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L'undecimo comandamento: Romanzo

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XV

Ecco adunque il signor sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia messo dentro alle segrete cose del convento di San Bruno. Ma ohimè, molto meno addentro di quello che egli credesse. Perchè, infatti, se egli si era posto in mente di sorprendere la signora Adele Ruzzani, il conto gli riusciva fallato, per la prontezza di spirito del priore.

Questi, a dir vero, aveva date le sue istruzioni in genere, per lasciar libertà a tutti i suoi colleghi di essere o di non essere presenti. Ma non voglio neanche tacervi che nella sua sollecitudine c'entrava un pochino il pensiero del serafino biondo. Bisognava stare con gli occhi bene aperti, poichè tutti quei tentativi di entrare in convento, da parte dei signori Castelnovesi, miravano al padrino Adelindo. Il priore lo aveva indovinato, anche senza sapere che il padrino veniva dal capoluogo del circondario. Lo perseguitavano dentro e fuori, il grazioso monachino, e lui lo difendeva di dentro e di fuori. Questo era nella nobiltà dell'animo suo, ed anche un pochino in quel certo che di gentilmente puerile, che tutti gli uomini hanno, quando non si vergognano di essere a tempo e luogo bambini.

Così avvenne che all'ora della colazione, di sedici frati che vivevano a San Bruno, non ce ne fossero in refettorio che quattordici. Il padre Prospero e il padre Adelindo erano andati fuori, e la campana del refettorio non aspettava nessuno.

Ma, che diavolo? Non erano neanche quattordici, i presenti. Oltre quei due, che il priore non s'aspettava di vedere a tavola, mancava anche il padre Agapito. Anche lui fuori; e perchè?

Il priore trovò un minuto di tempo per chiederne al fratello Giocondo.

– È andato a passeggio col padre Prospero e col padrino; – rispose il converso; – per non lasciarli soli. Tutti e tre mi hanno detto di andarli ad avvertire al romitorio delle Querci, quando sarà partito il sottoprefetto.

– Per non lasciarli soli! – mormorò dentro di sè il padre Anacleto. – Benissimo! —

E qui sarebbe il caso di soggiungere: "benissimo un corno!" perchè al padre Anacleto quella novità piaceva poco. Il degno priore si seccò maledettamente, a colazione, e il malumore gli crebbe tanto, mentre faceva vedere il convento al suo noioso visitatore, che incominciò a rispondergli in un certo modo agrodolce, che non era mai stato nelle sue consuetudini.

– Ma sa Lei che questo è un piccolo paradiso? – andava dicendo il sottoprefetto. – Non ci manca che l'angelo con la spada di fuoco, per cacciarli fuori. Perchè, infine, scusi la libertà delle mie parole, questo è un tradimento che fanno alla società.

– Signor commendatore, – rispose il padre Anacleto, – alla società non siamo debitori di nulla.

– Eh, nulla!.. nulla, poi! Dove mi mette Lei i canoni della filosofia civile?

– La filosofia civile! La filosofia civile, è una spiritosa invenzione dei filosofi. E poi, quand'anche fosse una cosa seria… Scusi, non parlo pe' miei colleghi, che possono difendersi meglio da sè; parlo pel mio signor me, che conosco un tantino. Qual è, secondo la filosofia civile, il mio debito verso la società? Darmi a lei, secondo le forze e l'ingegno. Le forze, le ho date, quando era necessario, e fin dove ho potuto, in uno di quegli uffici che non sono dei più ricercati, in una di quelle posizioni in cui non c'è nessuno che voglia starvi dinanzi. Se Dio vuole, ce n'è uno, dei posti, che non fa invidia ai soliti competitori; il posto del soldato in faccia al nemico. E qui, modestamente, ma volentieri, ho fatto il debito mio. Resta l'obbligo secondo l'ingegno. Ma qui, la prego a considerare una cosa. Io non ho ingegno; sono una talpa; non devo dunque più nulla.

– Il suo modo di argomentare, perdoni, non è solamente un tantino paradossale; – osservò il sottoprefetto; – ma è grandemente ingiusto verso di Lei. —

Il complimento era girato bene; ma il priore non ci si lasciò cogliere.

– Non creda, commendatore, non creda. Ci ho un po' di chiacchiera che inganna; ma è tutto spolvero, praticaccia, senza alcun lume di scienza. Ho studiato poco, da giovane, ed ho lasciato correre, da uomo maturo. Tornando alla questione, io, senza dottrina e senza trattati la ragiono così. Che cos'è questo diritto sociale? Come lo intendono loro, non è altro che la giustificazione di tutte le tirannie, levate di mano a Tizio e Caio, e date in custodia al signor Tutti, un benedetto uomo il quale non sa mai che cosa si voglia. La società vuol questo; la società vuole quest'altro; qui non si può stare perchè l'interesse sociale non lo permette; di qui non si può escire, perchè l'interesse sociale non lo consente. Se studio l'arabo, la società vuol far di me un professore; non mi serve a nulla il dire che l'ho studiato per mio gusto; debbo essere professore, l'interesse sociale esige che io lo sia, affinchè un altro professore possa dar dell'asino a qualcheduno e dichiararmi un intruso nel gran tempio del sapere. Perchè c'è anche il tempio, coi rispettivi penetrali e il rispettivo sacerdozio. La società si tratta bene, con la rettorica per maestra di casa. Ma in nome di Dio, bisognerebbe che c'intendessimo sul valore delle parole e sulla definizione dei doveri. Ci abbiamo invece una dozzina di scuole, se non più, ognuna delle quali interpreta tutto a suo modo. Un giorno erano dottrinarii; oggi son tutti sperimentali; domani saranno tutti evoluzionisti; dottrinari che ammettevano questo e negavano quest'altro, scindendosi in varie chiesuole; sperimentali che negavano questo e ammettevano quell'altro, spartendosi anche loro in tanti laboratorii; evoluzionisti, che ammetteranno e negheranno ogni cosa, per far la strada pulita e ritornare da capo. Prima avevamo l'individuo libero, anzi allo stato selvaggio e nato, magari Dio, senza levatrice; poi venne, o tornò, l'uomo schiavo di tutte le autorità ideali e materiali, dalla formola del filosofo alla chiamata del questore (scusi, veh, ma questa è storia per sommi capi); adesso abbiamo l'uomo libero da capo, e tutte le teoriche a bollire nella medesima pentola. Sciogliere, legare, accentrare, decentrare, libero arbitrio e impulso fatale, probabilità e necessità, leggi scaturite dal fatto, fatti rampollati dalla legge, l'ovo prima della gallina e la gallina prima dell'ovo; io, per me, credo sia tutto un intruglio, un sacco d'invenzioni più o meno felici, per esercitare i rètori moderni e intrattenere i curiosi. Credo anch'io a certi doveri, ma d'indole negativa, come il non far male a nessuno. Credo ancora che il fare del bene sia una bella e nobile cosa; ma anzi tutto, che cosa sono la nobiltà e la bellezza? Armonia di linee, equilibrio di facoltà, dicono i moderni. Appunto per ciò, la nobiltà è un fatto, non una legge. Se pure lo fosse, noi potremmo mettere tra i contravventori i cinque sesti dell'umanità. Veda un po' che razza d'armonie! C'è anzi dei filosofi che le chiamano antinomie, e ci hanno bravamente già costrutto un sistema. Ella si annoia, commendatore… Non mi dica di no; lo vedo, lo sento, e finisco. Noi siamo qui oltre una dozzina d'uomini, i quali, in tanta confusione d'idee, abbiamo creduto savio partito di tirarci da banda. Aggiunga che la società ci annoiava; tutti, qual più, qual meno, abbiamo avuto a dolerci della società, o di qualcheduno dei suoi, e ci siamo allontanati dal giuoco. Eccoci qua in un convento laico, come ha detto benissimo Lei. Questa è la vita in pochi, e perciò facilmente accomodata al gusto di tutti gli interessati, con norme accettate volentieri da ognuno. Viviamo in pace rispettosa con le leggi del paese, paghiamo le tasse, non domandiamo d'essere riconosciuti come un ente morale; agli occhi della società siamo e non siamo. In compenso della nostra modestia, le domandiamo una cosa sola; di non parlarci delle sue tirannie, battezzate col nome di doveri positivi. Vede, avevamo un tiranno, Mastino II della Scala, capitato qui non so come, forse come un avanzo d'eredità toccata agli antichi frati di San Bruno. Anche dipinto, quel tiranno ci dava noia; lo abbiamo messo alla porta, lo abbiamo relegato nel parlatorio, là presso al ponte, perchè se la dica coi forestieri, lasciando in pace noi altri. —

Il padre Anacleto non era stato mai così sciolto di lingua, nè così fiero e sarcastico. Ma già, voi l'avete capito, o lettori; il padre Anacleto aveva perdute le staffe. E intanto che snocciolava le sue massime, dentro di sè il padre Anacleto pensava a tutt'altro; per esempio al padre Agapito, che era andato fuori col padre Prospero e col padrino Adelindo.

– Per non lasciarli soli! —

Questa era la frase detta dal converso. E questa frase gli si era scolpita davanti agli occhi, come il famosissimo Mane Thecel Fares agli occhi di Baldassare.

– Per non lasciarli soli! —

E in questo pensiero si andava crucciando il nostro degno priore. Perchè? Mettete che fosse per amore del buon ordine e della serietà del convento, frutto di quella tale abitudine di sorveglianza, che fa scorgere un guaio in ogni piccola novità. Il pensare in questa guisa sarà anche un fargli cortesia, poichè egli stesso credeva di crucciarsi per quella sola ragione.

Frattanto, il sottoprefetto si disponeva a rispondergli.

– Ella ha parlato eloquentemente. Sì, mi permetta di dirlo, eloquentemente! Ma Lei mi perdonerà se io mi permetterò di soggiungere che anco Cicerone e Demostene…

– Hanno perdute delle cause; è questo che vuol dire? – interruppe il padre Anacleto. – Oh, Dio buono, lo so; come so di non esser Demostene, nè Marco Tullio. Noi, del resto, signor commendatore, le cause nostre ce le trattiamo e ce le giudichiamo da noi, e in questa, che è capitale, ci siam data ragione. Di grazia, che cosa fanno, loro del governo, a chi vive secondo le leggi? Lo lasciano stare ne' suoi panni; al più al più, glieli fanno stringere addosso qualche volta dall'agente delle tasse. —

Il sottoprefetto sorrise di mala voglia. E le parole e il tono con cui erano profferite lo seccavano ad un modo.

 

– E qualche volta, – replicò egli, – si fanno lecita una piccola osservazione. Noi siamo per la libertà in tutto e per tutti, ma non rinunziamo all'ufficio di dare un consiglio, quando ci sembri utile il farlo. Io, le parlerò schiettamente, sono venuto qua per due cose. Anzitutto, per vedere di persuadere Lei e i suoi colleghi dell'errore in cui vivono. Scusi, sa, ma non è bella questa loro rinunzia al civile consorzio, con tutti i danni che la società ne risente. Se non vogliono riconoscere i diritti della società, pensino, pensino a quelli dell'Italia, di questa gran madre, al cui risorgimento non sarà troppo il concorso di tutti i suoi figli.

– Questo è un argomento più serio; – rispose il priore, a cui il nome d'Italia aveva fatto rizzare la fronte e balenar gli occhi d'una luce improvvisa. – Dicono che la patria non sia una cosa sensibile e che c'entri molta poesia nella formazione di questo ideale. Io so che c'entrano i nostri amori d'infanzia, le nostre lagrime d'adolescenti, i nostri rossori e i nostri sdegni d'uomini fatti. L'Italia comprende in sè la parte più pura dei nostri interessi, che sono gli affetti e le consuetudini; l'Italia è la nostra medesima superbia di schiatta, la nostra consapevole nobiltà di sangue, forte come un'idea maturata lungamente nell'animo, vigorosa come un istinto, che non si può soffocare, nè discutere. Tristo colui che nei furori della politica, o seguendo il filo di certe sue deduzioni, dimentica questo concetto della patria, e impaziente di provar tutto, di rimutar tutto, non sa sopportare qualche piccolo guaio in famiglia, dopo aver dovuto soffrire tanta vergogna di comandi stranieri! —

La faccia del sottoprefetto di Castelnuovo risplendeva d'allegrezza.

Ma a spegnere i lumi venne subito la seconda parte del ragionamento.

– La patria dobbiamo avere in cima a tutti i nostri pensieri; – proseguiva il padre Anacleto; – per lei dobbiamo lavorare; ma per lei, quando è tempo, saperci trarre in disparte. Anche la lontananza volontaria è una forma dell'amore. E poi, siamo forse fuori d'Italia? E i bisogni suoi, quando si mostrassero tali da richiedere l'opera nostra, non ci troverebbero al posto? So stare in arcioni come un altro e mettere un cavallo a carriera. Ero a Montebello, signor commendatore, e nessuno può dirmi che io abbia dimenticato l'obbligo mio verso la patria. O che vorrebbe Lei? che, per adempiere a quest'obbligo, facessi il consigliere comunale, o l'aspirante al ministero? Ce n'è già tanti, su quella via! A buon conto, io faccio pure qualcosa. Non vede? Dò esempio di modestia a tutti i poveri di spirito della mia circoscrizione. E adesso, signor commendatore, se non le spiace, passiamo alla seconda ragione della sua visita. —

Il sottoprefetto non gradì troppo quel modo spicciativo che aveva il priore di condurre la conversazione, parlando lui come e quando voleva, per cangiare argomento quando e come gli facesse comodo. Ma poichè si era imbarcato, gli bisognava andare fino all'ultimo. E accettò di passare all'altra parte del discorso, ma promettendo in cuor suo di ricattarsi di quella leggerezza del priore, col peso delle sue osservazioni.

– Volevo appunto venirci, – diss'egli, – e stavo cercando le parole. Questa è veramente la parte più delicata, ed io avrò mestieri di tutta la sua indulgenza. Loro signori son tutti uomini, qua dentro? Voglio dire… non ci hanno donne? —

Il padre Anacleto balzò sulla seggiola. – Ci siamo! – pensò egli, frattanto.

– Perchè mi fa questa domanda? – chiese egli poscia, guardando il sottoprefetto con aria di curiosità che voleva essere soddisfatta.

– Perchè, – rispose il sottoprefetto, – perchè corre una voce in Castelnuovo…

– Ah, una voce! E quale, di grazia?

– Che ci sia nel convento di San Bruno una donna, anzi una ragazza, fuggita da casa sua. —

Ciò detto, il nostro personaggio ricolse il fiato. L'aveva finalmente dato fuori, quel che gli pesava sullo stomaco!

Il priore stette alcuni minuti secondi senza rispondergli. Lo guardava sempre in viso, ma non più con quell'aria di curiosità che aspetta una spiegazione, bensì di curiosità che vorrebbe indovinare gli arcani gelosi, i moti dell'animo, i fini riposti.

– Minorenne? – chiese egli, dopo quell'istante di pausa.

– E ancora sotto tutela; – rispose il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia.

– Ciò è grave; – disse il priore. – E noi siamo accusati di rapimento, o di qualche altra cosa consimile; non è vero?

– No, tolga il cielo che io pensi una cosa simile, o la dia per pensata da altri; – rispose prontamente il sottoprefetto. – La signorina Adele Ruzzani, poichè questo è il nome della ragazza, è qui, sempre giusta le voci che corrono in Castelnuovo, col suo zio e tutore signor Prospero Gentili.

– Di buona voglia, adunque? – notò il priore.

– Sembra; – disse quell'altro.

– Sembra ed è, signor sottoprefetto; – ribattè il padre Anacleto, tralasciando di dare del commendatore al suo ospite, come aveva fatto fino a quel punto. – Io non ho più schiarimenti da chiederle, poichè Lei ha profferito dei nomi. C'è infatti qui, tra gli ultimi venuti, un padre Prospero, con un suo nepote, assai giovane, il cui nome corrisponde benissimo a quello della signorina Ruzzani, accennato da Lei. Mi hanno pregato di accoglierli nella nostra comunità; ed io, considerando la giovinezza del nepote, li ho accettati soltanto come novizi. Ciò significa che nessuna parola li costringe; sono padroni di andarsene quando vogliono. Desidera di vederli e di interrogarli? Si accomodi. Ma non qui, intendiamoci, non qui; al parlatorio del ponte, dove potrà farli chiamare. Perchè, lo sappia, signor sottoprefetto, nel nostro convento non è che una fortuna, la pace. Ed ogni sua domanda di veder qui, subito, i due nuovi compagni nostri, che non erano a farle corona in refettorio, potrebbe dare argomento a chiacchiere e sospetti, che io debbo in ogni modo evitare.

– No, non occorre che io li veda; – rispose il sottoprefetto appena gli venne fatto di entrare in discorso. – Ella si altera… mi giudica male… mentre io era venuto semplicemente per dirle come stavano le cose. Supponevo che non sapesse nulla… che fosse stato ingannato… E poichè la casa Ruzzani è una delle primarie di Castelnuovo e di tutto il circondario… Oramai, non è rappresentata che dalla signorina Adele; una ragazza di molto ingegno, ma un pochettino bizzarra. Sempre rispettabile per altro, sempre rispettabile! Una cosa solamente non si riesce a capire, per qual ragione, o capriccio, la signorina si sia risoluta ad entrare così di schianto in una società d'uomini…

– Di cavalieri, signor sottoprefetto; – interruppe il priore; – di cavalieri, la prego a volerlo considerare.

– Oh, non ne dubito punto. Ma infine, Lei capirà, il mondo ha i suoi diritti. Su questa fuga della signorina Ruzzani e sulla sua entrata nel convento di San Bruno, in veste d'uomo, poichè non potrebb'essere altrimenti, si è fatto un gran chiasso a Castelnuovo e fuori; cosicchè l'autorità superiore della provincia ha già chiesto ragguagli a me, che ero bensì informato del fatto, ma non avrei voluto dar noia a Lei per tutto l'oro del mondo. Questo è lo stato delle cose. Aggiungo che non mi sono mosso a bella posta. Come ho già avuto l'onore di dirle, andavo attorno per visitare i nostri comuni di montagna, e ho fatto, come si suol dir, un viaggio e due servizi. Avrei potuto mandarle l'avviso di ciò che sapevo, ma ho preferito recarlo io stesso, per ragioni di delicatezza e di convenienza che spero vorrà riconoscere.

– Grazie, – rispose il priore, con un tono di voce da cui traspariva un filo d'ironia. – Ma, la prego, qual è lo scopo del suo cortese avvertimento? Debbo io respingere la signorina Ruzzani e il suo tutore dal convento di San Bruno, per far piacere ai signori chiacchieroni di Castelnuovo?

– Eh, non per contentar nessuno; ma per far cessare le mormorazioni, le ciarle assassine del mondo, perchè no? Intenderei che non volesse far nulla, se, nell'atto di accogliere i due novizi, avesse saputo che uno di essi era una donna; ma poichè Lei non sapeva affatto…

– Non lo sapevo, – ripigliò il priore; – sono stato ingannato tanto più facilmente, in quanto che non ho voluto farci troppa attenzione. Ma se l'avessi fatta, se mi fossi avveduto, e mi fosse piaciuto di accogliere egualmente il finto novizio, che male ci sarebbe?

– Nessuno, da parte sua. Ma poichè è detto che chi ha più prudenza ha anche l'obbligo di usarne, e perchè sarebbe stata opera di buon cavaliere avvertire quella fanciulla del passo falso che ella faceva…

– La sua osservazione sarebbe eccellente, – interruppe il priore, – se la fanciulla fosse capitata da sola. Ma io la prego a non dimenticare che è venuta in compagnia del tutore, e vive qui… sempre in compagnia del tutore.

– Ah, una gran testa, il tutore! – scappò detto al cavaliere Tiraquelli.

– Infatti, non brilla per averne molta; – si degnò di ammettere il priore, che pensava in quel punto alla gita del romitorio.

– Ah, vede, lo riconosce anche Lei; – gridò con accento di vittoria il sottoprefetto. – Aggiunga che sarà un gran guaio… Parlo ad un uomo di cuore, e perciò vengo a Lei col cuore in mano. Sarà un gran guaio se la signorina Ruzzani non tornerà presto a casa sua, trovando il modo di negare questa scappatella. In verità, se rimane al convento, se lascia correre dell'altro le ciarle della gente, ella non troverà marito; ad onta de' suoi milioni non lo troverà, salvo il caso che ne esca uno di qui, dove tutti l'hanno conosciuta e possono fare testimonianza che questo capriccio, imprudentissimo sempre, non ha potuto offuscarne il buon nome. —

Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia giunse con evidente compiacenza alla chiusa del periodo. E più si compiacque d'averlo rigirato con quell'arte, allorquando vide che il padre Anacleto ne era stato tocco sul vivo.

– Non abbia paura, signor sottoprefetto, non abbia paura; – gridò il priore, con impeto. – Qui nessuno pensa ad ammogliarsi. Che forse crederebbe Lei che qui si tendessero trappole alle ragazze con dote? —

Il sottoprefetto balzò in piedi con aria tra scandalizzata e mortificata.

– Lei crede proprio che io… con le mie parole… – E qui le reticenze del signor sottoprefetto dovevano far fede di una commozione profonda. – Se Lei ci trova alcun che di offensivo, od anche di meno rispettoso per la sua comunità, la prego, faccia conto che io non abbia neanche aperto bocca.

– Sì, bene, la ringrazio; – disse il priore, che appariva grandemente confuso, e non fingeva davvero; – la ringrazio della sua… comunicazione… Vedrò, penserò, farò cessare questa ragazzata, perchè, infatti, Lei ha ragione; un galantuomo non può permettere che una fanciulla si perda così nella stima della gente. Ha ragione, ripeto, ed io le sono gratissimo. Non mi domandi di far tutto oggi stesso; debbo studiare il modo e l'opportunità; ma infine, stia certo, rimanderemo a casa la signorina… Come ha detto?

– Ruzzani.

– Ruzzani, bene; la signorina Ruzzani… Adelina Ruzzani, che si fa lecite le scappatelle a San Bruno. Daniele femmina, che entra spontaneamente nella fossa dei leoni!.. E perchè, poi? Capriccetti di ragazza, fatti più vivi e più strani da una testa bizzarra. Non le pare, signor commendatore?

– Ho piacere che le torni il buon umore; – disse il sottoprefetto. – In fede mia, sarei stato troppo dolente, se le mie parole, dette a buon fine, avessero potuto…

– No, non s'incomodi a cercare le scuse. La mia giustificazione è tutta nel non aver badato più che tanto a certe apparenze, ed essermi lasciato cogliere alla franchezza meravigliosa con cui zio e nepote si sono presentati quassù. Capisco che è tutto merito della signorina. Una bella commediante, glielo assicuro io; se va sul teatro, fa furore di certo. La sua giustificazione, signor commendatore, è tutta nell'onesto desiderio di far cessare uno scandalo nel circondario che così degnamente amministra. Esso non era qui, Vossignoria ne è persuasa; sta tutto nella interpetrazione che il pubblico può dare ad un fatto già così nuovo in apparenza e poco naturale per giunta. E noti, signor commendatore, il danno morale che ne deriva anco a noi. La quiete nostra, che è il primo dei beni, per cui ci siamo raccolti in questa solitudine, la quiete nostra vuole oramai che la signorina Adele Ruzzani faccia ritorno a Castelnuovo… o vada altrove, se la residenza non le piace, che a noi non importa saperlo. —

Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia era fuori di sè dalla contentezza.

– Mi permette che io l'abbracci? – gridò.

Il padre Anacleto lo lasciò fare. Non vedeva l'ora di levarselo dai piedi, per gittar via quella maschera che gli pesava sul volto.

 

– È una gran fortuna per me di aver conosciuto un uomo del suo merito tra i miei amministrati; – ripigliò il sottoprefetto. – Perchè, infatti, il convento laico di San Bruno è nella mia giurisdizione. Sono il solo, tra i capi di circondario in Italia, che possa vantarsi di possedere una simile novità.

– San Bruno ha adunque ottenuto grazia presso di Lei? – domandò il padre Anacleto.

– Che mi canzona? Dopo tutte le savie considerazioni che Ella mi ha svolto, ho sentito quasi il desiderio di piantar lì le grandezze umane e di venirmi a chiudere in San Bruno con Lei.

– Se verrà, – disse il priore, ridendo a fior di labbro, – lo faremo prefetto della nostra congregazione. —

Come Dio volle, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia se ne andò, accompagnato dai due "satelliti del potere". Si stropicciava le mani, il degno personaggio, passando il ponte dell'eremo.

– Gli auspici sono favorevoli; – diceva egli tra sè. – Il misantropo mi ha promesso di mandar via la signorina; mi ha chiamato commendatore; ha finito con offrirmi una prefettura… Che Iddio e il ministro dell'interno lo imitino! —