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L'olmo e l'edera

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IX

Guidato dal giardiniere, Laurenti entrò in quel sancta sanctorum, pur dianzi inaccessibile, di tutte le sue quotidiane adorazioni.

La prima persona che incontrò, fu un'adiposa femmina, dalla faccia bitorzoluta con qualche pelo sul mento e gli occhi mezzo chiusi da palpebre carnose, la quale ei riconobbe, senza averle parlato mai, per la signora Tonna, la governante di casa. Costei, che non istarò a dipingervi, poichè non ne franca la spesa, era una di quelle donne tutte miele in apparenza, affettuose a parole, ma che non si muoverebbero da un seggiolone per dar la mano a chi casca, buonissime a dire una terza parte di rosario secondo la vostra intenzione, perchè non hanno altro da fare, ed egoiste nel profondo dell'anima.

–Ecco il medico!—gridò il Giacomo, appena l'ebbe veduta—ecco il medico!

Laurenti, nella furia del correre e del pensare alla signora che si moriva, non pose mente al grido del giardiniere. Egli era corso perchè Giacomo ne lo aveva pregato, e perchè si trattava della signora Luisa; ma non si fermava a considerare il perchè egli fosse stato chiamato, e non altri, a darle soccorso.

Ma il Giacomo sapeva benissimo quello che faceva. Il lettore ricorderà ch'egli pretendeva di avere di tanto in tanto delle buone inspirazioni. Ora la buona inspirazione che egli aveva avuto fin dal momento del suo primo colloquio con Guido Laurenti, era quella di chiamarlo lui, come medico, a curare la sua bella padrona.

E la inspirazione, lasciando da parte l'amore di Guido che egli non conosceva, era ottima. La signora Argellani andava sempre peggiorando; i ragionamenti e i consigli del medico che aveva chiamato, non le erano sembrati buoni e non ci aveva punto badato. Anche il Giacomo, nel suo buon senso, aveva inteso che quella della signora non era una malattia da risguardarsi soltanto sotto l'aspetto fisico, ma che, derivando da cause morali, chiedeva rimedio del pari alla scienza del fisico e alla sapienza del metafisico. Intendiamoci bene; non erano queste le parole che gli venivano in mente a colorire il concetto; ma il concetto c'era, e il concetto s'incarnava nel nome di Laurenti, di quel savio e modesto giovine addottorato in medicina, che sapeva tante cose e che studiava sempre.

–Questo è un uomo che mi va a genio;—aveva detto il Giacomo—e poichè un medico s'ha a chiamare oggi o domani, tanto meglio che sia lui. Egli finalmente non si contenterà di fare una visita e di scrivere una ricetta.—

Nato il concetto, rimaneva da lavorarci attorno, considerarlo per tutti i versi. E più il Giacomo lo considerava, e più gli piaceva. Nel fatto, c'era una sola, ma grande, difficoltà a metterlo in pratica. Come avrebbe egli persuaso la sua signora, che non volea saperne di medici, a chiamare il vicino, giovanotto sconosciuto nell'arte d'Ippocrate, e all'apparenza più fatto per dare immagine di Marte che non di Esculapio?

Egli dunque stava cercando l'occasione, e rimuginando disegni, l'uno più strambo dell'altro; allorquando l'occasione si offerse da sè, e tanto facile, che il nostro buon Giacomo se ne spaventò, e l'avrebbe voluta più difficile, più lontana eziandio.

Ma in fin de' conti, non l'aveva fatta lui, nè chiamata. Si dolse dell'improvviso male che aveva colto la padrona, e se ne dolse tanto più, in quanto che, sulle prime, a lui uomo ignaro di siffatte cose, era parso assai più grave di quello che invero non fosse, ed aveva creduto la padrona in articulo mortis. Ma il suo primo pensiero, appena si parlò di chiamare un medico, fu quello di metter la mano sul giovine vicino. E per verità, fu tutto amore per la signora, e amore intelligente, che gli fe' pigliare la strada della collina, anzi che quella del piano.

Laurenti fu fatto passare dalla governante in un salotto, e di là nel pensatoio della signora Argellani, dov'ella aveva i suoi libri e il suo telaio da ricamo, quindi nella camera da letto.

Egli penetrava a bella prima nel santuario della dea; ma il suo turbamento non gli consentì di badare a cotesto, nè allo sfarzoso buon gusto che aveva presieduto all'arredamento di quella camera.

Su d'un letto a baldacchino di seta azzurra come i paramenti della camera, adagiata sul copertoio di raso color di rosa, trapunto a fiorami, era la signora Argellani, vestita ancora, ma col seno discinto. Le sue fanti, non avendo avuto tempo nè agio a spogliarla, si erano fatte ad agevolarle il respiro a furia di forbici, tagliando per tal guisa la vita della veste, il busto e lo scollo di una camicia di tela battista, che pendeva arrovesciato a brandelli.

Il giovine si accostò al capezzale. La signora era bianca e fredda come persona morta; e tuttavia, sebbene così fredda e bianca, cogli occhi chiusi e le labbra scolorate, appariva bellissima; quel collo e quel seno, mirabilmente modellati, davano immagine di quelle stupende forme di cera nelle quali l'arte rivaleggia colla natura, e fa, Dio mi perdoni, pensare assai più che la natura viva.

Fu prima cura di Laurenti mettere la mano al polso e quindi sul cuore della supina, per accertarsi che la vita non l'avesse abbandonata. Ma giammai indagine di medico fu fatta con più casta riserbatezza. Egli non aveva nè occhi nè senso che per esplorare le pulsazioni del sangue e i battiti del cuore. E nulla sentì; solo un lieve sudore che gli inumidì le mani additava il patimento di quella povera carne senza colore, e insieme col patimento la vita.

Lo stato d'anemìa era evidente, e una breve osservazione da vicino raffermò nell'animo di Laurenti il concetto ch'egli si era formato pochi giorni innanzi, vedendo la signora Argellani da lunge. L'anemìa, questo brutto male che (parlo agli ignari di medicina e di grechi paroloni) significa privazione, scemamento considerevole della sostanza del sangue, era visibile nello scoloramento dei tessuti, nella scomparsa dei vasi sottocutanei; donde l'estremo pallore della pelle e delle membrane mucose delle labbra, nelle quali qualche vaso filiforme portava a mala pena un po' di color roseo sbiadito.

Luisa era come una povera pianta, che aduggia, intristisce, sottratta alla benefica azione della luce. Che grave rammarico aveva fatte le tenebre intorno a lei? Qual era il sole della sua vita, che, oscuratosi ad un tratto, le scemava negli interni meati e le scolorava il sangue, nutrimento necessario dell'organismo umano?

Questa era la incognita che Laurenti avrebbe voluto scoprire. E intanto chiedeva alle fanti che cosa avessero fatto per richiamarla in sè stessa.

–Le abbiamo spruzzato il viso,—risposero,—con acqua di fior d'arancio.

–Che! Non serve a nulla. C'è acqua di Colonia?

–Credo di sì,—rispose la signora Tonna, avvicinandosi allo specchio, dove erano boccette di acque odorose.

Ma siccome la signora Tonna, da quella tranquillona che era, non si spicciava punto, Guido corse egli stesso a rovistare in tutti quelli arnesi del mondo muliebre.

–C'è dell'acqua di Felsina;—disse la governante,—ma di Colonia non ne trovo.

–Acqua di Felsina? tanto meglio; è più aromatica. Prendete qui, voi altre, strofinatele con quest'acqua il petto…. più giù…. sul cuore, mentre io le ne stropiccio le mani. Così va bene; ancora, ancora, fino a tanto che ricuperi i sensi.

–Oh Gesummaria!—esclamò la signora Tonna, lasciandosi cadere su d'una scranna—povera signora! E adesso crede Lei che potrà rimettersi?

–Sì, certo, non dubiti. Vede? La comincia a muover le labbra; queste frizioni aromatiche fanno il loro effetto. Ma che modo le è venuto male? Forse qualche commozione improvvisa?….

–Oh no, signore; io stava di là, nella mia camera, e mi disponevo a venirle a chiedere se avesse bisogno di me, per andarmene a dormire. Poichè, sappia, signor dottore, che io patisco di nervi; la fatica prolungata mi fa male, e bisogna che mi metta a letto di buon'ora…. Questa sera son certa che passerò una cattiva notte…. molto cattiva. Figurarsi! Dopo un colpo così forte….

–Ma, signora Tonna!—le gridò spazientito il Giacomo, che stava sull'uscio, cogli occhi addosso a Laurenti, e già lo vedeva mordersi le labbra,—Non è del suo mal di nervi che le domanda il dottore, bensì della padrona, per sapere in che modo la è caduta in svenimento.

–Ah sì, perdevo la testa!—soggiunse la pacifica governante.—Ero dunque venuta qui presso, nella camera accanto, per chiedere se aveva nulla a comandarmi. La signora stava sdraiata sul lettuccio, ma non ci badai, perchè la c'è tutte le sere e non parla mai, anche quando ci son io a tenerle un po' di compagnia. Le parlai e non mi rispose; solo mi accennò colla mano che me ne andassi pure; ma io mi avvidi che soffriva, e fu un miracolo di nostro Signore che non ubbidissi; poichè subito dopo mandò un gemito e mormorò: mi sento morire. E allora io chiamai gente, perchè ha da sapere che io non posso veder patire una mosca, e mi coglie subito il mio male…. un brutto male….

–Ma,—interruppe Laurenti,—Ella ha detto, se ho inteso bene, che la signora è tutte le sere a meditare sola e silenziosa nel solito posto.

–Tutte le sere, e alla stess'ora! Oh la non dubiti, che non manca neppure una volta. Già, e' bisogna dir tutto…. Ella si stanca con quelle sue passeggiate in giardino, così cagionevole com'è; ed io l'ho raccomandato più e più volte al Giacomo, che la lasciasse tranquilla. Egli è qui presente, e può dire se non è vero.

Il Giacomo incominciò a rispondere crollando le spalle, come colui che non menava buone alla signora Tonna le sue fisime intorno ai danni del moto.

–Oh che?—soggiunse poi,—L'aveva da star sempre murata in casa? Ella ci sta fin troppo per sua elezione, la povera signora; che se noi non le si dice di muoversi un tratto e di scendere a respirare, un poco d'aria, ella starebbe di continuo sdraiata sul suo lettuccio a contare i moscherini che volano.

–Egli ha ragione;—disse Laurenti.—Queste sono malattie che tolgono insieme colle forze la volontà, e s'ha da vincere, col moto continuo, colla mutazione dell'aria, quella naturale propensione che hanno gli ammalati a stare fermi. Così pure è necessario che siano distolti da quella malinconia del pensar sempre. L'eccesso della vita intellettuale riesce a danno della vita fisica, e non aiuta a far sangue.

 

In quella che così ragionavano, la signora Argellani si mosse e diede un gemito. Laurenti, il quale l'aveva sempre tenuta per mano, proseguendo a stropicciarle le estremità coll'acqua di Felsina, s'inchinò rasserenato verso di lei.

La vita era a poco a poco tornata; il sangue rifluiva liberamente. Poco dopo, la signora Luisa aperse gli occhi, sebbene a mezzo, e senza guardare in nessun luogo.

–Stia di buon animo, signora;—le disse dolcemente il giovine.—E' non è stato nulla…. un po' di debolezza soltanto.

–Dove sono?—mormorò ella,—Mio Dio! La vita non mi ha dunque abbandonato?

–Oh, che cosa dice mai?—esclamò la signora Tonna, che si era affrettata ad avvicinarsi al capezzale.—Vossignoria ha avuto un po' di male, come l'altra volta; ma noi tutti le siamo sempre stati dattorno….

–Grazie, mia buona Antonietta, grazie! E così dicendo, la signora Argellani aperse gli occhi del tutto, provandosi a guardare. La prima cosa che vide, fu lo stato suo, la persona discinta; e una fiamma pallida e lieve le serpeggiò sulle guancie. Laurenti intese il pensiero dell'inferma, e afferrato un capo del copertoio di raso sul quale era adagiata, fu sollecito a ravviarlo sul petto ignudo; ed ella, seguendo degli occhi quel braccio di persona ignota che le stava daccanto, si volse a guatare il giovine, tra spaurita e curiosa.

–Non abbia timore, signora;—le disse egli allora, per rispondere in qualche modo a quella muta interrogazione.—Sono un amico.

–Gli è il medico,—soggiunse Giacomo, facendosi innanzi anco lui,—ed io sono andato a chiamarlo in fretta, appena mi fu detto che Vossignoria si sentiva male.

–Un cattivo medico, in verità;—ripigliò Laurenti.—Ma in un momento di bisogno, val meglio che nulla.

–Grazie anche a Lei, signore;—disse la bella inferma, stendendogli la mano;—ho molto sofferto, ma le sue cure mi hanno giovato, e adesso mi par di rinascere.

–Aiutiamo dunque, e presto, la madre natura. Ella incominci a mettersi a letto senz'altro, che intanto noi penseremo al rimanente.

Ciò detto, si ritrasse, perchè le sue donne avessero agio a spogliarla, e dopo avere ordinato qualche pozione che le confortasse lo stomaco, andò a sedersi nel salotto vicino, per meditare sulla malattia di quella donna gentile, ma anzitutto per raccogliere e mettere a sesto i suoi pensieri confusi.

Colà seduto a fantasticare da solo, gli avvenne di innamorarsi della malattia, come già s'era innamorato della donna. Il cuore e la mente erano interessati del pari in quella grand'opera. Poter vincere quel male, e restituire il sangue in quelle vene colme di linfa! Egli in quel punto si pentì davvero di non aver confortato colla pratica assidua lo studio di quell'arte salutare, che gli appariva tanto più nobile allora, in quanto che doveva rivolgersi a salvare una vita cotanto preziosa per lui. Ora questo per lui significava per tutto il mondo. Il mondo senza quella donna gli sarebbe paruto a gran pezza più paurosamente nero di quel sogno sulla distruzione delle cose, che Lord Byron descrisse in versi tali da mettere i brividi addosso ad ogni generazione di lettori.

Salvarla, salvarla! Ma come? Il suo consiglio senza guida si aggirava in un circolo vizioso di ragionamenti, come un povero disgraziato nel labirinto di Creta, senza il filo pietoso di Arianna.

La causa, pensava egli, la causa morale di questa malattia, chi la indovina? Che giova sapere come si restituisce al sangue la materia colorante, se quel nemico nascosto, invisibile, seguiterà a guastare il faticoso lavoro della scienza? Si sa che il nemico c'è, e che veglia ai danni vostri! mirabile scoverta! Ma dove sia, donde venga, come sia forte, la scienza di tutta la facoltà riunita, non saprebbe chiarirvi.

Gli è un uomo; sì certamente un uomo! Ma è vivo, o morto, rammarico del passato, o angoscia del presente? O forse non è nè l'una nè l'altra cosa? La negazione dell'amore, la mancanza di questo necessario elemento di vita in un cuor sensitivo, non potrebbe inaridire le fonti della esistenza in quella gentil creatura, come, e forse peggio di un amore violento?

Ogni cosa è possibile. I segni della clòrosi sono cosiffattamente somiglianti a quelli dell'anemia, da farle parer quasi gemelle, ed esse, come si scambiano a vicenda i caratteri, così avviene che possano anco scambiarsi le cause.

Il nemico, il nemico! Scoprire il nemico nascosto; gli è questo il problema.

Così pensava Laurenti, seduto su d'un seggiolone, coi gomiti appuntellati sull'orlo di una tavola rotonda che sorreggeva una gran lucerna di bronzo dorato. La lucerna era accesa, ma la luce, sebbene gli illuminasse la fronte, non gli rischiarava punto i pensieri.

Questo è il problema!—disse, e cangiò postura. Nel muoversi a quel modo, gli venne veduto un volume, legato stupendamente, colle carte dorate e le iniziali della signora impresse a fuoco sulla coperta. Le mani gli corsero a quel libro, mentre il pensiero era altrove, e macchinalmente ne apersero i fermagli.

Era quello un albo da ritratti, o alla prima figura che gli cadde sott'occhio, un pensiero gli balenò nella mente. La soluzione ch'io cerco si avrebbe a trovare qui dentro? Se un amante c'è, vediamo dove può essere stato collocato. L'albo è la raccolta di tutti gli amici e di tutti i conoscenti effigiati. Ma costui, come indovinarlo? Dove metterò il dito, per dire: egli è qui? Cerchiamo intanto; di solito, smaglianti ritratti dell'uomo amato si mettono nelle ultime carte, confusi fra una signora grinzosa, un parente lontano, od altre persone di minor conto, per modo che non risaltino agli occhi del riguardante curioso.

Sfogliò il libro con molta cura; vide persone note, ma nessuna figura d'uomo gli parve colorire il concetto ch'egli s'era formato. Uno solo lo trattenne alquanto a pensare, un solo ritratto d'uomo, che veniva dopo quello della marchesa di Roccanera, anzi, chiudendo il libro, combaciava con esso.

–Chi è costui? Ah, lo ricordo, il Percy; un bel giovine, in fede mia; occhi neri e grandi; capelli nerissimi e lucenti; i contorni finissimi; ma egli c'è alcun che di duro, di sarcastico, in questa fisonomia che vuol parere soave. Gli è stato messo accanto alla marchesa Bianca, alla Bianca, come dicono i nostri eleganti, e ci sta bene. L'altro giorno erano insieme all'Acquasola, ella su d'un magnifico leardo pomellato che correa l'ambio, ed egli su quel sauro che ha comperato per quindicimila lire dal Nelli di Rovereto, e il Nelli le ha subito perse in una notte al Casino. Ma che diamine vo almanaccando io? Qui non c'è l'uomo ch'io cerco, e forse ha ancora da nascere. Quella è una malattia la cui causa morale è una negazione, e non altro.—

Buttata là questa sentenza, e l'albo sulla tavola, si alzò più contento, per ritornare nella camera della signora Argellani.

La bella inferma si era addormentata, e la lieve respirazione, il battito regolare del polso, sebbene assai debole, facevano testimonianza del buon effetto delle frizioni aromatiche e della pozione corroborante che aveva bevuto poco prima.

Egli stette a contemplarla un tratto, al fioco chiarore del lumino da notte, posato sulla lastra marmorea del tavolino, accanto alla cortina del capezzale. Com'era bella in quella tranquilla postura, e com'era dolce quel sonno!

L'opera sua per quel giorno era finita, e con essa si dileguava in quel momento l'ansietà del medico che indaga ed aiuta lo scioglimento di una crisi. Allora il giovine cominciò a guardare con altri occhi, vo' dire cogli occhi del cuore, la signora Argellani, e a misurare il gran passo che aveva fatto in quella sera, nel corso di due o tre ore. Egli si vedeva là, nel santuario, accanto a quella donna che poco innanzi ei temeva di non dover avvicinare giammai; si vedeva solo, autorevole, al suo capezzale, angiolo custode del sonno, e certamente suo salvatore più tardi.

Così almeno pensava e prometteva a sè stesso, con quella fidanza generosa che è propria dei giovani, e segnatamente degli innamorati.

Studierò, diceva in cuor suo; la scienza, interrogata dall'amore, non ha segreti, Studierò, consulterò, vaglierò tutte le sentenze dei maestri, pur ch'io sottragga questa bella creatura alla morte.

Poi, sempre guardando alla dormente, si ritrasse dalla camera sulla punta de' piedi, e uscì dalla palazzina, dopo aver raccomandato che non turbassero il sonno all'inferma, e detto che sarebbe tornato alla mattina vegnente.

X

È mia opinione che il sole non spuntasse mai più splendido dal monte di Portofino, che in quel giorno il quale segui la visita di Laurenti alla sua bella vicina.

So bene che molti si proveranno a darmi sulla voce, mettendo fuori le loro ricordanze personali (e chi non ci ha le sue, lampi di gioia viva in un cielo di tenebre!) o quelle dei loro amici; ma io tengo fermo, e non patisco osservazioni. Essi notino, del resto, che nell'anima di Guido Laurenti si riunivano, si maritavano anzi, due consolazioni: l'amore nascente che ottiene la sua prima vittoria, e la coscienza d'essere stato utile in qualche modo alla persona amata.

Il giovanotto s'era addormentato con cinque o sei libri di medicina tra le pieghe del suo coltrone, e si svegliava più tardi del solito. Però, quando fu alzato, vide che il servitore aveva fatto egli stesso il giardiniere, e maneggiato l'inaffiatoio per lui; cosa che non era accaduta tre volte in un anno.

Si vestì con la sua eleganza consueta, che era gemella della semplicità; passeggiò alquanto pei viali; poi quando gli parve ora, scese nella viottola, e spinse l'uscio del giardino di sotto, che il Giacomo aveva già aperto secondo la sua intenzione.

Il Giacomo, dal canto suo, quantunque non avesse nulla a fare laggiù, stava baloccandosi nella prateria, e rimondava un salice, che ci aveva la gran ventura d'essere vicino a quella postierla per cui doveva entrare il Magnifico.

–Buon giorno a Vossignoria—gridò il giardiniere, appena lo ebbe veduto.—Questa mattina ella ha aspettato l'alba dei tafàni per alzarsi da letto.

–Sì, ero un po' stanco. Ma come va la signora?

–Benissimo, e sia benedetto il medico che l'ha curata! Io ci ho proprio avuto una buona ispirazione, e me ne voglio vantare, quantunque i miei vecchi dicessero che chi si loda s'imbroda. Sa Lei, signor Laurenti? L'ispirazione m'è venuta quando eravamo in casa sua, dove, per sua grazia, mi condusse a vedere quella filza di bestiuole e di barattoli. E veda un po' se non ho fatto bene; la signora ha detto che da tre mesi in qua non aveva più avuto un sonno così tranquillo come stanotte. Bravo, signor Magnifico, e bravo io che l'ho tirato giù dal suo muraglione!

–Voi dimenticate, caro il mio Giacomo, che prima d'esser tirato giù da voi, vi avevo tirato su io stesso con una pianta di camelia…… che io avevo tirato giù a bella posta.

Il lettore intenderà di leggieri che quest'ultima parte del suo ragionamento, Guido non l'avea messa in parole, e se l'era tenuta gelosamente per sè.

–Del resto, buon Giacomo,—proseguì il giovane,—la gran medichessa è stata sempre la natura. V'hanno sostanze semplici le quali fanno tutto, e l'uomo se ne piglia immeritamente il vanto, come se fosse lui l'inventore, il creatore delle sostanze stimolanti e delle deprimenti che un giorno a caso conobbe, nè tutte per bene, e che battezzò tutte con orribili nomi. Nel caso della vostra signora, e' non c'era a far altro che stimolare un tratto l'inerte materia, e questo ho fatto io, senza molta fatica.

–Sì, sarà vero, ma queste sostanze bisogna saperle adoperare a tempo e luogo. O che, mi canzona? Vossignoria è un gran mago, e non vuol sentirselo a dire.

Laurenti si messe a ridere, e salutato il buon giardiniere, si avviò verso la palazzina.

Anche per la signora Argellani il sole s'era levato più bello, quel giorno. Ella s'era alzata alla sua ora consueta, e stava seduta presso la finestra, a bere la tiepida aria del mattino, quando Laurenti entrò nel suo pensatolo.

La donna gentile arrossì lievemente, come poteva una povera anémica, vedendo il suo giovine Esculapio.

–Signora,—balbettò egli, inchinandosi profondamente, come per nascondere la sua commozione—già alzata a quest'ora?

–Sì, mi sentivo meglio, assai meglio dei giorni scorsi;—rispose la signora Argellani,—ed ho voluto poterle testimoniare col fatto la efficacia delle sue cure. Ma anzitutto il suo nome, perchè io lo ricordi come quello di un amico…..

 

–Guido Laurenti, signora, e desideroso di meritare questo titolo.

–Già siamo buoni vicini;—disse ella;—ma io per verità non sapevo che Ella fosse medico, e che il rimedio stesse accanto alla malattia, con un semplice muro di separazione. Qui tutti la credevano un naturalista, e più particolarmente un botanico.

–Mi diverto, signora; lo studio è una grande consolazione alla gente sola, e fa bella la solitudine stessa.

–Alla sua età!

–Ho già vissuto molto, signora, e senza lo studio, che apre nuovi orizzonti allo sguardo dell'anima, avrei potuto finir male. Ma parliamo di Lei; come va il polso?

–Veda;—gli rispose la signora Argellani, sporgendogli il braccio.

–Non c'è male; ma sono troppo piccole pulsazioni. Signora, badiamo bene; qui c'è una malattia di sfinimento, che alla sua età (lasci che parli anch'io dell'età) che alla sua età non ci dovrebbe essere. Ora, se io le ragiono liberamente della sua malattia…..

–Oh non ho paura, io!—interruppe la signora Luisa sorridendo malinconicamente.—Amo anzi che mi si parli così.

–Sta bene, e ciò mostra la buona tempra dell'animo suo; ma io non ho poi da dirle nulla che metta alla prova il suo coraggio;—rispose Laurenti.—Se io le ragiono liberamente della sua malattia, egli è che il suo organismo non ci ha punto colpa, sibbene il pensiero.

La signora Luisa non fe' motto, quantunque Laurenti si fosse fermato a bella posta per avere una parola di lei, da riappiccare il discorso. Ella in quella vece chinò la testa e guardò il pavimento.

–Orbene, gli è il pensiero che fa guerra all'organismo, e in Lei, signora, l'organismo ha resistito e resisterà ancora un pezzo; ma non bisogna far troppo a fidanza con esso. Quello che è accaduto ier sera non deve ripetersi.

–Oh lo desidero anch'io;—esclamò con atto di sgomento la signora Argellani—Fu invero una brutta visione. Stavo seduta pensando…..

–A che cosa?—interruppe Laurenti.

Quella dimanda parve riuscisse molesta alla signora, poichè, fattasi anche più pallida dell'usato, alzò gli occhi a guardar fiso Laurenti.

–Signora—proseguì egli—non le paia disdicevole la mia dimanda. Chi le parla è un medico, e quando anche non lo fosse, Ella ha voluto cortesemente salutarlo col nome di amico.

–Sì, sì, e perchè alla perfine tacerei?—disse l'inferma, dando in uno scoppio di pianto improvviso.—Stavo pensando a morire. Mi pareva d'essere già supina nella bara, ad attendere il mio ultimo momento. La campagna tutt'intorno era bella; un usignuolo cantava tra i rami di un albero dietro la mia testa: più lunge mi pareva di scorgere una strada e centinaia di allegre persone che andavano e venivano, ragionando e ridendo, senza accorgersi punto di me. Ma le son fanciullaggini, coteste…..

–No, signora; rispose Laurenti, prendendole affettuosamente la mano—La prego anzi a continuare.

–Orbene, mentre l'usignuolo cantava, ed io avrei pur voluto scorgerlo; mentre quella moltitudine allegra andava a diporto, mentre il cielo era sereno e una brezza leggiera correva per l'aria, facendo stormire le fronde, a me andava man mano affievolendosi il respiro. La vita se ne andava, e mi pareva di vederla, come un umor diafano, rifuggirsi dalle estremità, rifluire verso il cuore, dove c'era uno spiraglio, per cui quell'umor diafano svaporava, svaporava sempre. Io non potevo muovermi; le mani e le braccia, che già erano gelide, non mi obbedivano più, siccome avrei voluto, per metterle contro quello spiraglio aperto e chiuder dentro un rimasuglio di vita, tanto almeno ch'io potessi veder dileguare in fondo della scena quella allegra processione di felici, e udir l'ultimo gorgheggio dell'usignuolo che seguitava a cantare. Volevo gridare, ma non mi veniva fatto; lo sforzo anzi non faceva che aiutare, precipitare, lo svaporamento di quell'umor diafano che rifluiva al cuore, ed io, con gli occhi sbarrati, ne stavo a contemplare la spaventosa consunzione. E il vapore saliva, saliva in leggieri vortici che non mi era dato di respirare, imperocchè quella brezza che se li rapiva, non giungeva mai fino alle mie labbra. Oh, fu un lungo e terribile sogno che io non vorrei rifare per fermo.

Così dicendo, la donna gentile si nascose il viso tra le palme, singhiozzando amaramente.

Guido stette un momento sovra pensieri; quindi, accostandosi a lei, le disse con accento soave:

–Signora, desidera che io le spieghi il suo sogno?

–Ella?

–Sì, io; non ho la scienza dei magi antichi, ma ho fede che il mio poco ingegno riesca ad interpretare il suo sogno, e meritarmi il suo favore, come la interpretazione di un altro sogno meritò a Giuseppe ebreo la grazia del Faraone. Vuol dunque udirmi?

–Ella è il mio medico, sebbene da ieri soltanto;—disse la signora Luisa—ed ha il diritto di farsi ascoltare.

–Orbene, signora, la sua triste visione dice apertamente una cosa: che Ella ama la vita.

–Io?—esclamò l'inferma, accompagnando la parola con un amaro sorriso.

–Sì, Lei. Non l'ama certamente come l'amano tanti, per le sue gioie materiali, pe' suoi sollazzi, ma l'ama, perchè è istinto della creatura amar quello che il creatore le ha dato; perchè infin de' conti, nella vita più malinconicamente vissuta, egli c'è sempre alcun che di leggiadro, di gentile, poniamo il canto di un usignuolo invisibile, la favella arcana di una onesta coscienza, o il soffiar della brezza, o un raggio di sole, alito e luce di poesia, che i crassi vapori della tristizia dei più non possono dileguare nè spegnere nelle anime elette. Guai se non fosse così; guai se l'istinto della conservazione non fosse riposto qui, nel profondo del cuore. Chi di noi non vorrebbe farla finita, e rompere ad un tratto questa catena di miserie? Il suicidio, atto di aberrazione, quando non è una pena volontariamente inflitta alla colpa che si giudica da sè, diventerebbe la cosa più normale del mondo. Ella ama la vita, signora; Ella ama la vita, inconsapevolmente, come l'amo io apertamente, dopo aver bevuto la sua coppa, e sentito che era amara. Dunque, signora, mi lasci parlare, mi consenta di entrare nel segreto del suo cuore, colla discreta autorità del medico e dell'amico. La sua malattia è una di quelle che crea il pensiero, e in esse si compiace; ed Ella si strugge, perchè il pensiero, dopo aver dato argomento al male, assiste inerte ai suoi spaventosi progressi.

–È vero!—disse la signora Argellani, guardando in viso, non senza curiosità, quel vecchio di ventott'anni, dai capegli biondi e dagli occhi cilestri che le parlava a quel modo.

–Ora,—proseguì Laurenti,—come il pensiero sta seduto a contemplare la propria rovina, così le sue membra si prostrano, e direi quasi che rifuggono dal moto, se il rifuggire non indicasse moto egli medesimo. Ecco perchè, più le sue forze si scemano col distrursi della sostanza vitale, più Ella ama rimanersi immobile, seduta lunghe ore su d'una scranna; ecco perchè il pensiero ha modo di foggiarsi una bara e adagiarvisi dentro ad aspettare la morte. Non è così?

L'inferma accennò dal capo, in atto di assentimento.

–Così seduta, non turbata da alcuno, perchè è padrona in casa sua, e può sorseggiarsi a sua posta quel veleno soave, Ella pensa, pensa di continuo. Il sangue, in cui vanno sempre scemando la materia colorante e le altre parti più sostanziali, s'è fatto più acquoso, a gran pezza più leggiero, e scorre dieci cotanti più rapido. Donde un facile mutarsi di pensamenti e d'imagini; i dolori della vita….. Io non conosco, nè m'attento d'indagare i suoi, signora; ma ci debbono essere, ed io li considero come un elemento della mia argomentazione…. I dolori della vita, dico, le fanno ressa, si affollano intorno al cuore, esalano al cervello di continuo, si trasformano in pallide visioni, le quali per l'appunto riflettono lo scemarsi della vita nelle sue vene, e il suo struggersi in tenui vapori; e qui la mente si offusca, il cervello dolora, fischiano gli orecchi, le idee cozzano, si confondono, la lingua s'impaccia, e sventuratamente non c'è tanta vitalità insita nelle fonti, per rifluire vigorosa alle estremità, e dissipare quella orrenda pressura.