Una Bolla Fuori Dal Tempo

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CAPITOLO 2

La città di Portland era ricoperta dalla neve, caduta in abbondanza nella notte precedente. Avevo sentito la notizia in televisione ma avevo sottovalutato il problema, ritenendola di scarso interesse per me. Attraverso le vetrate dell’aeroporto si vedevano montagne di neve ghiacciata disseminate lungo i bordi delle piste, era la neve che era stata rimossa dagli spalaneve per consentire il normale funzionamento dell’aeroporto, uno dei pochi inseriti nella lista di quelli che garantiscono un’ottima efficienza in tutti gli Stati Uniti d’America. Mi chiedevo se le strade sarebbero state altrettanto pulite o se il rischio della presenza del ghiaccio sui collegamenti principali avrebbe potuto compromettere seriamente la circolazione dei mezzi. Non appena vidi arrivare la mia valigia trasportata dal nastro dei bagagli appena scaricati dalla stiva dell’aereo, guardai l’orologio: erano già le nove di sera, eravamo in ritardo. Accelerai il passo, diretta al banco informazioni, dove trovai tante persone che come me dovevano dirigersi da qualche parte. L’impiegata, una grassa e scontrosa donna sulla cinquantina, diceva ad alta voce che le linee di autobus esterne erano ferme per via del maltempo e tutte le corse a lunga percorrenza erano state cancellate e rinviate al mattino seguente, mentre con veloci gesta della mano mimava la caduta della neve e la presenza di lastre di ghiaccio sulle strade. La gente era irritata e molti uomini dimostravano la loro forza picchiando i pugni sul bancone, accusando la povera donna d’incompetenza. Anche se non eccelleva per simpatia, quella donna non aveva nessuna colpa. Non appena la folla fu diradata, mi avvicinai al banco.

«Mi dica!», esclamò la donna ormai esausta.

«Buonasera, non sto qui a chiederle le stesse cose che hanno chiesto tutti quanti, ho già sentito la risposta. Ho capito che stasera non si parte. Volevo chiederle se mi saprebbe indicare un posto dove poter trascorrere la notte, qui in aeroporto o in città».

La donna si rilassò.

«Mi dispiace signora ma purtroppo i pochi posti disponibili sono già stati occupati tutti. Come lei può immaginare, in queste situazioni vanno a ruba. Potrebbe raggiungere il centro città, dove troverà sicuramente delle camere in hotel. Dov’è diretta?»

«Nel Wallowa», risposi.

«Bene. L’autobus per il Wallowa parte dalla quinta banchina, che trova proprio qui fuori, domani mattina alle otto. La tratta è piuttosto lunga, ci vorranno circa otto ore».

«Sette ore replicai», mostrandole il calcolo fatto dal computer durante la simulazione del viaggio.

«Otto ore quindi», insistette la donna, «anche se sarà possibile viaggiare non si aspetti che l’autobus possa procedere con la stessa velocità o senza impedimenti. Il ghiaccio non si scioglie tanto facilmente e il sale non fa miracoli in queste situazioni. Di neve ne è caduta davvero tanta. Si faccia trovare qui domani mattina, poco prima delle otto. Se ha bisogno di un taxi, li trova all’uscita del terminal, sulla destra. Buon viaggio, signora», concluse regalandomi uno stentato sorriso.

«Se la signora me lo permette, posso accompagnarla io in città», sentii pronunciare chiaramente da una voce proveniente dalle mie spalle. Mi girai e mi trovai davanti agli occhi un uomo. Era di bell’aspetto, moro con occhi verdi, aveva una fitta capigliatura ben curata e che lasciava intravedere qua e là qualche brizzolatura. Era senza barba ma portava i baffi con orgoglio. Dimostrava una quarantina d’anni e, per com’era vestito, doveva essere un uomo d’affari, una persona che ricopriva qualche ruolo importante in un’azienda o cose del genere. Portava appeso a un braccio il suo lungo cappotto, mentre con l’altra mano trascinava un trolley piuttosto piccolo. Mi fissava negli occhi a meno di un metro di distanza, mentre attendeva da me una risposta, un cenno di vita.

«Lei è molto gentile. Io però non la conosco, le chiedo scusa, non accetto mai passaggi dagli sconosciuti. E se ora mi permette, vorrei andare», gli risposi mentre di scatto mi giravo nuovamente verso il banco informazioni, facendo finta di cercare qualche cosa all’interno della mia borsa. Sentivo la sua presenza dietro di me, forse avrei dovuto utilizzare dei modi un po’ più gentili ma davvero non ci riuscivo. Mi sentivo fortemente a disagio. Mi girai nuovamente e lo guardai negli occhi.

«Le ripeto, non la conosco. Non è per mancanza di fiducia nei suoi confronti ma davvero non penso sia il caso di lasciare questo terminal con lei, mi perdoni», continuai, pensando così di chiudere definitivamente il dialogo con quell’uomo mai visto prima. Anche se da un lato mi dispiaceva, ricordai a me stessa che non ero in vacanza.

«Se può esserle di qualche aiuto, mi presento. Il mio nome è John. John Beal», disse allungandomi la mano. Mi sentii costretta a replicare, a spargere i fatti miei su un tavolo a viso scoperto. Una cosa che mai avrei voluto in una città o verso persone a me totalmente estranee.

«Katherine Fortuna», risposi senza guardarlo negli occhi, mentre sistemavo il portafogli nella tasca interna della mia borsa.

«Fortuna? E’ un cognome italiano, se non sbaglio», disse sorpreso e con un’espressione da ebete in volto.

«Si, Fortuna è un cognome italiano», replicai, visibilmente scocciata dalla sua insistenza nel voler portare avanti a tutti i costi un dialogo che io ritenevo già concluso a priori.

«Posso insistere nell’offrirle un passaggio quindi, Katherine?». Insisteva. Cominciavo a non sopportarlo più. Tuttavia un passaggio mi avrebbe fatto davvero comodo in quella gelida serata invernale.

«Quanto dista da qui?», chiesi sempre più scortese.

«Una mezz’ora, direi, viste le condizioni delle strade. La mia macchina è parcheggiata qui fuori, venga con me, mi segua. Intanto si copra bene, fuori fa molto freddo», rispose mentre indossava il suo lungo cappotto sopra l’elegante giacca grigia che, realizzai, nascondeva anche una bella cravatta rossa ben annodata sotto il colletto di una camicia bianca. Si offrì di prendere la mia valigia e la trascinò dietro di sé. Seguii il suo consiglio e m’infilai la giacca a vento che avevo legato intorno alla vita, prima di scendere dall’aereo. Ai suoi occhi di padrone di casa dovevo essere parsa una povera e sprovveduta provinciale. Procedeva con passo deciso, la sua falcata era così lunga che faticavo a stargli dietro. Cominciai a sentire l’affanno nel mio respiro e il cuore battermi forte, quindi mi fermai di colpo.

«Senta John “coso” o come diavolo si chiama. Ha intenzione di fare una maratona? Una corsa? Se è così me lo dica, così almeno mi cambio le scarpe e mi preparo!». Lui si girò con un’elegante e precisa torsione del collo e mi sorrise.

«Ha ragione Katherine, mi scusi. E’ la mia imperdonabile abitudine. Io sono sempre di corsa. Prego, riprenda fiato. Si prenda tutto il tempo che le serve, poi proseguiamo più lentamente».

Era un uomo elegante, non c’era ombra di dubbio. Non volevo passare da povera bambina capricciosa quindi risposi semplicemente che potevamo andare avanti. In quel momento fui io ad accelerare il passo e a lasciarlo dietro di me.

«Lei vista da dietro è altrettanto graziosa, lo sa? Chissà da quanti uomini lo avrà già sentito dire!».

Mi s’infiammarono le guance, sentii un caldo impossibile esplodermi nelle orecchie, m’irritai.

«Ma come si permette! Ma senti questo! Mi ha visto appena cinque minuti fa per la prima volta e ora già si permette di esprimere le sue personali considerazioni sulla mia persona. Chi le ha concesso tutta questa confidenza? Non si permetta mai più certe libertà, John Beal!». Ero furiosa come un toro di fronte ad un lenzuolo color rosso sangue, ma in cuor mio mi sentivo anche lusingata di essere stata notata per qualcosa di fisico. Anche se non glie lo avrei mai confidato, mi piaceva la sfacciataggine mostrata da quell’uomo.

«Molto bene signorina, vedo che ricorda già bene il mio nome completo! Possiamo andare ora?».

«Si, andiamo. E’ meglio!».

Il freddo era davvero pungente fuori dal terminal. Fortunatamente non c’era molta umidità nell’aria, il che la rendeva la temperatura sopportabile. Allungai il passo per seguire l’uomo e immediatamente scivolai. Non avevo le scarpe adatte e l’asfalto era coperto a chiazze da sottili lastre di ghiaccio.

«Per favore, si fermi qui!». John si girò sbuffando, chiedendosi il perché di quella mia richiesta, ma subito capì.

«Ha problemi con le scarpe, giusto? Prima di partire non si è interessata sulle condizioni meteorologiche? Tutti sapevano della bufera di neve su Portland. Va bene, è inutile parlarne ora. Ha delle scarpe più comode con sé?».

«In valigia, ma dovrei tirare fuori tutti i vestiti qui in mezzo alla strada, impiegherei troppo tempo e non ne ho assolutamente alcuna voglia. Cercherò di fare attenzione», lo rassicurai.

«In alternativa potrei portarla in braccio, se vuole. Che ne dice Katherine?». Era impertinente, ma anche gentile. Tuttavia quella sera il mio stato d’animo non mi permetteva di esprimere sentimenti di bontà alcuna.

«Oppure potrebbe andare a prendere la sua auto mentre io l’aspetto qui, con la mia valigia. Che ne dice signor Beal?», replicai con altrettanta impertinenza.

«Arrivo presto. Nel frattempo abbia cura di non prendere freddo, altrimenti la sua vacanza nel Wallowa la trascorrerà a letto con la febbre». S’incamminò diretto alla sua auto senza girarsi, attraversando le file di macchine e pick-up parcheggiati nell’enorme area. Pensai che forse non stessi facendo la cosa giusta, avevo avuto poche esperienze con gli uomini e tutte finite in malo modo. Mi avevano fatto soffrire, nessuno era mai riuscito ad accettarmi per quella che sono. Seguii John con lo sguardo fino a quando non riuscii più a scorgerlo e in quel momento cominciai a temere che non l’avrei mai più visto. Forse l’immagine di John era solo una proiezione della mia vita passata, quindi irreale. Avevo accettato un passaggio da un fantasma? Rabbrividii all’idea. Vedevo ovunque persone intorno a me che entravano e uscivano dal Terminal mentre parlavano e sorridevano. Alcuni discutevano animatamente tra di loro, ma almeno non erano soli, abbandonati a loro stessi, come invece mi sentivo io. Chiusi bene la giacca e avvolsi intorno al collo una sciarpa che avevo in precedenza inserito nella borsa. Non ero stata del tutto sprovveduta, evidentemente. Poi il deserto. Il lampione che si trovava proprio davanti a me rifletteva la sua luce sulla neve, facendola brillare come fosse polvere di diamante. Ripensai a quanto amavo da bambina le cose che brillavano, dicevo a mia madre che da grande avrei voluto avere tanti gioielli. “Certo che ne avrai tanti”, mi rispondeva sempre, mentre accarezzava i miei lunghi capelli neri.

 

In fondo alla strada vidi i due fari di un’auto allontanarsi sempre di più tra di loro, mentre il mezzo si avvicinava. Era un pick-up e dentro c’era John a guidarlo. Non immagini quanto io sia contenta di rivederti in questo momento, pensai tra me, mentre John scendeva dall’auto per caricarvi sopra la mia valigia. Solo in quel momento notai che aveva lasciato lì con me anche la sua, prima non lo avevo realizzato, assorta com’ero nei miei pensieri. Si era fidato di me, più di quanto non avessi fatto io nei suoi confronti. Avrei voluto dirgli grazie, ma le mie labbra non riuscirono a dare sfogo al mio istinto, rimanendo incollate tra loro. Salii in macchina mentre John sistemava i nostri bagagli.

«E’ di suo gradimento la temperatura dell’aria, Katherine?».

«Va bene, amo il caldo, non si preoccupi», riuscii a dire, ancora una volta senza ringraziare. Perché mi era così difficile farlo? Cosa non funzionava in me?

«Questo allora non è il posto adatto a lei, se non in certi momenti dell’anno», esclamò sorridendo, «qui fa piuttosto freddo. Andiamo?». Acconsentii con il solo movimento del capo.

Mise in moto l’auto e avanzammo a passo lento verso l’uscita dell’aeroporto, senza parlare. Anche se John si era comportato in quel modo tanto gentile nei miei confronti, mi guardava e sorrideva, io non riuscivo ancora a ricambiare.

CAPITOLO 3

Le note della canzone ‘Strangers in the night’ di Frank Sinatra addolcivano il vuoto silenzio lasciato delle nostre voci. A ogni incrocio con il semaforo rosso, John mi guardava e ogni volta sembrava volermi fare delle domande. Io temevo che mi fosse posta quella che sarebbe stata per me la domanda più difficile alla quale rispondere. Il mio atteggiamento asociale e poco rispettoso nei suoi confronti, che mi aveva in qualche modo difeso fino a quel momento, non durò molto.

«Cosa l’ha portata qui Katherine?», chiese mentre volgeva lo sguardo alla strada. Poiché non dovevo ricambiare il suo sguardo con il mio e visto che la domanda non era poi tanto compromettente, pensai che avrei potuto anche dare una risposta evasiva e lui non vi avrebbe dato molto peso. Mi sbagliavo.

«Volevo cambiare aria, fare un giro da queste parti mai visitate prima in vita mia. Me ne hanno parlato tanto bene i miei amici a New York».

«Non credo sia solo questo, se me lo permette», rispose. Non l’avevo convinto per nulla, era più che evidente. In fin dei conti non avevo mai dimostrato di avere innate doti d’attrice e la menzogna non è davvero mai stata il mio punto di forza. Come sempre, però, non ero disposta a cedere vista la mia cocciutaggine, forse la mia vera e unica caratteristica.

«E lei che cosa ne sa? Una donna non può decidere a un certo punto di chiudere casa e farsi un bel viaggio? Pensa di conoscermi così bene? Non sa proprio nulla di me, in fin dei conti, non crede Beal?».

«Io dico semplicemente che non è solo questo. Lei non è una donna serena in questo momento, mostra paura verso qualche cosa, dà l’idea di essere qui alla ricerca di qualche cosa che teme di non trovare o, al contrario, di rimanere sconvolta nel caso dovesse trovare ciò che cerca. Una donna in fuga da o verso qualcosa. Proprio questo, lei sembra una donna che sta scappando da qualche cosa a gambe levate. Comunque le chiedo scusa, questi non sono affari miei e su questo ha tutte le ragioni del mondo, mi perdoni».

Ripiombammo nel silenzio, un mutismo imbarazzante. M’infastidiva che John avesse tutto quel rispetto per me, per i miei pensieri e per la mia riservatezza. Pensai che provare a conoscerlo un po’ forse non mi avrebbe causato problemi. Forse sarei riuscita a ringraziarlo alla fine del nostro tragitto.

«E lei come mai è qui John? Vive a Portland?». Immediatamente pensai che, con il mio comportamento, lui potesse risentirsi per la mia domanda. Perché mai io potevo fare domande e lui no? «Ovviamente si senta libero di non rispondermi se non lo ritiene opportuno». John mi guardò e ammiccando un sorriso andò a segno.

«Perché mai dovrei comportarmi come lei Katherine?». Scoppiò a ridere mentre mi guardava chinare il capo per proteggermi dal suo sguardo. Mi comportai come una bambina che era appena stata sgridata.

«A Portland vive ancora mia madre. Ci trasferimmo qui poco dopo la morte di mio padre, prima abitavamo a Joseph, proprio dove lei è diretta, nel Wallowa. Conosco bene la zona, per questo motivo poco fa la mettevo in guardia sulle rigide condizioni atmosferiche».

«E, lutto per la morte di suo padre a parte, come mai avete deciso di trasferirvi a Portland?».

«A dire il vero non si trattava di un trasferimento, ma piuttosto di un ritorno. Mia madre è nata e vissuta nella periferia della città. Non avendo più nessun legame con il Wallowa, ha deciso di ritornarsene qui. Io l’ho seguita, nonostante avessi allora un buon lavoro a Joseph. Lasciai tutto, feci i bagagli e venni a stare qui con lei. Ora, ultra settantenne, ha più che mai bisogno di me. E’ una donna ancora autosufficiente nonostante l’età, ma come lei può ben immaginare comincia ad avere serie difficoltà sotto diversi aspetti della vita quotidiana. A volte ha dei momenti di buio nella sua mente, durante i quali non ricorda più nemmeno il suo nome o il mio viso. Fortunatamente sono momenti ancora rari e brevi, ma la costringono a rimanere chiusa in casa. Lei è sempre stata una donna molto dinamica e questa limitazione è per lei al pari di una condanna alla reclusione. Ha una badante che si prende cura di lei».

«Era all’aeroporto John. Da dove proveniva?», chiesi forse osando troppo.

«Io ero con lei sull’aereo, Katherine, vengo anch’io da New York. Sono andato nella città per attendere a una convention, ero l’oratore».

«Non mi ero accorta di lei John».

«A dire il vero lei non poteva accorgersene, presa com’era dai suoi pensieri. Durante il volo poi, subito dopo il decollo, si è assopita. Io invece l’ho notata subito. Lei è una donna che non passa inosservata, dovrebbe saperlo questo». John parlava con sincerità e senza inibizioni, con il suo sorriso continuamente stampato in viso e un’eleganza che raramente avevo riscontrato prima in un uomo. Lo guardai e forse arrossii un poco. Si, sono sempre stata una bella donna. Mio padre lo sosteneva fin da quando ero bambina, mentre mia madre era preoccupata maggiormente per altri aspetti della mia vita, che le facevano porre l’argomento ‘bellezza’ in secondo piano. Più volte me lo sono sentita dire dagli uomini, al punto da essere giunta a convincermene. Ma lo ero, molto di più, nel mio corpo precedente. Ero una donna elegante, di una bellezza raffinata, quasi rara. Ma questo io non avrei potuto dirlo a John. Almeno non ancora.

«La ringrazio John…», accennai timidamente.

«Anche la roccia si sfalda quando dimostra di avere un cuore! E’ vero quindi!», disse con tono sicuro.

«Che cosa intende dire con queste parole?»

«Lei mi ha appena ringraziato, Katherine. Non se n’è accorta? O forse mi sbaglio?», disse, strizzandomi l’occhio in segno di complicità. Io sorrisi e annuii solo con un cenno del capo, qualunque altra parola sarebbe stata del tutto superflua e fuori luogo in quel momento.

«Le devo chiedere scusa John. Perdoni il mio comportamento scortese nei suoi confronti. Lei è così gentile con me ed io l’ho saputa ricambiare solo trattandola piuttosto male. Sono stata poco carina».

«Potrei accettare le sue scuse, ma a una sola condizione! Mi deve concedere il piacere di fare colazione con lei domani mattina, che ne dice?». Non sapevo cosa rispondere, ero imbarazzata. Poi mi venne in mente che la mattina seguente avrei dovuto prendere l’autobus per il Wallowa.

«Accetterei volentieri John, ma domani mattina dovrei tornare in aeroporto molto presto per prendere l’autobus diretto nel Wallowa. Non farei in tempo altrimenti», risposi.

«Non ne ha bisogno Katherine. La porterò io nel Wallowa se mi vorrà onorare della sua piacevole compagnia».

«No John, l’ho già disturbata anche troppo. Non permetterei mai di farle sprecare tempo prezioso per accompagnarmi fin laggiù, è troppo lontano».

«Una cosa che non ho fatto ancora in tempo a dirle nel mio racconto è che io lavoro ancora nel Wallowa».

«Come dice? Ha lasciato nuovamente Portland, quindi?», chiesi sorpresa.

«Si. Qui non mi sentivo a casa. Se non fosse stato per mia madre, non ci sarei nemmeno mai ritornato», rispose, «Non ho trovato nemmeno un lavoro che mi gratificasse come quello che avevo a Joseph. Parlai allora con mia madre e le comunicai che sarei ritornato nel Wallowa. Sarei andato a trovarla spesso. Potevo farlo perché in quegli anni non aveva mai mostrato segnali di cedimento, potevo stare tranquillo. Dopo una prima reticenza iniziale, accettò la mia scelta e mi lasciò andare via. Tornai nel Wallowa, a Joseph. Fortunatamente non era stato trovato un rimpiazzo alla mia posizione lavorativa e fui reinserito nell’organico. Vivo in una casa non molto lontana dal mio lavoro, non potrei stare meglio di così».

«E’ sposato John? Ha dei figli?»

«Sono divorziato e non ho figli». Si stava completamente aprendo a me, ogni mia domanda trovava subito una risposta. Avrei potuto chiedergli qualunque cosa e lui mi avrebbe risposto senza problemi. Io non ci sarei mai riuscita. Come si può essere tanto trasparenti verso un completo estraneo? Lui ed io eravamo due persone molto diverse a prima vista.

«Mi scusi John, non vorrei aver rievocato con le mie domande pensieri o sentimenti per lei dolorosi»

«Assolutamente no Katherine. Mia moglie ed io siamo tuttora in buoni rapporti. Si era spento quell’amore che ci aveva in precedenza unito, tutto qui. Non si va avanti in un rapporto se non c’è l’amore, giusto?». Giusto, pensai. Giustissimo. Le mie esperienze passate a riguardo non potevano che confermare quanto da lui detto. Non ero mai stata lasciata da un uomo, ero sempre stata io a fare il primo passo. Non conoscevo lo stato d’animo in cui ci si trova quando è l’altro a dirci che è finita, quella sensazione di rifiuto giustificata con le più disparate ragioni. A volte ci si giustifica assumendosi per scelta tutte le colpe per la decisione presa, consci del fatto che non si tratta della pura verità bensì di un modo per chiudere la questione in fretta e senza seguiti. Provavo a immaginarlo ma riuscivo solamente ad assimilarlo a quello di una morte improvvisa, doveva essere un dolore enorme quello che segue la parola ‘addio’ pronunciata da una persona che si ama veramente. Gli feci capire che ero d’accordo con lui e non continuai oltre sull’argomento, non avevo alcun diritto o alcuna necessità di farlo.

«Ha trovato tutto inalterato al suo ritorno nel Wallowa o ci sono stati dei cambiamenti in sua assenza?»

«Ritrovai tutto così come l’avevo lasciato. Non sono mancato per troppo tempo tuttavia, solo qualche mese. A me però sembrava trascorsa un’eternità».

«Davvero poco tempo quindi. Per questo motivo ha ritrovato anche il suo vecchio posto di lavoro».

«O forse anche perché sono troppo bravo e non sono mai riusciti a trovare un’altra persona che fosse alla mia altezza?», pronunciò altezzosamente.

«Lei è davvero molto modesto John», risposi sorridendogli con piacere per la prima volta.

«La modestia è una mia virtù, così come la sua eleganza Katherine». Lo guardai mentre mi fissava con lo sguardo. La luce dell’insegna al neon dell’hotel dove mi aveva portato illuminava un lato del suo volto, mentre l’altro rimaneva completamente in ombra, buio.

«A che ora la colazione domani mattina John?», chiesi rispondendo al suo sguardo intenso, mentre i suoi occhi fissavano i miei.

«Le può andare bene per le otto? Verrò io qui da lei. Mi raccomando, indossi abiti pesanti e molto caldi. Farà freddo nel Wallowa domani, vedrà. Ovviamente le sue scuse sono accettate, Katherine», concluse.

 

Ricambiai con un sorriso e con una leggera e composta flessione del capo. Prese la mia valigia dal portabagagli e me la trasportò fino al bancone della Reception dell’hotel, in fondo alla hall sulla destra. Conosceva anche l’impiegato, un ragazzo piuttosto robusto di nome Fred.

«Fred, questa è la signora Katherine. Ho prenotato la sua camera a mio nome, controlla la lista. Penserò a tutto io domattina quando verrò a riprenderla. Mi raccomando desidero per lei un trattamento di riguardo, è una mia cara amica!». Poi si girò verso di me per continuare il suo discorso, «Ho verificato la disponibilità della camera mentre mi recavo a prendere l’auto in aeroporto. Qui si troverà bene Katherine. Conosco questo ragazzo e stia certa che se qualche cosa dovesse andare storto, lui se la vedrà con me domattina. Dico bene Fred?»

«Non ha nulla di che preoccuparsi signor Beal. Signora, ecco la chiave della sua camera. Le chiamo un facchino che le porterà la valigia in camera tra pochi minuti, la lasci pure qui a me». Ringraziai Fred. Non avevo dovuto fare nemmeno il check-in, la camera era stata registrata con il nome di John.

«Grazie ancora John per tutto il suo aiuto e la sua generosa disponibilità, lei è davvero una brava persona, molto più di quanto non lo sia io. E mi scusi ancora per la mia indecenza, in aeroporto come in macchina, poco fa».

«Le ripeto Katherine, le sue scuse sono state già accettate. Non parliamone più, non è importante. Cerchi piuttosto di trascorrere una buona nottata, ci vediamo qui nella hall domani mattina alle otto. Faremo colazione qui nel ristorante dell’hotel, è ottimo. Poi partiremo per il Wallowa». Fece una pausa, poi riprese. «A proposito, dimenticavo che lei non ha ancora cenato!». Negai con una mossa del capo ma lo rassicurai dicendogli che avrei preso una tazza di caffè in camera, non ero solita mangiare molto la sera, soprattutto prima di andare a letto. Ed ero molto stanca, non avrei tardato ad addormentarmi. Mi prese la mano e me la baciò. Il contatto della pelle della mia mano con le sue labbra morbide e calde mi fece tremare. Riuscii a fatica a trattenere dentro di me la mia emozione e lo salutai.

«A domani Katherine».

«A domani John». Mi seguì con lo sguardo, rimanendo immobile per tutto il tempo, fino a quando non si aprì la porta dell’ascensore. Teneva le mani nelle tasche del cappotto, come se stesse nascondendo qualche cosa al loro interno. Entrai nell’ascensore e premetti il tasto per salire al terzo piano. Ebbi giusto il tempo per lanciare un ultimo cenno di saluto con la mano a John, che ricambiò, poi restai immobile a osservare la sua immagine che scompariva dietro le fredde porte d’acciaio della cabina dell’ascensore. Un lungo corridoio, stretto e buio, mi conduceva alla camera 315. Mentre passavo davanti alle porte delle altre stanze, sentivo i rumori delle televisioni accese, dell’acqua delle docce e le voci delle persone provenire dall’interno. L’hotel era quasi pieno. Entrai nella mia stanza, era molto piccola, con un bagno angusto e poco curato. Guardai fuori dalla finestra. Si dispiegava un bel panorama a ridosso della città e, in lontananza, vedevo le luci accese e intense che illuminavano le piste dell’aeroporto. Il bagliore dei riflessi di luce sulle lastre ghiacciate e sui cumuli di neve, donava al paesaggio un che di fiabesco. Presi il bollitore e riscaldai dell’acqua per prepararmi un buon caffè americano. Avevo bisogno di qualcosa di caldo per combattere il gelo che mi aveva attraversato anche le ossa in quella fredda serata. In quella stessa serata, però, avevo incontrato un uomo che era riuscito a scaldarmi il cuore. Un talk show trasmesso in televisione riempiva la stanza di parole, lo guardai con poco interesse mentre sorseggiavo la mia tazza di caffè. La mia mente vagava su quello che avrei visto e vissuto nel Wallowa, m’interrogavo sulla reale esistenza della casa che cercavo. Di certo, se non l’avessi trovata, sarei rimasta molto delusa da me stessa e me ne sarei ritornata a casa a mani vuote, forzandomi a cancellare per sempre quelle immagini che da sempre avevano popolato la mia mente e i miei pensieri. Ricercai nella mia memoria visiva i tasselli per ricostruire l’immagine di John e apprezzai tutto quello che aveva fatto per me. Solo adesso che se n’era andato via, lasciandomi da sola in quella stanza, riuscivo a esprimere tutta la mia gratitudine. Aveva preso una perfetta sconosciuta in aeroporto e le aveva offerto il suo aiuto, i suoi servizi, senza pretendere nulla in cambio. Almeno fino a quel momento. Mi chiedevo ancora se quell’uomo fosse reale oppure un frutto della mia immaginazione. Eppure l’emozione che avevo provato mentre mi baciava la mano era reale, fisica. Decisi di non pensarci più. Se ero giunta nella stanza di quell’hotel di Portland, qualcuno o qualcosa doveva avermici portata. Pazza si, potevo anche accettare di esserlo, ma non potevo esasperare le mie fantasie al punto da generare ipotesi e pensieri assurdi. Mi spogliai ed entrai in bagno, buttandomi sotto la doccia che versava acqua molto calda, quasi fumante. Incrociai la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me, ampiamente offuscato ai bordi dal vapore caldo prodotto dall’acqua della doccia. Si era creata una cornice intorno al mio corpo e potevo ammirare le mie fattezze e i seni turgidi come se stessi ammirando un quadro. Vidi che ero oggettivamente una bella donna. “Si, sei una bella donna Kate”, mi suggerì il mio orgoglio di donna, facendomi disegnare un bel sorriso fiero sulle mie labbra chiuse. La doccia tolse via la stanchezza della giornata dal mio corpo, rilassando i miei muscoli mentre l’acqua calda scorreva lungo i miei fianchi e solcava la mia schiena. Mi sfiorai con la mano mentre la mente andava a John, l’uomo di quella sera, e fui subito pervasa da un brivido caldo che mi fece sussultare dal piacere. Il mio corpo rispondeva bene agli stimoli del sesso, anche se ancora non ero riuscita a provare il vero piacere con un uomo. Io sola conoscevo bene me stessa al punto da prendermi cura del mio corpo proprio come meritava. Subito dopo mi sentii rilassata e distesa, soddisfatta nel corpo e nella mente per ciò che avevo appena fatto. Indossai il mio pigiama e m’infilai sotto le coperte. In televisione il talk show proseguiva con i suoi dialoghi, tra le forti grida dei litigiosi partecipanti e le risate del pubblico, mentre il presentatore tentava invano di riprendere il controllo di una situazione che sembrava ormai essergli sfuggita completamente di mano. Senza rendermene conto, in pochissimo tempo caddi in un sonno profondo.