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Arrigo il savio

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IV

La contessa Giovanna Morati di Castelbianco, presso la quale andremo ad aspettare i nostri personaggi, con la certezza di conoscerne altri parecchi, fior di cavalieri e di dame, la contessa Giovanna, dico, era una bella donna sui trentadue. È una brutta cosa, lo so, contar gli anni alle donne; ma i narratori hanno dall'ufficio loro il triste obbligo di essere più noiosi dei presidenti di tribunale; i quali, almeno, procedendo all'interrogatorio di una bella testimone, possono incominciare, quando sono galanti, press'a poco così:

– Signora, quanti anni ha? Ventidue, non è vero? —

Dunque, la contessa Giovanna ne aveva già trentadue; età, dopo tutto, in cui la bellezza è giunta al suo pieno rigoglio, e può ancora aspettare una lieta maturità. Una bell'alba, sicuramente, ha i suoi pregi, e piacerebbe anche al re Saulle, che fu, come sapete, l'uomo più scontroso e bisbetico della storia. Ma un sole al meriggio, Dei immortali! Un sole al meriggio scotta. E la bellezza della contessa Giovanna era proprio così, per testimonianza di molti, che s'erano argomentati di godere accanto a lei d'un calor temperato; scottava senz'altro. Molto grave, tuttavia, sotto le mostre di una conversazione arguta e di una affabilità costante; più grave allora, quasi melanconica, e in certi momenti anche triste. Pareva che la sorte, concedendole la ricchezza e lo sfarzo di una condizione invidiata, le fosse stata avara di ciò ch'ella avrebbe desiderato assai più, come a dire una felicità più modesta e più ignota. E taceva, nondimeno, il suo intimo tormento; e si padroneggiava, obbligata com'era a ricevere, a sorridere, a dir parole garbate; ma in quell'ufficio di cortesia si indovinava lo sforzo, e quella sera più che mai.

Povera donna, mal maritata! Sentite i discorsi che le faceva, dopo tavola, il suo signore e padrone. Avevano pranzato un poco prima del solito, perchè ella avesse tempo a disporre ogni cosa per il suo tè. Era un tè semplice e semplicemente annunziato; ma diventava sempre, aiutando il numero dei convitati e le voglie della gioventù, un tè danzante. Si dice danzante, o danzato? Nè l'uno, nè l'altro, probabilmente; era invece un tè, che quando c'eravate tutti voi, insieme con tutti noi e con tutti loro, si tirava discretamente nell'ombra, e lasciava che da una parte si ballasse, dall'altra si giuocasse, e più in là si trovasse anche una succulenta imbandigione, la quale non so perchè non si chiamasse cena a dirittura. I tè, chiamati anche martedì, della contessa Giovanna, duravano dai primi di gennaio fino agli ultimi di febbraio, e godevano di una riputazione straordinaria; ma non ci si era ammessi molto facilmente, e il numero dei cavalieri non oltrepassava d'ordinario i cinquanta, tra vecchi amici di casa ed altri, che, avendo conosciuto i Castelbianco in qualche società e portato al palazzo della contessa due biglietti di visita, erano stati ricambiati da un biglietto di visita del conte. Le amiche e nemiche intime di Giovanna, quasi sarebbe inutile il dirlo, accorrevano tutte, e, sebbene non ci fosse la pretesa di un ballo, ci andavano in grand décolleté. Dico la cosa in francese, perchè non c'è in italiano, e se c'è, non mi piace trovarla.

I Castelbianco si erano alzati da tavola, e la contessa si muoveva per andare nelle sue camere ad abbigliarsi, mentre il conte aveva accennato all'idea di dare una corsa fuori di casa.

– È sperabile, – notò la signora, – che non farete stasera come l'altro martedì, e non andrete al vostro eterno circolo.

– Non andrò; – disse il conte, sospirando.

– Capisco, per voi è un sacrifizio rinunziarci; – replicò la signora.

– Che dite, mia dolce amica? Mi ci diverto, in casa, mi ci diverto un mondo. Ma quando mi ci sarò ben divertito, – continuò il conte, mutando il sospiro in un mezzo sbadiglio, – non saprò più che fare, nella mia beatitudine. Ah, Giovanna, perchè non siete voi… la moglie di un altro? Vi farei una corte spietata, e non senza qualche speranza.

– Vi ringrazio del buon concetto che avete di me.

– Si scherza. Ma, dopo tutto, essendo io l'aspirante… Vedete che il rischio non è tale da spaventarmi. Siete bella, Giovanna, avete una testa da imperatrice, e, per andare fino in fondo, il primo piedino dell'universo. Ma non siete più sola, badate!

– Che cos'è quest'altra stravaganza? – domandò la contessa, seccata da quei discorsi sciocchi, ma non potendo tuttavia trattenersi dal ridere.

– Eh, vorrei che lo aveste veduto, come l'ho veduto io questa mattina, in via Sallustiana. Un piedino, che pareva il vostro! Non andate in collera, mia dolce amica. Ammirandolo come ho fatto, non son venuto meno a nessuno dei miei doveri. Mi pareva tanto la stessa cosa, che a tutta prima ho pensato a voi, e mi son chiesto quale delle vostre amiche abitasse lassù.

– Bella! – esclamò la contessa. – Son forse andata a far visite?

– Capisco, ma che volete? Lì per lì, mi era parso che poteste esser voi. Per fortuna, se non ho veduto il viso, ho veduto una veste color marrone; e voi il marrone lo odiate.

– Esagerazione! Non mi piace tanto, ecco tutto; – rispose la contessa, scuotendo la sua bella testa da imperatrice. – E che cosa andavate voi a fare lassù?

– Volete saperlo? Andavo a trovare il mio amico Valenti; quel poveraccio che voi non potete soffrire.

– Altra esagerazione! – ribattè la signora. – Mi è indifferente, e voi, a furia di dire queste cose, finirete col fargli credere che qui si parla molto di lui.

– Giustissima, l'osservazione! – disse il conte. – A proposito, stasera vi presento suo zio, tornato dall'India, il signor Cesare Gonzaga, un bell'uomo, ancor giovane, coi suoi capegli grigi, che ha la debolezza di non voler essere chiamato marchese, essendolo: come un altro, non essendolo, avrebbe quella di farsi dare quel titolo. È un carissimo uomo, del resto, e metterà un po' di brio in questi vostri ricevimenti, che mi paiono, scusate, un tantino monotoni.

– Ci vengono tutti i vostri amici, e le mie amiche migliori; – osservò la contessa.

– Ah, sì, parliamone, delle vostre migliori amiche. La Savelli, che non è male, ma sta dura, intirizzita, come un idolo indiano. La Carini, che è carina, ma non ha preferenze che per i capegli bianchi; che posa! La Robusti, che non ha spalle, e vuol farlo sapere. La Gleisenthal, che è stravecchia e oramai dovrebbe smettere.

– Smetter che? Di venire a vedere un'amica? – ripigliò la contessa. – Del resto, le volete giovani e belle? C'è la Manfredi.

– Sicuro, una fanciulla. Ma che strana tenerezza vi ha presa, che volete dappertutto quel fiorellino appena sbocciato? A teatro con voi; in carrozza con voi; a casa, non se ne parla neanche. E al solito capiterà per la prima. Badate, Giovanna; una marchesa che amai, quando ero giovane, cioè, quando ero più giovane, mi diceva…

– Qualche storiaccia delle solite!

– Bene, vi farò grazia della storia, vi riferirò soltanto la morale: “Noi donne abbiamo il torto di non esser gelose delle ragazze; e queste, frattanto, si prendono la nostra bellezza, si vestono della nostra grazia, e ci rubano il posto.„

– A me, – disse Giovanna, – non ha da rubar nulla.

– E non parlo per voi, moralizzo in genere; – rispose il conte. – Ma io, ora, vi faccio perdere un tempo prezioso, e dimentico di avere anch'io qualche cosa da fare. A rivederci tra un'ora, mia dolce amica, e non vi adirate con la mia esperienza. Quando saremo vecchi, ci servirà. —

Vispo come un ramarro, saltellante come una cutrettola, il ritinto Alcibiade se ne andò a prendere una boccata d'aria, non senza l'intenzione di dare una scorsa al suo circolo. La contessa si ritirò nelle sue camere per abbigliarsi. Mai, come quella sera, Giovanna di Castelbianco aveva avuto così poca voglia di mettersi in abito di ricevimento. Piuttosto, ne aveva molta di piangere; e non poteva, pur troppo, perchè la cameriera doveva venire a vestirla, e una padrona di casa, giovane e bella, non ha da farsi vedere mai con gli occhi rossi dalla sua gente di servizio.

La contessa Giovanna era pur da compiangere. I suoi ricevimenti, le sue feste, l'avevano gradevolmente occupata da principio, mettendo un po' d'allegrezza nei primi anni di un matrimonio malaugurato. La donna è così lieta di brillare, che per un tratto dimentica perfino di non esser felice. Ma l'uso, ahimè, toglie il pregio alle cose; si acquista l'abito della società, e i balli e i lieti ritrovi non hanno più quell'attrattiva che li faceva tanto desiderare dapprima. Sebbene, diciamolo, in quella scuola ristretta e geniale del mondo, quanto meno si gode lo spettacolo superficiale, tanto più s'incomincia ad osservare molte cose non vedute, o troppo leggermente, in principio, e si paragona, e si giudica, non sempre a proprio vantaggio, in mezzo a tanti esempi di colpe fortunate, di gioie effimere, ma non meno gradite, e di ebbrezze profonde. Crediamo così volentieri alla felicità degli altri, quando non ce n'è ombra per noi! Allora una povera donna, piena di sentimento e turbata da vaghe sollecitudini che nessun rimorso è ancora venuto a condannare, incomincia, senza volerlo, a cercare per sè. La cosa non è neanche difficile, poichè è lei la cercata, è lei la desiderata, e le tentazioni, sotto la veste dell'ammirazione, dell'omaggio, della preghiera, volano a lei come uno sciame d'amorini.

Fra i molti che la circondano e le dicono tante cose, anche quando non dicono nulla, c'è il prode capitano, che ha deposte le armi, terror dei nemici, per segnare il suo nome nel taccuino dalla guardia di madreperla; c'è il brillante gentiluomo, che alterna maravigliosamente i trionfi di salotto coi meets, il turf e lo sport; c'è l'uomo illustre ed ammirato, che sa interrompere una pagina destinata ai posteri, per iscrivere un madrigale sull'angolo d'un ventaglio; c'è il cavaliere pensoso, e sopra tutti pericoloso, che, mostrando di non saper nulla di nulla, accenna di esser disposto a commettere ogni pazzia; c'è, infine, il buono e compiacente giovanotto, che ambisce gli uffici del servitore, non aspettando altra ricompensa che il titolo d'amico, e lascia intorno a sè un profumo di modestia, che può farlo ricercare, in un momento di poetica tenerezza, come si ricerca all'odore la violetta de' campi. E che gioia, quando si crede di aver trovato! Che turbamento ai primi incontri, che battiti di cuore, che angosce, che contrasti dolorosi e cari! Ma la passione prorompe; non si resiste alla piena, e giova dar colpa di ogni cosa al destino; poi, quando si è travolti, avviene come in fondo a certe cascate della favola, che sotto allo scroscio vorticoso delle acque irrompenti nascondono un laghetto tranquillo, angolo riposto e felice, illuminato di miti trasparenze, non offeso dai raggi del sole, in cui si dimentica volentieri e si confida di essere dimenticati dal mondo. Vita, son queste le tue oasi verdeggianti. Ognuno reca ai primi incontri le sue doti migliori, la bontà serena, la grazia ingenua, la delicatezza squisita, la generosità commovente, infine, che vi dirò? l'anima vestita a festa. Ma non è festa ogni giorno: e giungono pur troppo, seguaci non prevedute ma certe, le ore della stanchezza, in cui la finzione si tradisce e l'inganno si scopre. Maschere geniali, addio; la commedia è finita. E v'hanno cuori che non si spezzano, alla triste scoperta, che non disperano, che cercano ancora, errando di delusione in delusione; tanta è la sete del vero! Ma, allora miei poveri cuori! A correrne parecchie, di queste prove dolorose, come giungerete laceri, irriconoscibili, o miei poveri cuori, alla meta!

 

Il cuore di Giovanna, non pervertito, nè sciocco, rifuggiva da queste ricerche. La povera donna aveva creduto ed errato; non voleva ricominciare. In verità, era così misero l'uomo, e così brutto il pericolo! Turbata da vaghe paure, agitata dai rimorsi, voleva finirla, e in un impeto di sincerità dolorosa lo aveva già detto a quell'uomo. A lui toccava, a lui, di ribellarsi a quella sentenza in nome dell'amore, onnipossente quando è vero. Ma poteva Arrigo Valenti far ciò? Aveva egli trovata una di quelle frasi che escono dal profondo del cuore, e possono, se non mutar nome alla colpa, nobilitarla almeno e renderla cara come una eccelsa sventura? No, non l'aveva trovata: aveva detto: intendo, sì, avete ragione, fummo pazzi. E non una lagrima, il vile, non una lagrima, che temperasse quelle acerbe parole! Ah, povera donna! Un giorno, forse, a quell'angoscia sarebbe sottentrata la calma, e con la calma il pensiero di una vita nuova. Quante belle cose, nel mondo, senza le febbri della passione per l'essere immeritevole! L'arte, per esempio, a lei così cara! Infine, per qualche alta cagione passiamo noi pellegrini su questa terra, che la medesima povertà delle nostre cognizioni davanti all'infinito visibile ci ammonisce non esser altro che una via. E perchè, intanto, sacrificare ad una fermata, ad un errore, ad un rimorso, tutte le sublimi curiosità del viaggio? Quanta gente non vive, e felice, senza le febbri maledette? Passare nella gioventù belle e superbe, col cuore aperto a tutte le nobili commozioni, a tutti i confessabili amori, guardando con serena alterezza dintorno a sè, non costrette a temere lo sguardo indiscreto, ad arrossire davanti a un testimone volgare; accostarsi alla vecchiezza, onorate e gloriose, orgoglio ed esempio ai figliuoli, grato ricordo ai gentili compagni di vita, condanna vivente ai rotti costumi del tempo; spegnersi benedette e sacre, potendo dire con l'ultimo soffio di vita: “non vedrò là severo il volto di mia madre;„ orbene, ecco la gran meta, l'ideale, il sogno divino. La virtù, che è bella nel suo immacolato candore, il pentimento che raggia a lei con intelletto d'amore, ecco i conforti, le gioie, il viatico dell'esistenza; il resto è nulla.

Ottime ragioni, o lettori. Speriamo che la contessa Giovanna le trovi più tardi da sè. Per oggi ella è triste, ferita nel suo amor proprio, punita nella sua vergogna. Ha dovuto tremare; ha dovuto mentire; e per chi? La bella dama è vestita di tutto punto, per recitare la sua parte. È l'ora di metter la maschera, ed ella con uno sforzo supremo ci riesce. È lo sforzo della necessità. Intanto, nelle sale di ricevimento si è lavorato alacremente; i candelabri, i doppieri, i lampadarii si accendono, e per lunga fila d'immagini si ripetono fiammelle, canestri di fiori, e quadri e bronzi dorati, su tutte le vaste specchiere. Ogni cosa è all'ordine, e il maggiordomo ne ha recato l'annunzio alla padrona di casa. Ora non mancano che i convitati, ed è naturale che manchino, poichè non sono ancora le nove. Ma ecco qualcheduno in anticamera. È troppo presto, per la folla; non può esser che lei, la giovane amica, il fiore appena sbocciato, Gabriella Manfredi.

V

Snella di forme ed aggraziata nella sua giusta statura, bianca di neve la carnagione, il viso aperto, risolutamente modellato, ma di contorni finamente accarezzati, Gabriella Manfredi prometteva a diciott'anni una rigogliosa maturità di bellezza, ed era già, fin d'allora, un miracolo di leggiadria, di freschezza giovanile. La fronte, nitida e breve, era nascosta a mezzo da due ciocche increspate dei suoi capegli neri, che, raccogliendosi dietro agli orecchi piccini, scendevano in abbondante cascata di riccioli lungo il collo giunonio. Gli occhi grandi, profondi, color di zaffiro cupo, splendevano di luccicori cristallini di sotto agli archi prominenti delle sopracciglia nerissime. Ampia era la guancia e piena; il naso diritto, sporgente alla radice, risentito nel classico disegno delle nari; le labbra belle e carnose; il superiore alquanto più tumido, che, rialzandosi col sorriso, rosseggiava vivace sulla bianchezza luminosa dei denti; il mento, ovale e rilevato, completava degnamente quel tipo maraviglioso di bellezza greca, con tocchi più vigorosi di sentimento romano. Non fiori tra i capegli, o nel timido scollo del seno: era lei, lo sapete, il fiore appena sbocciato. Vestita di bianco e di nero, quasi per naturale richiamo alle due note caratteristiche di colore della sua bellissima figura, portava al collo, per unico ornamento, un sottil vezzo di perle. A vederla, quando volgeva da un lato la magnifica testa, nobilmente rilevata in arco al sommo della cervice, ricordava l'atteggiamento statuario di Diana, che par muovere il capo ai rumori della selva, mentre leva la mano all'omero, dove stanno raccolte le frecce infallibili. E forse accresceva l'illusione quel suo aspetto sereno, ma non senza indizi di osservazione precoce, di testolina forte, come sono generalmente le ragazze rimaste per tempo senza madre e costrette a studiar molto da sè, timide ancora nel soave candore della beata adolescenza, ma già salde di tempera ed agguerrite oltre l'età.

Tale era, nello splendore dei suoi diciott'anni, Gabriella Manfredi. L'accompagnava il senatore suo padre, e veniva con essi il conte di Castelbianco, ritornato allora, e miracolosamente a tempo da quel suo “eterno circolo.„

Giovanna accolse la fanciulla tra le sue braccia, e la baciò sulla fronte. Quel bacio all'innocenza la rianimò; le parve per un istante di non aver più nulla, e le fiorì sulle labbra il più lieto sorriso; poi stese la mano al senatore, in atto di saluto e di ringraziamento ad un tempo.

– Contessa, si arriva primi, secondo l'uso; – disse Andrea Manfredi, ridendo. – Ma voi lo volete, Gabriella lo vuole, ed io, non avendo da volere, obbedisco.

– Grazie, senatore. L'amo tanto, il vostro angelo! – rispose la contessa. – Come sei carina! sembri una bella ninfa antica! – proseguì, rivolgendosi alla fanciulla.

– E tu? – disse Gabriella. – Non c'è che l'antico paragone, per te. Sei sempre bella come un sole.

– Al tramonto, bambina! Pochi anni di più, e potrei essere tua madre.

– Se Pompeo lo permette, contessa, – entrò a dire il Manfredi, – vi costituisco tale, senz'altro, e corro via.

– Ve ne andate?

– Per una mezz'ora; il tempo di giungere all'Albergo di Roma, per stringer la mano, o lasciare un biglietto di visita, ad un amico mio di giovinezza, che oggi è stato da me e non mi ha trovato in casa.

– So chi è; – disse il conte. – Cesare Gonzaga.

– Per l'appunto. E chi t'ha fatto indovino a quel modo?

– Non c'è niente di maraviglioso. Per intanto puoi rimanere, perchè a momenti egli sarà qui. Ci siamo conosciuti stamane. Che simpatico uomo! È lo zio del Valenti.

– Del Valenti? – esclamò Andrea Manfredi. – Del giovane sodo?

– Sì, proprio lui: non lo sapevi?

– No, davvero. Cesare Gonzaga ha lasciato l'Italia trentatrè anni fa, e col Valenti, sai, ci vediamo poco.

– Sei come mia moglie, tu! – osservò il Castelbianco, dando una sbirciata alla contessa, che stava fortunatamente ragionando in disparte con Gabriella. – Quel Valenti le è uggioso, direi quasi antipatico. Ma perchè, dico io, perchè? Non è forse un savio ragazzo?

– Troppo savio; – rispose Andrea, – e la contessa, che ha rettitudine di giudizio, lo avrà subito indovinato, come l'ho indovinato io. Quelli lì, mio caro Pompeo, non sono giovani, e tu spendi male con essi il tuo bel titolo di ragazzo. Hanno l'anima vuota di nobili idee, il cuore risecchito: chiamali banchi ambulanti, orologi a pendolo, incapaci di un errore, ma anche di un largo concepimento e di uno scatto generoso.

– Sì, hai ragione; – disse il conte. – Ma noi, con le nostre follìe, col nostro cuore esaltato e con le nostre mani bucate, che guadagni abbiam fatti? Parlo per me, si capisce. —

Andrea Manfredi sorrise, e, ficcando il suo braccio sotto quello del conte Pompeo, soggiunse arguto:

– Tu, con tua buona pace, sei un vecchio impenitente.

– Vecchio? Oh, questa poi!.. – rispose il conte. – È la prima volta che me lo dicono; e per fortuna non è un giudizio di donne.

– Matto!.. – replicò il Manfredi. – Sai che ho sessantacinque anni, io? E che ai nostri tempi eravamo quasi coetanei?

– Quasi? – borbottò il conte. – Mettici quindici anni almeno, nel tuo quasi.

– Via, contentati di cinque, e diciamo sessanta.

– T'inganni, oh t'inganni! – rispose il conte Pompeo, che non voleva adattarcisi… – Vedi, Andrea; la mattina, quando non è ancora venuto il parrucchiere, ho cinquant'anni: dopo che è venuto, ne ho quaranta: sul Corso, a Villa Borghese e prima del pranzo, ne ho trenta…

– Ed ora ne hai venti, – conchiuse il senatore. – Se la va di questo passo, mi diventi bambino tra le braccia, e dovrò portarti io a dormire, in mancanza di balia. —

Mentre i due vecchi ridevano, avviandosi verso il salotto attiguo, le due donne chiacchieravano sedute sopra un divano.

– Che vuol dir ciò, che ti amo tanto, Giovanna? – diceva la fanciulla. – Vorrei star sempre con te. Sai che è una cosa triste, essere senza madre? Anche tu, da qualche tempo sei triste. Oh, non lo negare, non sei più quella di prima. C'è un dispiacere di mezzo. Vuoi confidarmelo?

– No, non ho nulla; – rispose Giovanna. – Contrarietà, forse, piccoli malumori in famiglia, ed anche passeggeri; non mette conto parlarne. Ragioniamo invece di te, mia bella fanciulla. Come va il cuore? Chi ami?

– Nessuno.

– Nessuno, è troppo poco. Neanche un principio? Tra tanti giovani che vedi…

– Ah, troppi ne vedo, – interruppe Gabriella, – e tutti si rassomigliano. Gravi, impettiti, inamidati, prepotenti, vengono in società per dettar sentenze, come altrettanti consiglieri di Cassazione. Sorridono di compassione ad ogni discorso un po' caldo, e sembrano accusarti di vanità, di leggerezza, di poesia, tutti sinonimi, per loro! Già, essi non parlano che di cavalli, come se fossero nati e allevati in scuderia, o di affari bancarii, o di politica. La politica non mi dispiace; anche il babbo ne parla, qualche volta, ma per paragonare i bei tempi, i tempi dell'apostolato, della pugna, del sacrifizio, insomma i tempi eroici… con questi! Essi ne parlano per fare i loro calcoli sulla stabilità o sulla caduta del Ministero, senza badare se questo si regge senza gloria, o cade con dignità. Non vedono che il fatto, essi, non ragionano che sulle conseguenze bancarie di quello, e sulle oscillazioni che potrà cagionare alla Borsa. Capisco che hanno da guadagnare e da perdere. Anche il babbo è banchiere; ma, tranne un'ora, ed anche meno, di conferenza col suo segretario, non c'è caso che tu lo senta ragionare di queste miserie. Come è giovane, mio padre! E loro, invece, è una pietà doverli sentire. Se ti parlano di musica, lo ricordi? non fanno che sentenziare brevemente, asciuttamente, tra la tedesca e l'italiana, come se ci fossero due musiche, separate e distinte fin dalla nascita. Se ti parlano di letteratura, non li senti far altro che condannare ogni idealità, bollandola con una parola di disprezzo: retorica! Un nobile entusiasmo non è, infatti, che retorica; un impeto di passione è falsità, poesia introdotta a forza nel linguaggio comune, offesa alla serenità di quella lastra fotografica che è l'arte. E se tu ardisci fare una piccola osservazione, ti lasciano dire, perchè sei donna, ma ti guardano in viso con aria gentilmente canzonatoria, come se fossi incapace d'intenderle, quelle nuove ragioni dell'arte. E fumano, poi, come vulcani, e mangiano molto e ballano poco. A teatro, i famosi giudici delle due scuole musicali, quando c'è l'opera, sonnecchiano nelle loro poltrone, o vanno a chiacchierare nei corridoi, fino all'ora del ballo, quando si tratta di ammirare le capriole. Questo è l'unico momento di gioventù e d'entusiasmo per essi. Infine, Giovanna mia, sono molto serii, e sotto quella vernice di serietà s'indovina il materialismo. Mi fermo, per non entrare in filosofia; ti dirò solo, per conchiudere, che appena uscita dal conservatorio, con tante idee per la testa, li credevo migliori. Non saranno cattivi a dirittura, gran che! Sono mediocri, e mi basta.

 

– Il ritratto non è abbellito, davvero; – osservò la contessa, sorridendo, – ma nel complesso è abbastanza rassomigliante. Il conte Guidi, per altro, non è così.

– Eh, non saprei; – disse Gabriella. – Lo studio.

– Tu, bambina?

– Io, sì; ti pare orgogliosa, la risposta? ma che cosa possiamo far noi, obbligate a parlar poco e ad ascoltar molto, se non studiare un pochino chi ci parla? Il conte Guidi mi pare uno dei migliori, qualche volta, e qualche altra non me lo pare. Che ne so io? È un cavaliere tenebroso.

– Ti amerà, forse, e non ardirà parlare troppo chiaramente. Sai che non è ricco?

– Oh, questo vorrebbe dir poco; non amo i ricchi.

– Perchè lo sei tu, birichina?

– No, sai, non ci penso neanche; e se ci penso… Vedi, Giovanna, – e così dicendo la fanciulla si strinse al fianco della contessa, come per parlarle all'orecchio, – ci sono dei momenti che, se non fosse per il babbo, vorrei essere… la mia cameriera. Lei almeno è felice; ama tanto sua madre, l'aiuta, e non ha altri pensieri. Se un uomo le dirà di volerle bene, non glielo dirà mica per la sua dote. La poverina non ha che la sua bellezza e il suo buon cuore; ma ci avrà la consolazione di non essere amata per altro.

– Cara! – esclamò la contessa, baciando sui capegli la sua giovane amica. – Ti passeranno, queste idee bizzarre, ti passeranno! Poichè tu studi la vita, la vedrai tutta meno bella, e ti piacerà di essere nata ricca, in una culla d'oro, come ha detto l'Aleardi. È già una bella difesa, esser ricca! Ma ecco, bambina mia, incominciano ad arrivare i nostri amici; ripigliamo la dignità del nostro ufficio.

– Io ti guardo ed imparo; – disse Gabriella. – Tu ricevi come un'imperatrice. —