, padrino Adelindo. Ho bisogno per l'appunto di parlare con voi e con vostro zio, e mi farete la grazia di passare dopo pranzo da me.

– No, no, niente grazia, con mio zio! – rispose il serafino. – Preferisco farla da solo. Andrò verso il giardino, e voi mi accompagnerete. Va bene così? —

Il priore Anacleto rimase un po' sconcertato da quell'aria di padronanza. Ma poi si strinse nelle spalle e chinò la testa in atto di dire: – sia fatta la vostra volontà. —