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Vae victis!

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XXIV

Dopo la partenza di Miss Elliot la casa sembrò più che mai deserta e malinconica. Luisa stava per lo più chiusa in camera sua e Chérie non parlava mai. Già, con chi avrebbe parlato? E di che cosa avrebbe parlato se non del suo bambino?

Altre mamme – rifletteva Chérie con amarezza – parlavano tutto il giorno dei loro bambini; anch'ella avrebbe voluto parlarne. Ma chi le avrebbe dato ascolto?

A chi poteva essa raccontare tutte le meraviglie che andava scoprendo di giorno in giorno nella sua creatura? A chi dire che nei sogni il piccino sorrideva sempre? (E questo, tutti lo sanno, significa che gli angeli gli vengono a parlare!) A chi mostrare la fossetta nel mento, le fossette nei gomiti, i morbidi riccioli d'oro chiaro, i piedini rosati come petali di eglantina? Luisa stessa di tutte queste meraviglie non sapeva nulla, nè Chérie osava parlargliene.

No. Il silenzio – un silenzio profondo e crudele – era intorno a quella povera culla.

Per timore che il bambino disturbasse Luisa, Chérie aveva lasciato fin dai primi giorni la sua camera, e dormiva nella stanza degli ospiti accanto al salotto – quella stanza dalla portiera rossa che, strano a dirsi, pareva non ridestare in lei alcuna memoria.

Un giorno ch'ella vi sedeva malinconica, col suo bambino tra le braccia, Luisa – che non varcava quasi mai quella soglia – aprì l'uscio ed entrò.

Con un sorriso di gioia Chérie alzò il viso per darle il benvenuto, ma vedendo che Luisa distoglieva lo sguardo da lei e dal bambino dormente, non osò dir nulla.

«Vengo a dirti,» fece Luisa ad occhi bassi, «che questa sera verrà qui Mirella. Vado adesso da Madame Doré a prenderla.»

Chérie sussultò. «Mirella!… Mirella verrà qui?»

«Pensavi forse ch'io volessi lasciarla eternamente in casa d'estranei?» Gli occhi di Luisa si riempirono di lacrime. «Ho sofferto già troppo della sua lontananza.»

«Oh, lo so.... lo capisco,» balbettò Chérie. «Ma… io – che cosa farò?»

«Che cosa vuoi fare?» chiese con infinita amarezza Luisa.

Chérie si chinò sul piccino. «Non so. Vorrei che ci potessimo nascondere, il bambino ed io; nascondere dove nessuno mai ci potesse trovare.»

Luisa non rispose. Sedette, volgendo altrove il capo, cercando di non essere spietata, lottando contro quel senso di feroce, implacabile rancore di cui ella stessa era la prima a soffrire.

«Mirella verrà qui!» ripetè Chérie sommessa. «E quando vedrà il bambino – che cosa dirà?»

Luisa alzò il capo con un singulto di selvaggio dolore. «Ah, non dirà nulla, povera Mirella! Non dirà nulla.»

No! No! qualunque cosa accadesse, Mirella – quel folletto un tempo così allegro e chiacchierino – non direbbe nulla. Vedrebbe Chérie con un bambino tra le braccia, e non direbbe nulla. Vedrebbe sua madre inginocchiata davanti a lei implorando una parola – e non direbbe nulla. Vedrebbe tornare suo padre dalle trincee – ed ella resterebbe muta. O forse, egli non tornerebbe più, ed alla notizia della sua morte ella non schiuderebbe il labbro.

Quest'altro bambino, questo intruso, questo essere aborrito e funesto, crescerebbe allegro e sano, imparerebbe a parlare, imparerebbe il riso ed il sorriso; chiamerebbe Chérie col dolcissimo nome che a Luisa nessuno direbbe mai più. Mentre Mirella....

Chérie si era alzata col piccino in braccio. Trepida venne a inginocchiarsi ai piedi della cognata.

«Luisa! Luisa!… Non puoi amarci un poco? Non puoi perdonarci? Che cosa ti abbiamo fatto, Luisa? Che cosa ti ha fatto di male questo povero piccolo essere, perchè tu debba odiarlo così? Non è per me, vedi, non è per me che imploro la tua pietà, il tuo affetto. Io posso vivere disprezzata e odiata, perchè so… perchè capisco.... Ma per lui t'imploro, per lui! che entra nella vita credendo di essere come tutti gli altri bambini, credendo che tutti l'ameranno… Ah, per lui ti supplico, t'imploro – una parola di tenerezza, Luisa, una parola di benedizione!»

Aveva afferrato con mano tremante l'orlo della veste di Luisa, e si chinava a baciarlo piangendo. «Luisa, se tu mettessi la mano sulla sua fronte e dicessi: «Iddio ti benedica!» credo che io ne morrei di felicità. Non puoi dirle, Luisa, queste tre parole che tutti dicono, anche ai più poveri, anche ai più reietti? «Iddio ti benedica!…» Che cosa ti costa? Questa piccola preghiera, la più breve di tutte – dilla, dilla per lui!»

Silenzio. Luisa non si mosse.

«Luisa,» singhiozzò disperata Chérie. «Pensa, pensa ai giorni di dolore che verranno per me e per lui. E non vuoi fargli un augurio? Non vuoi che Dio lo salvi e benedica?… Ah, Luisa, è troppo triste, è troppo crudele che nessuno, nessuno abbia mai invocato una benedizione sopra un bambino così derelitto e disgraziato!»

Gli occhi di Luisa si soffusero di pianto. Chinò lo sguardo sul tenero viso del piccino – e trasalì. Aveva incontrato lo sguardo strano di quegli occhi chiarissimi fissi nei suoi.

Erano occhi crudeli. Erano gli stessi occhi che l'avevano fissata beffardi e canzonatori dal fondo della stanza, quand'ella a ginocchi davanti all'oppressore implorava pietà. Sì; nel momento supremo in cui le sue preghiere e quelle di Mirella parevano aver commosso il cuore del nemico – quegli occhi, quegli stessi strani occhi grigio-chiari che ora vedeva aperti nel piccolo volto di fiore, avevano lampeggiato su lei freddi, ironici, spietati....

.... «Il suggello della Germania deve essere impresso sul paese nemico....»

Erano quegli occhi che avevano pronunciato la sua condanna.

«Non posso, non posso benedirlo,» singhiozzò Luisa. E distolse il viso.

XXV

Era calato il crepuscolo, e la nebbia sottile saliva strisciante su dai due fiumi, allorchè Luisa col capo avvolto in una sciarpa nera, uscì di casa per andare alla Maisonnette des Lilas. Si guardò intorno. Le strade erano deserte e quasi buie. Per arrivare alla casa di Madame Doré senza passare dal piazzale della chiesa dove a quest'ora si riunivano a crocchi i soldati tedeschi, Luisa decise di passare per la straduccia scura e stretta detta Ruelle de la Bise. Già stava per svoltarvi allorchè scorse in fondo al vicolo una figura curva e sbilenca; era un contadino fiammingo, che s'avvicinava lento e zoppicante. Borbottava tra sè e sè, ed aveva un aspetto così poco rassicurante sotto il cappellaccio di feltro calato sugli occhi, che per evitarlo Luisa preferì tornare indietro e attraversare la piazza.

I soldati che vi stavano raggruppati chiacchierando e fumando non badarono a lei ed ella s'affrettò, quasi correndo, verso la casa dell'amica.

Nel suo cuore era nata una nuova ineffabile speranza. Ella andava a prendere Mirella; l'avrebbe ricondotta a casa. Per la prima volta da quella terribile alba in poi, la fanciulletta si sarebbe ritrovata nell'ambiente noto alla sua infanzia, e – Luisa lo pensò con un sussulto – e nella stanza stessa in cui si era compiuto il suo martirio.

Ora, ritrovandosi d'improvviso in quell'ambiente in cui il trauma psichico lo aveva tolto la favella, non poteva darsi – Luisa quasi non osava formulare nel suo pensiero la folle speranza – non poteva darsi che Mirella sarebbe d'un tratto guarita? Casi simili se ne erano pur dati. Luisa ricordava d'aver sentito dire – o forse l'aveva letto? – di persone dementi che ritrovavano subitamente la ragione, di persone mute che ritrovavano la favella sotto la scossa morale di qualche grande emozione.

Col cuore in tumulto ella affrettò il passo per le silenziose vie.

Frattanto, nella Ruelle de la Bise, l'uomo che Luisa aveva scorto proseguiva zoppicante per la sua strada. Uscendo dal vicolo egli volse a destra e si trovò di fronte alla casa del dottor Brandès.

Si fermò di botto e guardò su. Le finestre erano aperte, tutte aperte alla fresca aria vespertina. A quella vista un fiero palpito di gioia gli scosse il cuore. La casa era dunque abitata. Da chi? Da chi? Erano tornate le esule? Erano tornate sane e salve a Bomal? Claudio aveva pur scritto che erano partite dall'Inghilterra per tornarsene in patria.... Erano dunque qui – qui a due passi da lui?

Un brivido di gioia scosse Florian Audet.

Era stata questa speranza che gli aveva ispirato il coraggio di tentare un'impresa quasi impossibile – la fuga dall'ospedale di Liegi traverso il paese invaso. Era il pensiero di rivedere Chérie che lo aveva sorretto in quel viaggio temerario traverso tante miglia di terreno battuto dalle pattuglie tedesche. Quando per la prima volta in quell'ospedale, dove tutti parevano ancora incerti se trattarlo da ammalato o da prigioniero, gli era balenata l'idea della fuga, egli l'aveva scacciata da sè, dicendosi che era una follia del suo cervello indebolito. Ma sempre la visione di Chérie pareva invocarlo; ella gli era al fianco, fantasma incalzante, quando nel cuor della notte colle mani lacere e sanguinanti egli lavorò ad allentare e sciogliere le maglie del reticolato che sorgeva intorno all'infermeria; la bianca sua mano lo aveva guidato per monti e valli, la sua voce soave lo aveva confortato nelle lunghe giornate senza cibo, nelle lunghe notti di veglia; lo aveva incalzato a celarsi nei boschi, ad accovacciarsi nei fossati, a traversare a nuoto i fiumi, a scavalcare muraglie e roccie, a vincere perigli d'ogni sorta, ad affrontare mille morti per arrivare a lei.

Ed ora ella forse era là! Là in quella casa davanti a lui – a portata della sua voce, in vista de' suoi occhi! Là, dietro quelle gaie finestre aperte!…

Florian ricordò come in quella sera fatale, non anco un anno fa – ah, come la Morte e la Devastazione erano passate sul mondo in quel frattempo! – egli era venuto a galoppo per queste vie tranquille ed aveva veduto, come ora, le finestre spalancate alla blanda aria serale. Come allora, gli parve di udire un coro di chiare voci che cantavano:

 
«Sur le pont
«D'Avignon
«On y danse
«On y danse....»
 

Dette una rapida occhiata in giro, poi alzando il capo, fischiò sommesso il ben noto motivo.

 
 
«Sur le pont
«D'Avignon
«On y danse
«Tout en rond....»
 
.  .  .  .  

Chérie era rimasta sola col suo bambino che le dormiva fra le braccia.

Ella aveva sentito uscire Luisa; l'aveva udita chiudere la porta esterna; per un istante anche il suono dei suoi passi che s'allontanavano leggeri e frettolosi le era giunto all'orecchio, tanto era silenziosa e deserta la via.

Ed ora Chérie era sola; sola coi suoi pensieri.

Ecco. Luisa andava a prendere Mirella. Tra poco sarebbero ritornate insieme. Bisognava venire ad una decisione. Che cosa doveva fare Chérie? Come poteva incontrarsi con Mirella? Andarle incontro col bambino tra le braccia? Ah, mai, mai!

No, bisognava nascondersi, nascondersi col bambino perchè Mirella non lo vedesse. Certo, come diceva Luisa, la povera Mirella non avrebbe detto nulla – nulla, cioè, che orecchio umano potesse percepire. Ma l'anima di Mirella che cosa avrebbe detto? Chi poteva sapere ciò che Mirella vedeva o non vedeva? Come essere certi che non fosse capace di vedere, di ricordare, di odiare, forse, come Luisa odiava? Ah, Chérie sentì che tale odio – l'odio silenzioso di quella piccola anima di mistero – sarebbe anche più terribile, più impossibile a sopportare che non l'esecrazione palese di Luisa.

Già, era possibile anche questo strazio. Mirella, la piccola Mirella, vedendo quegli occhi strani, chiarissimi, spalancati nel viso del bambino – forse ricorderebbe.... Ricorderebbe l'uomo che l'aveva martirizzata, che l'aveva torturata e legata alla ringhiera, legata col piccolo viso folle rivolto all'uscio.... già, proprio a quest'uscio dalla tenda rossa....

Sì, potrebbe essere così. Il ricordo e l'orrore tornerebbero alla mente smarrita di Mirella ogni volta che scorgeva quei grandi occhi chiari del bambino.... Chérie abbassò lo sguardo per vederli; in questo momento erano dolcemente socchiusi, mentre la testolina s'annidava assonnata sul petto materno.

Chérie si chinò sopra la sua creatura, baciò i biondi capelli e gli occhi assonnati e la piccola bocca dolce. E che importava a lei se tutti l'odiavano? Essa lo amava, lo amava coll'amore di tutte le mamme, lo amava d'un amore fatto più grande dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla vergogna.

«Piccolo mio,» susurrò, «perchè non ci hanno lasciati morire tutt'e due in quel mattino di maggio, quando tu non eri ancora entrato nella vita ed io ero già così vicina alla morte? Perchè non ci hanno lasciati sparire, dileguare nell'eterna pace, te ed io insieme, lontani da queste tristezze e da queste pene?»

Ma il bambino dormiva sorridendo agli angeli.

E poichè era tardi, ed era l'ora di metterlo nella culla, ella si levò e con passo leggiero e colla guancia appoggiata al piccolo capo biondo, se lo portò nella stanza vicina, allontanando col gomito, nel passare, la tenda rossa che pendeva sull'uscio.

«Ninna-nanna,» mormorò mettendolo nella culla.

E mentre così faceva si trovò d'improvviso a rammentare, senza una ragione, la sera del suo compleanno; le veniva in mente – chissà perchè? – la danza con Jeannette, Cricri, Cecilia....

Questo ricordo correva come un filo luminoso e sconnesso tra mezzo ai suoi foschi pensieri. Come mai le ritornava alla mente in quest'ora? Perchè mai riviveva così d'un tratto quella breve ora felice che aveva preceduto la catastrofe immane, lo scoppio della procella che l'aveva travolta e ruinata?

Le fanciullesche parole di quella vecchia canzonetta, ecco, le tornavano alla mente.

 
«Sur le pont
«D'Avignon
«On y danse
«Tout en rond.»
 

Chérie sostò; un brivido la percorse. C'era una ragione per quel ricordo. Qualcuno nella strada fischiettava quella melodia.

Gli occhi le si riempirono di lagrime per i ricordi che quel puerile motivo le rievocava in cuore.

 
«Sur le pont
«D'Avignon
«On y danse
«On y danse
«Sur le pont
«D'Avignon
«On y danse
«Tout en rond.»
 

Piano e pur chiara la melodia persisteva. Non cessava. Non si allontanava. Persisteva con sommessa insistenza.

Chérie accomodò la coperta e i guanciali della culla, si chinò a baciare il piccino; poi andò alla finestra. Dovette rizzarsi in punta de' piedi per guardar fuori, poichè quella stanza aveva una finestrina ogivale, alta e tonda come quella della cabina d'una nave.

Appena ella guardò fuori il fischiare cessò. Laggiù nella via una figura si mosse staccandosi dall'ombra del muro.

Il cuore di Chérie dette un balzo – poi si fermò.

Florian!

XXVI

Indietreggiò vacillante dalla finestre e si guardò intorno, folle, smarrita, Florian! Era Florian! Che cosa fare? Il bambino – dove nascondere il bambino?

Il fischio sommesso riprese, ma più urgente con una nota di fretta e d'ansia. Sì – sì – bisognava far entrare Florian. Come mai era giunto?… Certo lo minacciavano mille pericoli laggiù sulla strada aperta…

Chérie abbassò gli occhi e si guardò. Guardò la sua vestaglia bianca ancora slacciata sul petto – tepido nido del pargolo lattante – e l'allacciò colle mani che tremavano. Poi scorse uno scialle nero di Luisa gettato sopra una seggiola; se ne avvolse in fretta le spalle e corse giù ad aprire.

Florian entrò rapido e chiuse subito la porta dietro a sè. Che strano aspetto aveva con quel cappotto di tela cerata gialla, e il cappellaccio calcato sulla testa! Chérie al primo sguardo lo vide cambiato; le parve più alto, e scuro e scarno in faccia.

Ora, chiusi nel vestibolo buio, ella non ne distingueva più i lineamenti.

«Chérie!» Egli le aveva afferrato la mano e gliela stringeva forte. «Sei tu, mia piccola Chérie!…» Aveva la voce rauca per l'emozione. «Dimmi – chi c'è qui con te?»

«Nessuno,» rispose lei.

«Nessuno? Ma come? Sei sola in casa?»

«Sì —» mormorò Chérie, ritraendo la sua mano. «Cioè —» E tacque.

«Ma tu – vivi qui sola? Ma gli altri dove sono? Luisa? Mirella?»

«Luisa è qui – è uscita… » balbettò Chérie.

Florian trasse un gran sospiro di sollievo. «Ah, Luisa è qui!… Conducimi di sopra. Guarda che ho poco tempo.» Si chinò per guardarla meglio. «Cos'hai? T'ho fatto paura?»

«Sì,» rispose Chérie.

«Ma sei livida! Sei spettrale… Chérie —» una nota d'ansia, di terrore nuovo gli vibrò nella voce. «Cos'hai? Sei ammalata?»

«Sì,» ripetè Chérie e la sua voce era un soffio.

Egli non le chiese altro; la cinse col braccio, sorreggendola nel salire le scale. La porta del salotto era aperta e Florian entrò rapido guardandosi intorno nella stanza famigliare.

«Ah, sia lodato Iddio,» disse piano, e traendo seco Chérie che pareva quasi svenuta, chiuse la porta.

Gettò su una seggiola il largo cappello lacero e il lungo cappotto, ed apparve vestito di un'uniforme di tela scura come Chérie ne aveva veduto indosso ai feriti tedeschi.

«Vieni qui, accanto alla finestra – ch'io ti veda.» E la trasse a sedere dove l'ultima luce di quel crepuscolo di maggio le illuminava il viso. «Dimmi, Chérie, dimmi! Che cosa hai avuto?… Che ne è di te?»

Gli occhi di lui non si staccavano da quel pallidissimo volto, dalle fragili forme ritrose, dal chiarore delle chiome raggianti. «Dammi tutte le notizie. Pur troppo non potrò restar qui molto —» le strinse forte la piccola mano fredda – «sarebbe pericoloso per voi e per me.... A quest'ora le pattuglie batteranno tutta la regione per ritrovarmi – e per ritrovare il cappotto del giardiniere!» soggiunse con un rapido sorriso che lo fece per un attimo rassomigliare al Florian d'una volta. «Sono fuggito sette giorni or sono dall'ospedale di Liegi —»

«Dall'ospedale? Sei ferito?»

«No, affatto. Sono stato semplicemente intontito da un'esplosione. I tedeschi m'hanno trovato, m'hanno creduto «boche» e «meschugge» – che in berlinese vuol dir pazzo – e da tre settimane mi tengono a letto col ghiaccio sulla testa....» E rise. «Forse nei primi giorni sarò stato davvero un po' tocco nel cervello.... ti vedevo sempre là, ritta a' piedi del mio letto.... Ma dimmi, dimmi di te! Come stai? Come sta Luisa?»

«Luisa sta bene.»

«E la piccola? E' qui?»

«Mirella?» Vi fu una pausa. «Sì, Mirella è qui.»

Qualche cosa nella voce di lei lo colpi. «Che cosa c'è? E' accaduto qualche cosa?»

Ella non rispose. Florian si sentì d'un tratto il respiro più corto. La guardò. Gli parve improvvisamente che questa timida creatura nella sua veste bianca, nel suo scialle nero, fosse aliena da lui, estranea a lui e avvolta nel mistero. «Che cosa c'è stato?» ripetè. «Rispondi. – Luisa dov'è?»

E si guardava intorno nella stanza amica, morso al cuore da un cattivo presentimento.

«E' andata a prendere Mirella,» balbettò Chérie.

«A prendere Mirella? Dove? Perchè?»

Chérie alzò gli occhi – erano gli occhi di preda inseguita – e li fissò in volto a lui.

«Mirella… non è più quella di prima.»

Florian si sentì stretto alla gola come se una tigre l'avesse azzannato. «Cos'ha?»

«Non riconosce nessuno… » balbettò Chérie, «e non parla più.»

«Non parla più?» Florian stentava a respirare. «Che cosa – che cosa vuoi dire?»

«E' muta,» disse con un singulto Chérie.

«Muta!!…»

Ansante Chérie continuò: «Si è spaventata… in quella notte… quella notte della mia festa…»

Non potè dir altro. Tacque. Ed anche Florian improvvisamente non parlò più.

Il silenzio di lui sembrò cadere come una roccia sul cuore di Chérie. Il sudore freddo le perlò sulla fronte.

«Parla,» disse lui alfine con voce rauca.

«Sono venuti qui i nemici…»

«Lo so, lo so che attraversarono Bomal,» gridò Florian soffocato. «Ma non vennero in questa casa?»

Per tutta risposta Chérie lo guardò negli occhi.

E di nuovo cadde su loro il silenzio – il silenzio fatidico, sinistro.

Allora Florian si levò in piedi e si scostò un poco da lei.

«Vennero in questa casa,» ripetè come se parlasse in sogno. Aveva le labbra secche e la gola arida; udiva la sua propria voce, e gli sembrava remota, come se non appartenesse a lui. «Che cosa – che cosa accadde a Mirella?… Le fecero del male?»

«No. Aveva paura.... strillava.... allora l'hanno presa… e l'hanno legata là, a quella ringhiera —» additò colla mano tremante la balaustra di ferro battuto a fogliami e fiori.

Ed anco una volta il terribile silenzio di Florian le cadde sul cuore come un masso pesante, soffocandola, togliendole il respiro e la vita.

Dopo molto tempo Florian si mosse. Indietreggiò, scostandosi ancora più da lei; le sue labbra si movevano senza ch'egli potesse pronunciare le parole.

«E a te.... » la voce gli uscì rauca, a scatti, di tra i denti chiusi, «a te?… Cos'hanno fatto?»

Silenzio.

Egli attese, attese a lungo, poi ripetè la domanda.

«A te – cos'hanno fatto?»

D'improvviso Chérie cadde in ginocchio e si nascose il volto tra le mani.

Con un ruggito di belva egli si slanciò su lei, le afferrò i polsi, le strappò le mani dal viso. «No! Non è vero!» urlò. «Non è vero! Dimmi che non è vero!»

E frattanto sentiva con odio nella sua stretta quei polsi delicati e pieghevoli, vedeva con furore quella frale creatura accasciata davanti a lui in tutta la sua debolezza, in tutta la sua femminea acquiescente fragilità. Avrebbe voluto sentirla d'acciaio e d'adamante, per poterla spezzare e frantumare – per poterla stritolare e distruggere.

Prona a terra ai suoi piedi ella singhiozzava e piangeva. Florian per non colpirla, per non ucciderla serrava i pugni così stretti che le unghie gli si conficcavano nelle palme.

Guardava quel capo chino, i capelli vaporosi, la nuca bianca, le fragili spalle sussultanti.... Ah, Dio! Il nemico l'aveva avuta! Il nemico l'aveva tenuta e forzata e posseduta!

Questa creatura che gli era parsa quasi troppo sacra per il suo amore, questa eterea vergine liliale di cui egli non aveva mai osato baciare la fronte, i capelli, le labbra – aveva saziata la bestiale voglia dell'invasore!… Immondi soldati ubriachi avevano soddisfatto su di lei le loro lubriche brame – ed eccola lì, spezzata, contaminata, perduta!…

Con un grido di creatura ferita egli levò al cielo i pugni serrati; il sangue gli scorreva sui polsi dalle palme lacerate, e le lagrime – le lagrime roventi che corrodono l'anima d'un uomo – gli scorrevano sul volto scarno e straziato.

Eccola lì, la creatura rovinata e infranta! Eccola lì, prona davanti a lui; simbolo della sua patria – della sua patria rovinata e devastata.

 

Perdute, perdute entrambe!… Spezzate, contaminate, impure.

Ah, invano egli verserebbe per loro tutto il suo sangue e tutte le sue lagrime. Nulla, nulla più varrebbe a salvarle, nulla più varrebbe a rialzarle nella loro primiera gloria e purità!

Perduta l'anima della donna, straziata l'anima della patria!…

Iddio! dov'è la Tua giustizia? – Dov'è la Tua pietà?

Scese su loro il grigio crepuscolo e velò d'ombra il viso della donna che doveva terminare la tragica confessione.

L'uomo non parlò più. Accasciato su di una seggiola, colla fronte nelle mani, gli pareva di essere morto – morto in un universo morto.

Tutte le fiamme della sua ira, tutti i furori della sua disperazione erano spenti. La sua anima era ridotta in cenere. Non rimaneva più nulla. Nulla per cui si dovesse vivere, combattere o pregare.

La donna gli stava ai piedi, singhiozzante. Ma egli non udiva ciò ch'ella diceva. Una parola soltanto – una parola continuamente ripetuta gli martellava il cervello come batte il maglio sul ferro rovente. «Il bambino… il bambino…» Era la parola che ricorreva costantemente sulle labbra di Chérie: «il bambino.»

«Se non fosse per il bambino, vedi – vorrei morire,» piangeva essa e s'abbatteva colla fronte a terra. «Ma come faccio a lasciare il bambino? Un bambino così piccolo, così abbandonato! Nessuno lo guarda, nessuno gli dice mai una buona parola – mai! Anche Luisa diventa crudele, diventa come una furia quando vede il bambino. Mio Dio! Mio Dio! Come passeremo nella vita lui ed io, tra l'odio, il disprezzo, il dileggio di tutti? Di me importa poco, ma che ne sarà del bambino?…»

Alzò a lui il viso stravolto e lagrimoso. «Ah, forse aveva ragione Luisa! Avrei dovuto fare come lei – strapparmelo dal seno prima che nascesse....»

Un brivido profondo scosse Florian.

«Ma non potevo, no, non potevo! Vi era qualche cosa in me di più forte della mia vergogna, di più forte del mio dolore!… Era come se una voce – la voce stessa di Dio – mi gridasse: «La maternità è sacra. Tu non ucciderai!»

Florian abbassò lo sguardo su quella figura prona. Era questa la piccola Chérie, la sua fidanzata? Questa la Chérie dal sorriso luminoso, dalle guance a fossette, la creatura eterea tra fiore, farfalla e bimba ch'egli aveva conosciuta e amata? Un gemito gli uscì dalle labbra. Ma ella non l'udì, non se ne curò. Il dolore dell'uomo non giungeva al cuore di lei fatto spietato dalla imperiosa, inesorabile passione materna.

«Ah! lo vorrebbero morto – sì! Io lo so che lo vorrebbero morto. E se potessimo fuggir via dalla vita, lui ed io insieme, ne sarei contenta. Ma come – come farlo morire? Quando apre gli occhi e mi guarda, quando colle piccole mani mi tocca la faccia, come posso io pensare a fargli del male? Posso io forse colle mie mani stringere quella tenera gola e soffocare l'alito dolce della sua bocca?…»

Alzava a Florian gli occhi inondati di lagrime, ma non vedeva Florian. Non vedeva che il suo strazio materno, non vedeva che la sua creatura, sangue del suo sangue.

Disperata si torceva le mani. «E perchè, perchè, non deve vivere lui? Vivere ed essere felice come tutti gli altri bambini? Che cosa ha fatto, povero innocente, per essere odiato, disprezzato, maledetto?»

«Basta!» gridò Florian, «basta di lui —».

Ma ella non l'ascoltava, non l'udiva. Neppure udiva la sfrontata fanfara tedesca che passava sotto le finestre, lanciando al cielo vespertino l'insolenza trionfante della «Wacht am Rhein.»

No, Chérie non udiva nulla, non si curava di nulla fuorchè della creatura sua – sua, e del nemico!

E Florian – soldato – si sentì ribollire il sangue.

«Ed è questo» – gridò sdegnato – «questo che tu trovi a dirmi, quando ritorno a te scampato dagli artigli della morte? Questo, questo tutto il tuo pensiero mentre la nostra patria sanguina, straziata dagli immondi bruti che vi hanno violate entrambe? Ah, maledizione su loro – maledizione eterna su loro e sulla creatura —»

«No!» con uno strillo ell'era balzata in piedi e gli copriva la bocca colle mani. «Noi no! Non maledirlo!… Non maledirlo anche tu quel bambino – che nessuno mai ha benedetto!»

«In nome del Belgio,» tuonò forsennato Florian, «in nome delle donne del Belgio violentate e straziate, in nome dei loro figli torturati, dei loro uomini trucidati – io maledico la creatura a cui tu hai dato la vita. In nome dei nostri cuori lacerati, in nome delle nostre città incendiate, dei nostri focolari distrutti, dei nostri altari abbattuti e profanati – lo maledico, lo maledico! Nei nomi sacrosanti di Louvain, di Lierre, di Mortsel, di Waehlen, di Herselt —»

I nomi sacri al martirio e alle fiamme gli sgorgavano dalle labbra accrescendo la furia del suo cuore. La donna gemeva, coprendosi gli orecchi per non udire, per non udire quei nomi tragici e famigliari – il rosario di fuoco e di strazio del Belgio.

Stringendosi il capo fra le mani, ella piangeva: «Che Iddio non ti ascolti! Che Iddio non ti ascolti!»

Ma egli alzava la voce fremente nell'atroce litania: «E Malines, e Fleron, e Notre Dame, e Rosbeck, e Muysen —»

D'improvviso ristette. Un suono – un suono gli aveva colpito l'orecchio. Che cos'era?

Era un breve grido – il breve, fievole grido d'un neonato.

L'uomo ristette immobile, come impietrito. Gli occhi iniettati di sangue parevano uscirgli dall'orbita tanto si fissavano ardenti sulla porta drappeggiata di rosso, donde era venuta quella voce.

Chérie, cieca di terrore, gli si gettò ai piedi gemendo, abbracciandogli i ginocchi. «Pietà! Abbi pietà! Uccidimi – ma non far male a lui!»

E sempre Florian restava immobile, come impietrito, cogli occhi fissi sulla porta donde era uscito quel suono. Le disperate parole di lei, il suo pianto di terrore, non giungevano al suo orecchio. Egli non udiva che un suono, non udiva che quel grido querulo – il pianto del bambino. Vincendo i lamenti della donna, vincendo il frastuono dell'inno nemico che ancora frangeva l'aria, vincendo il tuono delle armi e il fragore della guerra, ecco saliva dalla terra questo acuto grido di vita – il pianto dell'umanità.

E questo pianto gli entrò nel cuore come una spada. Gli pareva che in esso fosse tutta la desolazione e il dolore del mondo. Pareva dire tutta la tristezza, tutta l'inutilità irrimediabile d'ogni cosa.

Sdegno, ira e furore gli caddero dall'animo come cose morte. E il bisogno di vendetta e la bramosia d'uccidere – tutto si spense in lui, lasciandogli il cuore silenzioso e vuoto.

La disperata donna che si aggrappava a lui vide i fieri occhi velarsi, vide la feroce bocca tremare. Nel lungo silenzio che seguì ella comprese che più nulla aveva da temere. E più nulla da sperare.

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L'uomo si scosse alfine. «Povera Chérie!» disse. «Povera, povera Chérie!»

La sollevò da terra; prese tra le due mani quel viso pallido e disfatto; e lungamente la guardò negli occhi: «Povera Chérie! Che ne sarà di te?»

Chérie non rispose. Fissava su lui quegli occhi di pianto, senza pensiero, senza comprensione, senza speranza.

«Dimmi addio, Chérie, dimmi addio. E che i nostri Santi ti proteggano.»

«Ah, dove vai? Dove vai?» singhiozzò lei. «Perchè mi lasci?… Mio Dio!… Che cosa vuoi fare?»

«Molto c'è da fare per me.» la voce di Florian era grave e ferma. «Molto c'è da fare.» E volse lo sguardo verso la finestra aperta, donde giungeva ancora da lungi lo squillo della fanfara tedesca.

Allora ella comprese che davanti a lei non stava più colui ch'ella aveva conosciuto: Florian, il compagno della sua giovinezza, l'amico, l'innamorato, era sparito. Qui non vi era che il soldato – remoto da lei, estraneo a lei – il soldato, solo, faccia a faccia col suo grande dovere.

Con uno schianto ella sentì ch'egli le sfuggiva, che lo perdeva per sempre; e la donna rinacque in lei, la donna creatura d'amore, creatura di spasimo e di passione.

«Ah, non lasciarmi, non lasciarmi, Florian, amor mio! Mio diletto, non lasciarmi! Che cosa farò al mondo senza di te? Se m'abbandoni che cosa più mi resta?»

Quasi a risponderle, il debole grido della creatura si levò di nuovo.

L'uomo non pronunciò parola. Grave, solenne, alzò la mano e additò quella porta.

Chérie chinò il capo e si nascose il volto nelle mani.

Giù nella via ripassava la fanfara.

 
«Deutschland, Deutschland über Alles
«Über Alles in der Welt....»
 
.  .  .  .  

Chérie era sola.