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XVII
A tu per tu

15 settembre 18…

"Scrivo giorno per giorno tutto quello che mi accade, nel mio memoriale." Ah sì, davvero, me ne sono vantato a tempo, colla signorina Wilson. Ecco qua diciassette giorni che il memoriale non riceve nessuna delle mie confidenze. Pure, la materia c'era, e come! Ne sono ancora tutto intronato; me ne dolgono tutte le giunture; la penna mi sta male tra le dita. Ma voglio, comunque sia, ripigliare. È necessario; farò come potrò; quando la mano ricuserà l'uffizio, mi fermerò, per ricominciare più tardi. Ecco intanto la letteraccia. Non ne avevo tenuto copia, scrivendo confusamente tutto quello che mi veniva alla mente, e dalla mente alla penna. Ma è qui l'originale, che Filippo Ferri non ha voluto conservare, e che mi ha restituito in malo modo, mostrando per giunta di non essere un appassionato raccoglitore d'autografi:

"Amico, nemico, qual più mi vorrai,

"Non ti maravigliare di questo cominciamento, nè di quello che verrà dopo. È del savio non maravigliarsi di nulla. Batti ma ascolta, disse Temistocle ad Euribiade, se crediamo a Plutarco; leggi e poi fa quel che ti pare, dirò io a te. Mi hai messo l'inferno nell'anima: non ne posso più; ho bisogno di sfogarmi, e mi sfogo. Tu sei venuto per mia disgrazia in Corsenna: sotto veste d'amico eri un traditore, e non saprei che altro dirti di peggio. Così si viene a turbar la pace della gente? a profanar l'amicizia?

"Intendi già che io voglio parlare delle tue idee stravaganti, intollerabili, a proposito della signorina Wilson. Non ti ho detto iersera quello che ti meritavi, tanto mi avevi fatto trasecolare colla tua alzata d'ingegno. Io parlare in tuo favore alla mamma di Lei? chiederle la mano di sua figlia per te, io che la voglio per me, ed ho, per volerla, il diritto di precedenza? Lèvati di testa il pensiero che io possa dare un passo per utile tuo; lèvati di testa quell'altro che ella possa mai esser tua. La signorina Wilson l'amo io, e da un pezzo. Chiederai perchè non te l'ho detto prima. Per due ragioni, ti rispondo; la prima è che non ho l'uso di confidare i miei segreti a nessuno; la seconda è che io mi fidavo di veder volgere ad altra parte il tuo cuore infiammato e i tuoi omaggi cavallereschi. È stato un errore di giudizio, il mio; un altro errore il tuo; ma gli errori si voglion correggere, e non è bello che li lasciamo durare.

"Senti, ora; io non so che effetto ti farà questa lettera. Pazza, ti farà ridere di compassione; amara, ti farà torcer la bocca. Amara o pazza che sia, non posso ritenermi di scriverla. Andiamo diritti al fine. Non mi conviene questa tua aria di padronanza in Corsenna. Ti avevo pregato di venirci, per darmi una mano, come mio futuro padrino possibile. L'occasione si è dileguata, ed io dovevo prevedere che non fosse neanche per nascere, avendo da fare con una triade di sciocchi. È stato un altro errore; ma tu vuoi farmelo pagar troppo caro. Non mi conviene, ti ripeto, non mi conviene.

"Ora, io non ho che una cosa a fare; ringraziarti delle tue cure fraterne, e pregarti di andartene. Sei sunctus munere. Ti è duro il latino? Hai adempito l'ufficio, e non c'è più bisogno dell'opera tua. Il discorso non ti parrà da ospite, e non è certamente; per contro, è da uomo che non gradisce di sentirsi vogare sul remo. Quella fanciulla è mia, capisci? mia; l'ho sposata io, con un atto della mia volontà, davanti all'altare del mio cuore, dov'io son parroco e scaccino, in un municipio dove son io il sindaco, il segretario e l'usciere; non la sposerà altri fino a tanto che io viva, fino a tanto che io possa far riconoscere l'autenticità de' miei atti. Pel tuo meglio, va, e non se ne parli più.

"Ho fatto un sogno; che tu iersera avessi parlato per celia. Brutta celia, in verità, e che mi ha fatto perdere quel po' di cervello che ancora mi rimaneva. Ma se è così, vieni a dirmelo, e mi parrà di rinascere. Se non puoi darmi questa notizia consolante, se metti il tuo amor proprio in luogo dell'antica amicizia, sai quello che ti resta a fare. Io sarò a tua disposizione. E bada, non per giuocare il possesso di una bella mano su d'un colpo di spada o di pistola. Questo io l'ho fatto una volta sola in vita mia; ma non per la donna, che, poveraccia, poteva forse valere di più, come di meno, ma per la mia dignità, che doveva e voleva avere il di sopra. Qui non mi giuoco nulla, perchè è la mia passione in causa; fino all'ultimo soffio di vita difenderò quello che mi appartiene.

"Pensaci. Se ami quella donna come l'amo io, son sicuro di quello che avverrà. Se non l'ami come l'amo io, non far questione d'amor proprio; vattene.

"RINALDO."

Inutile raccontar qui la mia notte; nè, volendo, potrei. Facevo e disfacevo continuamente peripezie e catastrofi, intrecci e scioglimenti di una sola tragedia. Mi addormentai, seguitando ad almanaccare nel sogno; mi destai la mattina scontento di me, ma niente pentito di aver scritta la mia letteraccia. Su quel punto ero fermo, e più inviperito che mai.

Erano le otto, ed io stavo misurando per la centesima volta i nove palmi di spazio libero della mia camera da letto, quando mi venne davanti Filippo. Grave nell'aspetto, ma tranquillo, il mio corazziere; certamente più padrone di sè, che io non fossi di me. Aveva in mano la mia lettera; me la fece vedere, e mi chiese:

–Sei tu che hai scritto ciò?

–Io;—risposi.—Non conosci più il mio carattere?

–Lo conosco ancora;—replicò;—ma non ci ho veduto il tuo senno.

Questa lettera; mi pare d'un matto.

–Se credi di offendermi!…

–No, dico quello che ne penso, secondo il mio costume. E dirò ancora che per la forma non sarà da mettere tra gli esempi di bello scrivere.

–Certo…. non credo che sia da annoverarsi tra le mie cose migliori.

Ma è così, e non si muta.

–Vuol dunque essere una lettera insolente?

–Se tu vuoi sposare la signorina Wilson, sì, vuol essere insolentissima.—

Filippo Ferri si buttò a sedere sulla mia poltrona, e ci rimase un tratto in silenzio, ruotando gli occhi, tormentandosi i baffi.

–Oh, perdio!–esclamò finalmente.—Non la vuoi capire, che questo è uno sciocco litigio, e mi secca?

–E tu,—replicai,—non la vuoi capire che c'è una donna di mezzo, e che su questo capitolo non si scherza e non si transige? Toccami qui, e sarò una bestia feroce. L'antico uomo non muore.

–Complimenti all'atavismo! Ma io, per tua norma, non dò il passo agl'istinti, e per ragion di donne non mi sono battuto mai.

–Bene! Se ti sentisse quella!…

–E vorrei che mi sentisse; darebbe ragione a me e torto a te. Alle donne, rispetto ed ossequio in ogni occasione; non è ossequio nè rispetto tirarle in questi balli sanguinosi, dove non c'è altro guadagno per loro che di scivolare. Ti rammenti ch'io abbia mai dato indietro d'un passo, e davanti a chicchessia? Sei stato tre volte padrino mio in questioni d'onore; sai che in simili giostre ho toccata la dozzina.

–Non ti dispiaccia troppo di passare al brutto numero;—diss'io di rimando.—E non mi fare il saccente, volendo dimostrarmi il non si può e il non si deve di certe cose, dove ognuno vede e si governa a suo modo. Del resto, senti; con poca letteratura, anzi con nessuna, ti ripeto da amico: lasciala stare.

–Non posso.

–Ah, vedi?

–E se potessi,—ripigliò Filippo,—ti direi ancora: non voglio; tanto m'offende il modo di domandarmi un sacrifizio.

–Ti offende!—esclamai.—Ti offende, e stai qui a disputare? Ma io da nemico ti dirò: voglio il tuo sangue, e non patisco rivali.

–Il che significa,—diss'egli,—che non hai sicurezza dell'amore di lei.

–Non l'ho, e tu me ne darai soddisfazione.—

Filippo si alzò da sedere. Rideva, gli lampeggiavano gli occhi, ed io mi avvidi d'aver commesso un errore.

–Ah!—gridò egli.—E proprio dopo questa tua confessione dovrei far le valigie? Sarei un bel cavaliere, se mi appigliassi al partito della viltà; e per i tuoi belli occhi, ancora! Va là, Rinaldo, va là! Tu hai ancora da studiare un pochino il cuore umano, prima di rimetterti al tuo Don Giovanni. Per intanto, ti consiglierei di far colazione, e di meditare un po' meglio su questa faccenda, che non va trattata con leggerezza. Pensaci; me ne riparlerai dopo mezzogiorno.

–Una proroga!

–Di poche ore.

–E che cosa ne speri?

–Che tu verrai dopo mezzogiorno a dirmi: Filippo, amico mio, avevo fatta ieri una cattiva digestione; ho dimenticata l'amicizia, l'ospitalità, ogni cosa. Ero diventato matto; che ci vuoi fare? Alla passione non sempre si può comandare. Ma ora ho pensato meglio; ho avuto un lucido intervallo, ed ho capito che non è in noi di voltar sempre le cose a nostro beneplacito, quando da noi non dipendono, quando ci sono delle sacre volontà da rispettare. Lasciamo dunque che la signorina abbia la sua volontà e ne usi liberamente. Sceglierà lei, e chi sarà il disgraziato chinerà da galantuomo la testa.

–Non ti dirò queste cose, stanne certo.

–Sarà un error di giudizio e un difetto di cavalleria. Ma io voglio ad ogni modo queste poche ore di tregua, per non aver rimorsi da parte mia.

–Voglio! Ma sai che è una bella pretesa? In casa mia!…

–L'osservazione è crudele;—rispose Filippo.—Io sarei già alloggiato alla prima ed unica osteria di Corsenna, se non fosse stato il timore di uno scandalo…. prima del tempo. Anche questa ti perdono, mettendola sul conto della tua follìa. A mezzogiorno, dunque, ci si rivede.—

Così dicendo fece una girata sui tacchi, e se ne andò, lasciandomi solo, con la mia letteraccia, che aveva gittata sul letto. La levai di là e la deposi sulla scrivania, per restituirgliela più tardi. Ma neanche più tardi l'ha voluta riprendere, quando ci siamo riveduti dopo mezzogiorno, e dopo esserci ritrovati dello stesso umore di prima.

 

–Se è per l'insolenza, non dubitare, l'ho avuta e me la tengo;—diss'egli.—Ma il documento non mi è necessario; in mano mia potrebbe smarrirsi, e nuocere alla tua riputazione letteraria.

–Lo scherzo è rancido, oramai.

–Allora abbi del nuovo; e non sia più uno scherzo, ma un rimprovero. Non posso, nè voglio tener io, e forse smarrire una lettera come quella, dove si nomina una persona…. la quale non ci ha dato il diritto di servirci del suo cognome con tanta libertà.—

Era una bottata diritta; la ricevevo in pieno petto, e avendola meritata. Però chinai la testa, senza rispondere.

–Che arma vuoi scegliere?—gli dissi.

–Non ho preferenze.

–Ma sei l'offeso.

–Io!

–Sì, tu; non ti ho scritta la lettera, che ti è dispiaciuta?

–Ebbene, che importa? Tu hai voluto offendermi, ed io non mi sento offeso al punto di volerne vendetta. Io rido, per tua norma; rido verde, giallo, pavonazzo, turchino, ma rido. Se vuoi ad ogni costo una lezione, son uomo da dartela, hai capito? Ma non scelgo io l'arma, non la scelgo, non la scelgo.

–Chetati, la scelgo io. La nera, ti va?

–Sia pure la nera: ma in questo caso bisognerà andar lontano sui monti, o tra i monti, ed essendo ben sicuri di non aver gente sulla linea del tiro.

–Non è necessario di andar lontano;—risposi.—Qui nel giardino, è più presto fatto.

–Non è possibile.

–Perchè? se ci si tira al bersaglio, mi pare….

–Sicuro,—disse Filippo,—ci si tira al bersaglio, perchè c'è spazio sufficiente, dalla casa al muro di cinta. Il tuo giardinetto è una tabacchiera, mio caro. Ma qui, nel caso nostro, non sarebbe più un bersaglio; sarebbero due bersagli, uno dalla casa al muro, l'altro dal muro alla casa, col rischio, per colui che fosse dalla parte del muro, di uccidere Argia, la tua cuoca, o Pilade, il tuo servitore; due persone che non ti han fatto niente, ch'io sappia.

–Ebbene, alla spada;—conchiusi io, adattandomi ad un ragionamento che non faceva una grinza.

–Alla spada;—rispose Filippo.

Andai subito a cercare le spade, che avevamo lasciate con le altre armi nel salottino, e postele in croce ne offersi le due impugnature al mio avversario. Egli ne prese una, ed io l'altra, muovendo tosto verso il giardino. Ma egli non pensava a seguirmi; teneva la spada in mano come una croce, ne guardava l'impugnatura e metteva un sospiro.

–Che?—gridai stupefatto.—Ti dispiace?

–Eh sì! pensando che le ho portate io…. È dura, sai!

–Rinunzia…. a lei.

–No;—proruppe egli, dandomi un'occhiata che pareva volesse passarmi fuor fuori.

–Perchè, no? finalmente, che speranze hai?

–E tu?

–Capisco,—ripigliai,—che potremmo leticare così fino al giorno del giudizio.

–All'infinito, dunque;—commentò Filippo.—A te non verrà mai, il giudizio.—

Gli risposi con una spallata, e gli feci cenno di passare in giardino.

–Per che fare?—mi domandò.

–Per cominciare. Io butterò la mia giacca, tu butterai la tua, e saremo subito in arnese di combattimento.

–Capisco. Ma i padrini?

–Che padrini d'Egitto!

–Uno, almeno; e si può averlo in mezz'ora. Ti va lo Spazzòli? Son sicuro che non vorrà ricusarci il favore; almeno per la stranezza del caso.

–Non voglio nessuno;—risposi.

–Ma tu sei più matto che io non credessi;—gridò Filippo spazientito.—Va a fartela mettere da altri, la camicia di forza. Un assassinio? Perchè un duello senza testimoni è un assassinio, mi capisci? Se io fossi sicuro che tu assassinassi me, non protesterei; ma perchè tra due rischi c'è quello ch'io ammazzi te, non intendo di andare in corte d'assise e alla reclusione, per te e per le tue follie. O un testimonio, o niente duello.

–Ma io di quei di laggiù non ne voglio.

–Ed io ti potrei dire che ci sono soltanto quei di laggiù capaci di renderci il servizio, in Corsenna. Ma non voglio parerti desideroso di salvarmi con un sotterfugio dai lampi della tua terribile spada. Mi hai mortalmente seccato, e non vedo l'ora di farla finita. C'è Pilade, in casa? Venga lui ad assisterci; gli diremo in pochi salti e brutti il nostro bisogno, e sotto i suoi occhi c'infilzeremo come due ranocchi. Ti va?

–Mi va. Ohè, Pilade!—

Pilade non indugiò a comparirci davanti.

–Sei stato soldato, non è vero?—gli dissi.

–Tre anni, nei bersaglieri;—rispose, mettendosi involontariamente sull'attenti.

–Bene; e non hai paura?

–No, signor padrone; neanche di tre che scappino—

Filippo ride; ma non rido io, invelenito come sono.

–Benissimo;—ripiglio, e veramente poco in tuono colla risposta di Pilade.—Tu ora ci vedi qui, il signor Ferri e me, desiderosi di sbudellarci. Sì, e non c'è che ridire. Ci siamo offesi; nessuno di noi vuol cedere d'un punto; decidano dunque le armi. Tu resterai qui testimone, per poter dire al bisogno che tutto è passato d'amore e d'accordo tra noi.—

Pilade balena un istante, ed ammicca. Il mio discorso non finisce di piacergli.

–D'accordo, sia, non dico di no; ma d'amore…. signor padrone….

–Eh, intendi per discrezione. Voglio dire che siamo rimasti così tra noi due, e che il duello si fa in piena regola.—

Un momento di riposo sarà necessario. La mano trema; le povere dita intormentite portano la, penna fuori di riga. E poi, si avvicina l'ora di andar laggiù…. anzi no, lassù; bisogna proprio dire lassù…. dove gli angeli stanno di casa.

XVIII
Teste rotte

16 settembre 18…

Ripiglio il racconto, lasciato ieri in tronco per cagione di queste povere dita. Pilade era rimasto sbalordito, o fingeva. Sì, credo proprio che fingesse. Quello è un ragazzo che non si sbigottisce di nulla, e fa qualche volta il minchione per non pagar gabella; ma è un furbo trincato. Egli dunque stette un poco sopra di sè, a bocca aperta, come un vero baggeo; poi disse:

–Che discorsi son questi?

–Discorsi da matti;—risposi io.

–E noi siamo due matti;—rincalzò Filippo.—Che ci vuoi fare?

–Scusino;—riprese Pilade, ammiccando;—ma allora… L'ho a dire?

–Parla; hai libertà di parola.

–Allora… perchè non vanno al manicomio?

–Perchè…—risposi io, sconcertato.—Perchè i matti non ci vanno mai colle lor gambe. E tu assisti frattanto al nostro duello.

–Duello!—esclamò Pilade, facendo bocca da ridere, da quello scimunito che voleva parere.—Con quelle spade?

–E con che? con un par di stecchini?

–Eh, a tavola, per esempio… dopo aver ben lavorato di forchetta, perchè no? Ma io volevo dire… volevo proporre… Oh, infine, sentano, poichè m'hanno data libertà di parola… Io sarò un asino, ma ho sempre sentito dire che un asino vivo val più d'un dottore morto… ed anche, se lor signori s'infilzano, di due. Io dunque domando e dico; se hanno delle bizze da sfogare, c'è egli bisogno di spiedi? Se hanno da cavarsi il ruzzo dal capo, a che servono? Per rompersi la testa serviranno meglio i bastoni. Dico a Lei, sor padrone, che na fa uso così spesso e volentieri, di quei così lunghi lunghi; che fanno stupire, ed anche, diciamo tutto, anche rider la gente. Ne taglia Lei, ne taglio io per farle piacere; ce n'è una collezione, in saletta….

–Che dici?—esclama Filippo.—Continua.—

Ma l'altro non approfitta della licenza; si è mosso dal posto, andando via come un lampo e sparendo dall'uscio vicino; come un lampo è ritornato all'aperto, con una bracciatella di bastoni di nocciuolo, ruvidi, rugosi, alti un metro e sessanta; tutti i miei bastoni babilonesi, che a detta di Pilade fanno rider la gente. E rida la gente; quando avrà ben riso schiatterà.

–Mi assaggino un po' questi;—dice il servitore, ammiccando da capo.—Sodi, robusti, maneggevoli, cedono quanto basta, rimbalzano bene, e dove toccano lasciano il segno. Con questi alla mano si sfoghino, se ne diano quante vogliono, fino a tanto che potranno star ritti. Io assisterò, e vedrò di contar giusto.

–È un'idea;—grida Filippo, inuzzolito.

–Le piace?

–A me sì; è semplice e pratica. Ma chiedine piuttosto al tuo padrone; io non comando.

–Piace anche a me;—rispondo allora, incominciando a levarmi di dosso la giacca.

Filippo si affretta ad imitarmi. Levata la sottoveste, deposti gli orologi sopra un sedile, ci troviamo tutt'e due in maniche di camicia, l'uno di fronte all'altro.

Qui poi bisogna veder Pilade, con la sua aria di papa Sisto dopo che ebbe gittata la gruccia; bisogna vederlo raggiante, misurare i bastoni, trovarne due di pari lunghezza, che non ci sia la differenza d'un millimetro, offrirceli con un gesto largo, prenderne un terzo per sè, levarlo in alto e piantarsi davanti a noi come maestro di combattimento.

–Così, come in caserma;—dice egli.—Ma scusino la libertà grande; con tutta la loro arte di scherma, penso che non faranno prodigi. Il bastone è l'arma per eccellenza; lo diceva il nostro professore al battaglione; ma è pure un'arma molto difficile.

Mastro Raffae', non te ne incaricare;—gli rispondo io.—Vedrai che in caserma non si è mai fatto meglio di qui; e vorrai, spero, esserci largo della tua alta approvazione.—

Volendo dimostrargli che la scherma del bastone non è poi l'arca santa per noi, ci mettiamo in posizione, gli facciamo sotto il naso un mulinello in piena regola; poi caschiamo in guardia, io di terza e Filippo di quarta, invitandoci l'un l'altro coi soliti inganni all'attacco di primo appetito. Ma nessuno dei due si lascia cogliere alla lustra; vogliamo persuader Pilade che non siamo al bastone quei novellini che egli s'immaginava, e procediamo per via di finte, tastandoci, attaccando guardinghi e parando, scaldandoci a grado a grado nel giuoco, accennando alla testa, alla faccia, sui fianchi, facendo insomma tutto quello che è necessario tra schermitori provetti. Intanto, a quel nuovo bisogno di associar le due mani in un solo lavoro, si sciolgono i polsi, brillano i muscoli, guizzano, si stendono e si contraggono i tendini, fulminando imperiosi ogni moto che gli occhi vigilanti avvertano necessario alle membra in orgasmo. Eccoci al punto buono; si colpisce strisciando qua e là, si para un po' meno e si risponde di più, si picchia e si ripicchia, ora alternamente ed ora all'unisono, come due battitori indefessi, quando menano il correggiato sull'aia, e volano i colpi, rombano in alto, calano impetuosi i randelli, nè l'occhio discerne più il manfanile dalla vetta, non vedendo più neanche la gòmbina.

Quello che non si vede, qualche volta si sente; e come! In quella cieca tempesta di bastonate, me n'è calata una sulle nocche delle dita, che mi fa vedere, se non altro, le stelle. Inferocisco; mi caccio sotto al mio avversario, ho la fortuna di guadagnar mezzo tempo e di assestargliene una di sotto in su, che gli fa sgusciar di mano il bastone. Ma non c'è da cantar vittoria; il mio avversario si china rapidamente, abbranca il bastone, sguizza via prima che io passi dal montante al fendente, torna all'assalto più infellonito che mai. Egli a me ed io a lui, si picchia così sodo e così lungo, che i poveri bastoni non ne possono più, gemono, si sfibrano, si sfasciano, a guisa di canne peste.

–Ne hanno abbastanza?—chiede il maestro di combattimento.

–No;—brontolo io.

–No;—rugghia Filippo.

E vorremmo proseguire; ma Pilade ha posto in mezzo il suo bastone di comando.

–Si fermino dunque un minuto secondo; dice egli, a mo' di —conclusione;—e prendano due bastoni nuovi. Questi li hanno —finiti.—

Si buttano i due avanzi miserevoli, si afferrano le due vette nuove che Pilade ci porge con nobilissimo gesto, e giù da capo la gragnuola. Pare che i bastoni nuovi ci abbiano rinnovate le forze. Sicuramente hanno migliore la presa, e i colpi ci vengono più aggiustati. Vedo io doppio come un toro infuriato, o Filippo è gravemente ferito? Certo, è toccato alla guancia, tra l'occhio e l'orecchio destro, e il sangue gli spiccia da uno strappo che mi pare assai lungo. Vorrei fermarmi, e faccio intanto un gesto d'angoscia.

–Niente, niente;—grida egli, che ha capito a volo.—È una graffiatura. Questi bastoni son troppo sottili, cedono troppo, e la parata non serve sempre a sviare la botta.—

La grandinata ripiglia, e spesseggia. Ne busco la parte mia; ma niente paura, son quasi tutte sulle braccia, e i muscoli enfiati le rifiutano. Mi fischiano gli orecchi, dal sangue che mi corre veloce alle tempia; sento confusamente una voce di donna che strilla, e Pilade che grida più alto di lei:

–Tornate alle vostre cazzaruole; qui non è luogo per voi.—

Capisco, è Argia che ha sentito il frastuono ed è accorsa sbigottita sull'uscio. Ma si è subito ritirata, obbedendo alla voce di Pilade, che è per un momento il vero padrone di casa; e là, in un angolo della cucina, pregherà il Signore e la Vergine benedetta per una coppia di matti furiosi. Pilade si è chetato, e bada a noi colla sua solita flemma; io non odo più altro che il respiro affannoso dei miei polmoni e di quelli del mio avversario, in cadenza colla rovina dei colpi. E a poco a poco mi mutan colore le cose; incomincio a veder rosso, sempre più rosso nell'aria, e in mezzo a quel balenio di randellate che paiono tante linee intrecciate nell'aria, gli occhi spalancati di Filippo Ferri, che mi sembrano quelli di un grosso ragno appiattato tra le fila concentriche della sua tela insidiosa. Sento e non sento il suo bastone toccar me; sento e non sento il mio toccar lui. Che importa oramai contare i colpi? Ai lividi si riscontreranno i conti, e si aggiusteran le partite. Non è più un combattimento, è un battibuglio, come alle nozze di Pulcinella. Ah sì, io che amo tanto le legnate dei burattini, ho qui il fatto mio. E ancora io addosso a lui, e lui a me, come due cani rabbiosi, che non ismettono per morsi che tocchino, per brandelli di carne che perdano. Quando siamo troppo sotto misura, balziamo indietro, o io, o lui, per saltarci addosso da capo; nessuno vuol cedere, nessuno si guarda più tanto o quanto; si fa a cozzare per cozzare, a colpire per la voluttà di colpire; vanno dove le vanno, e chi le tocca son sue; è l'inferno scatenato, è il finimondo, è l'ira di Dio. Poi… poi buio pesto e silenzio di tomba; non ho più visto, non ho sentito più nulla.

 

Quando riebbi coscienza di me, ero nella mia camera, lungo disteso nel mio letto. Mi guardai dattorno istupidito, non sapendo darmi ragione di niente. Adagino adagino, quasi volessi vedere se ero io e non un altro in quella postura, provai a muover la testa, e mi venne fatto; le braccia, e mi sentii dolere dalle spalle alle mani; le gambe, e non mi parve che rispondessero affatto.

Pilade era là, seduto in un angolo, ed io non lo avevo veduto. Si alzò, al primo gesto ch'io feci, e venne a raccomandarmi di star cheto.

–Ma che cos'è?—gli dissi, maravigliandomi un poco di sentir la mia voce.—Perchè sono in letto?

–Oh, c'è da un pezzo, signor padrone. Non si rammenta di sei giorni fa?

–Sei giorni!… Ah, sì, sono dunque passati sei giorni? Dove avevo la testa?

–Nel ghiaccio, signor padrone, nel ghiaccio pesto, e grazie a Dio ce ne siam fatti fuori.

–Bene…—mormorai;—bene! e… il signor Ferri?

–Anche lui, anche lui. Vadano là, se ne son date di buone. Mamma mia!

Pareva la gragnuola che avesse dato in un campo di zucche.

–Ti ringrazio….

–Scusi, dicevo così per dire. È il primo paragone che m'è venuto in mente. Ma basta, non si stanchi a parlare, per la prima volta che le è tornato il giudizio.

–Credi?

–Volevo dire il raziocinio, il sentimento, il che so io.—

Lascio correre l'annaspìo del signor Pilade, mio padron riverito, che è dopo tutto un buon ragazzo, e che in questi giorni ha dato prove di aver più giudizio di me. Mi cheto, come egli raccomanda, ed anche mi addormento, dopo aver bevuto un sorso della pozione che mi offre, senza sapermi dire che cosa ci sia. Due o tre ore dopo arriva il dottore, che riconosco benissimo, e che è lieto di sentirmi parlare.

–Animo, via, le cose vanno benissimo.

–Se lo dice Lei…. Ma ci ho dolori da per tutto.

–Si contenti, si contenti. Quelli passeranno in due o tre giorni. Era la testa, la testa, quella che mi teneva in pensiero; ma ora, sia lode al cielo, sono tranquillo. Se lo lasci dire, signor Morelli, Lei ha un cranio a tutta botta.

–E il signor Ferri, come sta?

–Discretamente, dal canto suo.

–Mi par di ricordare che n'avesse toccato una in testa anche lui.

–Dica pure due, con lacerazione cutanea, e non contiamo le ammaccature. Ma non c'è niente di grave. Il suo amico si duole assai più d'un colpo al ginocchio; dice, anzi, che non è stato di buona guerra.

–Ed io, dottore? Che cosa dovrei dir io, che non posso muover le gambe, tanto le ho peste?

–Oh, gliel'ho detto, non dubiti, ed ha dovuto convenire di aver torto. Son colpi alla testa, ha osservato lui molto giudiziosamente, colpi alla testa, ma che non hanno trovato il bersaglio, e son calati giù a battere dove hanno potuto. Ma che pazzie, signori miei belli, che pazzie!

–Ha ragione, dottore; ma almeno ci siamo sfogati. S'era fatta una scommessa; ci eravamo dette delle male parole; capirà….

–Capisco, sì, capisco che hanno la gioventù nel sangue; ed anche, aiutando il caldo della stagione, sono montati in furore. Ma non lo facciano più; è insalubre.—

Ci son voluti dieci giorni a rimettermi in gambe, quanto bastava per scender da letto. Filippo è venuto al settimo giorno in camera mia. Evidentemente io ho avuta la peggio, se egli ha potuto alzarsi tre giorni prima di me. Ma io, con una lacerazione al cuoio capelluto, non ho segni in faccia; egli porta uno sfregio alla guancia destra, fra l'orecchio e lo zigomo, con una sfumatura di livido. Deve essere stata una brutta legnata, e ne porterà per un po' di tempo l'insegna.

Gli ho offerta la mano, ed egli l'ha stretta, ma subito pentendosi d'aver fatto troppo forte. Infatti, mi ha veduto torcer le labbra, per trattenere un grido di dolore. Queste povere dita, ancor oggi mi dolgono, e fanno molto a tenere la penna. Il mio scritto è raspatura di gallina.

Non sì è parlato di niente, come se niente fosse avvenuto tra noi. Perchè tornare sul passato? Non è storia da dover tramandare ai posteri, ed è già troppo che l'abbiano a ricordare i presenti. Soltanto al decimo giorno, quando ho cominciato a muovermi per casa, gli ho chiesto:

–Ebbene, che cosa si dice in Corsenna?

–Capirai,—mi ha risposto,—sono rimasti tutti un po' male; specie per il fatto di non saperne abbastanza. Tutti domandano, prendono lingua dove possono. Io ho inventato qualche cosa, che bastasse ad appagare la curiosità dei più discreti; quanto agli indiscreti, vadano a farsi impiccare. Pilade, da quell'uomo di giudizio che è, aveva incominciato a creare la leggenda d'un nostro alterco, nato da una questione di scherma; ed io, felicissimo della trovata, ho abbondato in quel senso. Per tua norma, tu sei partigiano della scuola lombarda, ed io della napoletana; ci sono queste due scuole, infatti, per la sciabola, come per il mandolino, e tutt'e due la pretendono ad insegnarci il miglior modo di romper la testa al prossimo. Cosicchè, caro mio, se tu anteponi la napoletana alla lombarda, abbi oramai la compiacenza di tenerti in corpo la tua opinione, perchè sarebbe tardi, e mi faresti bugiardo senza alcun sugo. T'avverto ancora che non s'è parlato di bastoni, chè tutt'e due ci saremmo diventati ridicoli, e questo poi, senza rimedio. Ci siamo invece picchiati ed ammaccati colle sciabole da sala, nella furia dell'alterco, ed anche un po' per ismargiassata, non mettendo la maschera. Con questo ho giustificata la mia graffiatura; quella che si vede, naturalmente. L'altra, che "interessa il cuoio capelluto", come dice il dottore, è fortunatamente nascosta, e il mio cuoio capelluto non ha nessun interesse a metterla in piazza.

–Sei dunque uscito?—gli ho chiesto.

–Sì, ho fatto le mie visite, e per me e per te. Non mi crederai mica un egoista!—

Sorrido e ringrazio; ma non ardisco chiedergli altro. Frattanto si affaccia Pilade sull'uscio, e gli fa cenno.

–Che vuoi?—dice Filippo.—Ah, sì, ho capito; vengo subito.

–Segreti?—domando io.

–No, si tratta di una commissione. Vado e ritorno.—

Così dicendo, Filippo esce, e si richiude l'uscio dietro. Potrei andare ancor io; ma non sono curioso, e rimango. Per altro, il Giardinetto non è una caserma; è una palazzina di due piani; una persona di più dell'ordinario si fa sentire, non può passare inavvertita; ed io odo una voce d'uomo, voce nuova ed insolita, che si alterna con quella di Filippo. Chi sarà mai? Mi affaccio alla finestra, e la voce mi vien più distinta all'orecchio. "Si degni di venir fuori, discorreremo più comodamente" ha detto Filippo; ed esce infatti, e un signore lo segue borbottando. Chi sarà mai? torno a dire; chi sarà mai? e che necessità di condurlo fuori?

Chiamo il servitore, e lo interrogo. Voglio sapere chi sia quel signore, che è venuto a cercare il mio ospite, ed è uscito da casa mia brontolando.