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Vecchie storie d'amore

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LA DAMA FALLACE

Sec. XVII

I

Mentre il duca Odoardo Farnese, i Francesi e il duca di Savoia assediavano Valenza, don Alfonso della Torre, il quale era tra gli ufficiali d'Odoardo, ricevette la notizia che suo zio il marchese di Cortemaggiore era morto lasciando a lui, come a giovane savio ed a nipote affettuoso, ogni suo avere; ond'egli, da nipote affettuoso, dimostrò un ineffabile dolore, e da giovane savio deliberò tra sé di godere al piú presto di quella fortuna inattesa. Infatti appena i collegati ebbero tolto, per disperato, l'assedio, egli corse a Parma, ed ivi diede tosto troppe prove di prepotenza e di grandezza: capestrerie, fastosi sollazzi, amori, brighe, soprusi. Né continuò poco cosí; ma quando il duca fu uscito dai travagli della guerra e riprese il retto governo dello stato, chiamò a sé, un giorno, il giovane e turbolento cavaliere e gli propose il dilemma o d'ubbidire alle sue leggi per restare in Parma, o d'andarsene da Parma per non ubbidire alle sue leggi.

A ciò don Alfonso avrebbe dovuto rispondere co 'l sussiego che gli conveniva: – Altezza, io possiedo anche un feudo fuori delle vostre terre – ; eppure, trattenuto da certa sua riflessione, egli chinò il capo e tacque.

Di che meravigliandosi e dolendosi quasi di un'umiliazione sua il conte Gabrio Gabrii, che gli era intimo amico, gli disse Don Alfonso: – Oggi capirai che se io metterò il giudizio a posto non sarà tutto merito di Sua Altezza.

E nel pomeriggio, condotto l'amico al giardino della sua casa, da un punto dal quale si scorgeva chi era nel giardino attiguo disse a bassa voce: – Guarda!

Una dama leggendo un libro passeggiava all'ombra; e come fu condotta dal sentiero presso il muricciolo di confine, levò gli occhi e al profondo saluto che le fece don Alfonso risalutò, senza ristare, con garbo signorile. Una dama bellissima. Il Gabrii sorrise, attese ch'ella si fosse allontanata ed esclamò:

– Varrebbe la pena di mettere la testa a posto; ma io credo che tu, questa volta, la perderai del tutto!

II

La dama posò il romanzo. Nella sua mente piena di quell'avida lettura le viragini e i cavalieri continuarono a scambiare colpi di spada e prove eroiche e i príncipi a perseguire le donzelle traverso strane e confuse vicende di battaglie, di rapimenti e di naufragi; ma nel suo cuore, dai discorsi piú galanti e dalle pagine piú sentimentali, era penetrata una tentazione sottile, un'eccitazione dolce ad un amore tuttavia sconosciuto.

Fanciulla quasi l'avevano data in moglie a un cavaliere milanese, tanghero e geloso; a pena vedova i congiunti del marito, per carpirle una parte dell'eredità, l'avevano rinchiusa a forza in un convento, e da poi che era fuggita dal convento in casa della vecchia dama che le voleva il bene d'una madre, il Palmenghi figlio della dama, per non essere compromesso e per sottrarla all'ira dei congiunti, la costringeva a una vita peggio che di chiostro. O piú tosto, invaghitosi di lei, il Palmenghi aspettava agio di sposarla?

Da Scilla in Cariddi!; e altro confortatore della sua giovinezza sognava Domitilla (questo il suo nome): ella sognava una grande passione che le consentisse il dominio dell'amante in guisa d'aver poi uno schiavo in suo marito; e il Palmenghi era un geloso carceriere quando ancora non le aveva proposto di sposarla!

Sospirando, Domitilla riprese il libro. Ma il suo pensiero oramai ripugnava dalla lettura e seguiva imagini sue, un'imagine che da alcuni giorni cercava il suo cuore e l'accarezzava per entrarvi; e don Alfonso della Torre, il giovine e bello e perfetto cavaliere di cappa e spada, le sorrideva con un inchino profondo di saluto. Ella non aveva il dubbio di non piacere a don Alfonso della Torre: anzi s'era avveduta che la corteggiava; ma, quando pure le riuscisse innamorarlo, riuscirebbe al piú, a divenirgli moglie? Divenirgli moglie! E la sua fantasia correva, correva. Egli era ricco e superbo; onde una gloria l'avvincerlo e una fortuna il possederlo. Se non che lo dicevano anche intemperante, violento, infido colle donne, e non le conveniva disgustare il Palmenghi per avventarsi a una speranza incerta e a un pericoloso tentativo. Rifletté, poi levandosi risoluta e sicura: – A innamorarlo – pensò – basta la bellezza; lo avvilupperò con l'arte e con l'inganno e avrò lo schiavo!

E si guardava nello specchio della sala: era bellissima.

III

La dama che ogni giorno passeggiava nel giardino del Palmenghi, rispose cortese alle prime dimande di don Alfonso, ma guatandosi attorno quasi paurosa che ci fossero altri ad ascoltarla; disse che aveva nome Vittoria, che era sorella del Palmenghi e vedova da poco tempo di un gentiluomo milanese: non piú; ma negli occhi e nel viso essa aveva l'ombra e l'impronta d'un dolore sempre presente al suo spirito, e dalla circonspezione con cui ella si conteneva, s'arguiva che qualcuno l'invigilava. Qual colpa di lei o d'altri la teneva vittima di quella tirannia occulta? qual cura l'affliggeva turbandone la meravigliosa e fresca bellezza? Don Alfonso non poté sapere di piú, ma se il giovanile desiderio di un'avventura galante l'aveva condotto nel giardino le prime volte, nel solito luogo, all'ora solita, ve lo trasse di poi il desiderio acre e virile di far dispetto a qualcuno e di affrontare un pericolo; e quindi ve lo trasse, con tutta la forza e con tutti i lacci, l'amore.

E quell'accensione lenta, nuova per lui, divampò cosí nel suo cuore che non ebbe piú requie: e il suo animo rimase conquiso, occupato, umiliato da quella donna la cui bellezza s'elevava e raffinava con lo strano contorno della pietà e del mistero. Egli fece e le ripetè molte proteste, ma la dama o taceva inquieta o rideva mestamente; ed un giorno in cui egli insistette per ottenere una parola, una parola sola, ella disse: – Io non ci penso a rimaritarmi.

Don Alfonso non le chiedeva questo o non le chiedeva tanto. Allora la dama lo guardò fissa per leggergli il pensiero negli occhi; poi soggiunse: – Che cosa domandereste a una dama nobile ed onesta? – Una parola! soltanto una parola! – La dama gli sorrise.

In fine, un altro giorno, ella si dolse perché le bisognava interrompere la consuetudine di quei piacevoli colloqui.

– Impossibile! – esclamò don Alfonso. – Voglio vedervi, udirvi! Chi può impedirmelo?

– Io – essa rispose – ; se no, voi, don Alfonso, mi recherete danno.

Né alle domande di lui aggiunse spiegazione alcuna, ma si mosse come per andarsene. Allora egli si contenne, la supplicò e promise d'essere prudente; e la dama quasi per premiarlo gli concesse di scriverle e di nascondere le lettere in un crepaccio della cinta: ivi, potendo, gli lascerebbe le risposte. Tacquero; e dalle loro pupille le anime loro si guardarono tremule e accese, interrogando.

– Voi m'amate! – disse don Alfonso.

– Sí – disse la dama; e ne' suoi occhi luccicarono le lagrime.

IV

Certo che essa l'amava, senza piú titubare don Alfonso intese al fine del suo amore; e le ripulse della dama non lo frenavano, non l'intimidivano gli ostacoli; ed essa gli scriveva invano: «Vorrei, ma non posso».

Egli un giorno, stanco, le scrisse cosí: – O la sera sarebbe venuta da lui, nel giardino, ad udire quel che aveva a dirle, od egli, alla prima buona circostanza, la porterebbe via a forza.

Domitilla, com'ebbe letto il biglietto, sorrise all'idea d'essere rapita di notte in una carrozza trascinata da due veloci cavalli e scortata da ceffi spaventosi; ma la ragione la distrasse dalle fantasie romanzesche, e poiché l'amante si ribellava, comandava, minacciava, il meglio era non badargli – se pure, a tirar troppo, la corda non si fosse rotta. No, meglio era andare da lui – se pure al convegno, per debolezza sua, non fosse seguíto ciò che sarebbe seguíto al rapimento. – Parcere subiectis et debellare superbos! Domitilla, la sera tardi, s'attenne alle norme che l'amante le aveva scritte; e don Alfonso, ricevutala da una scala nel giardino, non stentò a persuaderla che entrasse nella sua casa. – «Soggiogare il ribelle e, dopo, nel perdono, acconsentirgli» aveva determinato a sé stessa Domitilla; ed entrando disse in tono ostile, súbito:

– Per voi io comprometto, questa sera, il mio onore. Del vostro amore quali prove avete date voi a me?

– Io vi amo – rispose don Alfonso.

La dama senza badargli continuava: – Voi m'avete fatta una proposta indegna, l'insensata minaccia d'impossessarvi di me con la violenza! Ma io non vi temo; v'ascolto. Che volete?

Già alle prime parole di lei cosí avversa nell'aspetto e nella voce il cavaliere aveva perduta la riflessione del disegno che s'era preparato in mente; e alle ultime lo turbò il dubbio che la dama nascondesse un'arma; onde, umile, le chiese:

– Vittoria, che cosa debbo fare io per voi?

– Nulla, se non potete soffrire e non sapete dominarvi!

Allora egli si lamentò di lei: egli soffriva da troppo tempo, egli soffriva di quell'amore che gli pareva tenebroso ed aspro quasi un delitto o una condanna; e da lei non aveva conforto se non di poche parole vane; non aveva speranza e confidenza alcuna. – Desiderate che io soffra. E avete detto che mi amate!

– Io vi amo – ripeté essa; e ai lamenti contrappose gli aforismi appresi nei romanzi. – Non è amante degno chi non rinunci la propria volontà a quella dell'amata; né v'ha amore buono che non sia combattuto dalla sorte; né è passione nobile e pietosa in chi non sia pronto ad ogni sacrificio, al sacrificio della vita stessa.

Il rimprovero offese don Alfonso. Esclamò: – La mia vita non è vostra? Ogni mio pensiero, da quando vi ho veduta, ogni mio desiderio non è in voi? Non vorrei io liberarvi ad ogni costo della tirannia che v'affligge? Un cerchio di ferro vi stringe e vi soffoca: vorrei spezzarlo, e v'avvolgete nel mistero e mi fuggite; vorrei consolarvi o dividere nel vostro segreto i vostri affanni, e mi fuggite! Che amore è il vostro?

 

– Un amore onesto, paziente, generoso!

Don Alfonso tacque con uno sforzo palese per contenere il diniego contro il quale la dama era agguerrita: nel dibattito l'ira deformava la bellezza della donna ed egli che aveva creduto d'ottenerla presto in pace, quella sera, pativa come sentisse dileguarsi un sogno di felicità. Perciò egli taceva. Ed ella, quantunque quel silenzio non la sbigottisse molto, per lasciar trapelare un po' di barlume agli occhi dell'amante, proseguí.

– In quest'amore io aveva riposto il conforto d'affanni vecchi e nuovi: ad esso confidavo l'avvenire: per il bene di esso, il mio e il vostro bene, mi credevo costretta a nascondervi ciò che cercate di scoprire, a celarvi ciò che cercate di sapere, quasi dubitaste di qualche mia azione indegna. Voi ignorate le lagrime che mi costa il solo sospetto dell'amore che vi voglio; e non mi vedete quando vi sospiro, non mi udite quando vi chiamo a me, non mi sentite in voi come io sento voi in me. Mi sono ingannata. Voi, voi mi avete ingannata turbando cosí per gioco e per sfogo della vostra giovinezza la poca quiete che la sorte mi lasciava. Ma se non m'avete compresa, non m'avete meritata, don Alfonso! Addio dunque.

E stupita ora ch'egli non fiatasse, andò all'uscio per uscire: l'uscio era chiuso a chiave. Si rivolse, di bianca divenuta livida.

Il cavaliere disse orgoglioso e solenne: – Voi siete in mia balia. Ma don Alfonso della Torre vi difende proponendovi il suo nome, il suo cuore, la sua nobiltà. – E le si accostò tendendole la mano. La dama non sorrise: piú fiera, piú solenne di lui, rifatta bellissima da quell'orgoglio superiore, ella disse: – Per difendermi basta il mio nome, puro come il vostro, e la mia nobiltà, piú antica della vostra, don Alfonso della Torre!

No: ella non aveva nessun'arma; tremava e, tanto il cuore le batteva, ansimava quasi il respiro le mancasse. E vinse lei.

Ai suoi piedi il cavaliere domandava perdono con le piú umili e dolci parole che la passione gli suggeriva e con gli occhi ansiosi cercava nell'aspetto di lei il segno del perdono, come la speranza della sua vita. Essa ascoltava rasserenandosi a poco a poco, e infine su quell'ira domata, quell'orgoglio avvilito, quella fierezza abbattuta, essa sorrise e sollevò lo schiavo a baciarla nella bocca.

V

Domitilla non aveva a pena goduto del suo trionfo che si dié colpa d'essere stata troppo debole ed arrendevole; e quantunque non dubitava della parola di don Alfonso, temeva che egli appagato nel desiderio e già pentito si disamorasse, o almeno non giudicasse grande quant'ella voleva la grazia ottenuta quella notte. Essa l'amava; ma per dominarlo le bisognava che l'ardore di lui fosse piú vivo del suo stesso ardore; e per acuirne o riagitarne le brame e inretirlo piú strettamente, le bisognava farle stentare la ripetizione e l'intero possesso della voluttà.

Gli scrisse il giorno dopo: «Guardatevi, ché è in pericolo la vostra vita.»

Don Alfonso, il quale non aveva paura di pericolo conosciuto e certo, a quell'avviso cominciò quasi sgomento a imaginare ogni piú strano affronto ed ogni danno che potesse fargli il nemico nascosto e sconosciuto; e come da un pezzo sospettava fosse il Palmenghi il carceriere della dama, cosí suppose che il Palmenghi, scoperto il trascorso della dama, cercasse vendicarsi: non usciva se non armato e seguíto da piú servi e comandava di vigilare presso la casa del vicino. Di che questi s'avvide presto; né avendo ragioni proprie d'inimicizia con il Della Torre, credette a un accordo fra i parenti di Domitilla, che l'odiavano a morte, e don Alfonso; e si guardava anch'egli. I servi dell'uno e dell'altro si guatavano in cagnesco. La rissa avvenne, e quando già Domitilla, dimentica del suo biglietto, aveva ripreso a scrivere all'amante e a confortarlo.

Un giorno don Alfonso veniva verso la porta del Palmenghi, sulla quale due figure di bravi stavano in attitudine spavalda; e poiché egli fu passato, quelli risero in faccia ai due fidi che gli erano di scorta. Offesa ai servi, offesa al padrone: don Alfonso fe' un cenno e i suoi attaccarono gli altri.

Alle grida il Palmenghi uscí con la spada in pugno, e allora don Alfonso s'avventò su di lui rapido, in un attimo, e lo colpí al cuore; poi in due salti entrò nel suo palazzo e dalla pusterla del giardino corse alla casa di Gabrio, che era poco lungi. E mentre l'amico l'aiutava a cambiar vesti perché cambiasse aria, egli gli raccomandava di ottenergli il perdono della dama, che credeva aver privata del fratello e che presto o tardi, se gli perdonasse, farebbe sua moglie. Gli raccomandava di indurla a scrivergli a Torino, dove sperava recarsi; di provvedere a che giungessero a lei le sue lettere e di adoperarsi, quando fosse tempo, ad ottenergli dal duca la grazia di quell'omicidio che aveva commesso quasi involontariamente. Gabrio promise.

Don Alfonso all'imbrunire fuggí da Parma.

VI

Quando tra amici ch'ebbero comuni sentimenti, abitudini, piaceri e desideri si frammette la donna amata da uno di lor due, è imposto anche un limite alla loro antica comunanza: oltre tale limite è la donna, di cui non si può discorrere o si deve discorrere poco e con riguardo; è il possesso, conosciuto solo in apparenza, che non si può scrutare, toccare, valutare. E troppo di frequente, per una voglia suscitata da invidia e gelosia insieme, accade che l'amico pensi dinanzi alla donna dell'amico: – M'ha detto che l'ama e che gli appartiene anima e corpo; non altro. Quali parole gli mormorano quelle labbra, intimamente? quali sorrisi gli porge quella bocca? quali baci? Agli occhi di lui che lusinghe, che promesse hanno quegli occhi? e quali carezze e abbandoni molli e resistenze incitatrici e segrete voluttà trova egli tra le sue braccia? Piú: che forza o che arte misteriosa congiunge essa alla bellezza per carpirne il cuore e trarlo seco, avvinto, nel cammino della sua vita? – Chi studia di rispondersi tenta di tradire l'amicizia.

L'ufficio di confortatore riuscí penoso, da prima, a Gabrio Gabrii, perché la madre del Palmenghi, vecchia rimbambita, o lo scambiava co 'l figliolo, o gli chiedeva: – Dicono che l'hanno ammazzato. E vero? – ; e perché la dama di don Alfonso piangeva, con lui, dolorosamente. Domitilla in fatti soffriva, non già accusandosi della tragedia avvenuta, per caso, dopo i suoi inganni, ma pensando che aveva perduto a un tempo stesso due amanti: quello che essa amava e quello che la proteggeva.

Nondimeno Gabrio ebbe pazienza, e Domitilla era cosí leggiadra che lo scoprirne la vera storia non distolse il gentiluomo dall'usare con lei i modi piú cortesi e le parole piú affettuose. D'altra parte, la dama ammirava in Gabrio tanta dolcezza d'animo e piacevolezza di costumi; e trovando nei discorsi di lui da ammirare anche sé medesima, non sempre senza intenzione gli spiegava co' suoi vezzi il perché l'amico Don Alfonso s'era invischiato e perduto nel suo amore. Chi non avrebbe perduta la testa come don Alfonso?

Ma: – Lontano dagli occhi, lontano dal cuore – sospirava Domitilla; e il Gabrii rispondeva che mancatogli oramai ogni speranza di tornare a Parma, il povero amico cercava forse dimenticarsi delle persone fide, che non si dimenticavano di lui.

Frattanto don Alfonso, il quale mandava lettere e non riceveva piú notizia di nessuno, dubitava che qualche sciagura fosse intervenuta a Gabrio, temeva che Gabrio tacesse per tacergli qualche sventura della dama, supponeva fino d'essere stato abbandonato dall'amante e dall'amico. E nel ricordo, irremovibile dal suo pensiero, l'amaro e nero ricordo di quel fatto pe 'l quale viveva nell'esilio, sorgeva insistente e tormentoso in atto di dolore e di maledizione la bella donna ch'egli amava, ch'egli invocava, desto e nei sogni, sempre; né ardiva figurarsela, pure nell'avvenire, innamorata d'altri.

La verità don Alfonso l'apprese tardi. Incontrò un giorno certo gentiluomo della sua città che era venuto in missione per il duca Odoardo alla corte di Torino, e gli domandò nuova dell'amico Gabrio.

Rispose il gentiluomo:

– Ha sposata la dama che si diceva sorella del Palmenghi.

– Vittoria! – gridò don Alfonso, cui parve ricevere d'un coltello nel cuore.

– Vittoria facile per i suoi amanti – disse l'altro sorridendo del motto – ; ma essa ha nome Domitilla.

Don Alfonso n'aveva imparato abbastanza, e dissimulando quel che pativa dentro, volle sapere di piú: chiese piú cose, e infine che cagione si fosse data in Parma alla sua rissa co 'l Palmenghi. – Che l'uno di voi era geloso dell'altro, o che Domitilla spinse l'uno a liberarla dell'altro. Ma un terzo ha goduto.

Cadutagli la benda dagli occhi, don Alfonso credé scorgere anche oltre la verità vera. L'amore della dama per lui era dunque stato uno svago, un sollazzo cominciato colla bugia del nome ambiguo che quella, cosí per gioco, aveva assunto, e proseguito per una tragedia fino al tradimento: già prima d'avvolgere lui in quegli inganni ella forse amava Gabrio! Forse questa era stata la pena segreta che un tempo aveva sorpresa in lei! La rivedeva, adesso, come nel giorno che gli aveva detto d'amarlo, lagrimosa, e come nella sera della dedizione, vittoriosa e vinta; la vedeva, lei che gli aveva accesa nelle vene la febbre della voluttà, fremere ora di voluttà tra le braccia di Gabrio, obliosa, sorridente, perfida.

Cercò imagini diverse: Gabrio che cadeva ferito sanguinando e Domitilla che gemeva nella solitudine d'un chiostro; e meditò la vendetta, la preparò con brama feroce, la pregustò con gioia feroce.

Il conte e la contessa Gabrii tornavano una sera dalla loro villa a Parma, quando, a una svolta della strada, un uomo tese il braccio armato di pistola verso il cocchio.

– Gesummaria! – fece a pena il conte, ricevendo il colpo.

Chi aveva tradito l'amicizia s'era meritato di morire; chi aveva tradito l'amore meritava di vivere, sola, nel rimpianto e coi rimorsi.

IL POLSO

Sec. XVIII

Difficile dire se il conte La Fratta amasse piú sé medesimo o la marchesa Arnisio; ma giacché per acquistarsi dal mondo la lode di cavaliere perfetto nella stima di lei e per secondare gli stimoli del cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una dama cosí mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo sé stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava l'Arnisio.

A dire il vero a sua scusa ella esercitava tuttavia su lui l'attrattiva dell'ignoto e del nuovo, la virtú quasi d'un fascino arcano, quantunque, a dire il vero, egli in un anno n'avesse conosciute molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che le piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d'ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand'ella aveva l'emicrania – ed era spesso – , l'esperienza e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi e ai discorsi d'entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante e a lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sí, sempre sí.

Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva: se la marchesa avesse il cuore o non l'avesse. "L'ha o non l'ha?" egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno piú nella ricerca dell'ignoto n'era piú avvinto dal fascino e ogni giorno piú s'innamorava della dama e di sé medesimo perché con sua gloria resisteva a servirla.

Finalmente l'Arnisio agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate cosí lunghe e sentimentali ch'egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il cuore l'aveva. Né il cuore della marchesa doveva battere per altri che per lui, il quale da un anno la serviva con cura paziente e con indulgente costanza: non per altri. Ond'ecco La Fratta a studiare di quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto della marchesa Arnisio, perché ella non aveva con lui quelle espansioni compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o spontanei di gelosia che tutte le donne amando o fingendo d'amare sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò cosí i suoi occhi e il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che, ahimè!, troppo credette d'apprendervi.

 

Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse cagione non solo dall'indole sua bizzarra, ma da un intimo, segreto travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta dicevan forse il suo spirito smarrito dietro un'inafferrabile bene, finché con uno sforzo mal nascosto di volontà non le riuscisse di riaversi o mentire, e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa; l'assiduo disturbo dell'emicrania, invece che la simulazione d'un malanno alla moda poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma piú tosto non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e sentimentali, neanche potevano essere tardi e magri compensi alle fatiche della sua servitú, ma tutt'al piú erano segni di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l'ho, oh se l'ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene: il conte La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce:

 
Se piú felice oggetto
Occupa il tuo pensiero,
Taci, non dirmi il vero,
Lasciami nell'error.
È pena che avvelena
Un barbaro sospetto;
Ma una certezza è pena
Che opprime affatto un cor;
 

no: i due amori, l'uno della dama e l'altro di sé, che premevano l'animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad accertare la verità; l'uno, perché chi è innamorato talora dubita a torto; l'altro, perché, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di cavaliere di spirito.

Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d'un patito che con zelante servitú e con dabbenaggine inconscia riparasse l'amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque, la marchesa amava qualcuno di quelli che le farfaleggiavano intorno, il quale, come minore di lui, ella non potesse assumere a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa; e come anche non pregata essa l'avrebbe lasciato nel dubbio, ed egli non voleva restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna era l'Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva il predominio di sé medesima; né mai, appuntando i suoi sospetti su questo o su quello che a lei fosse dintorno, il conte riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto, fosco, quasi spaventevole, e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a diventare ridicolo.

Ond'eccolo a richiedere di consiglio l'abate Fantelli: un abate di umore giocondo e di mente arguta, e caro a tutte le dame di cui conosceva le corde piú sensibili al tocco delle sue allusioni e de' suoi frizzi, né men caro agli amici, cui giovava d'esperienza e di senno.

L'abate consigliò: – Tastale il polso.

E La Fratta non comprendendo, quegli aggiunse: – Né i palpiti del cuore né i battiti del polso si possono frenare. Allorché ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà piú forte e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà piú in fretta e tu potrai sentirlo.

Al conte questa parve un'invenzione mirabile; e l'abate continuò: – Non si falla. Però ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza.

– Son cavaliere – rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.

Essa, all'entrare del conte, era abbandonata su 'l canapè con la testa reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi: ai passi lievi dell'amico non si mosse, e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua destra rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.

– L'emicrania, eh? – domandò La Fratta.

– Sí – rispose ella in tono flebile; e La Fratta sospirò triste pur godendo d'un'emicrania almeno quel giorno opportuna a' suoi fini.

– Chi l'avrebbe detto ierisera? – proseguí egli, non per rammentare il tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Nondimeno ebbe prudenza e chiese ancora:

– Desiderate un po' di melissa?

– Sí – ripeté la marchesa, perché di prammatica quel giorno era il sí: trasse un breve sorso dalla boccettina che l'amico le accostò alle labbra, e respinse tosto la mano dell'amico.

Ma – Che sguardo febbrile! – disse questi prima ch'ella riabbassasse le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente.

Toc… toc… toc…: nelle arterie, che rigavano d'una trama azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando all'avambraccio in misura placida ed uguale.

– Chi l'avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino). Corgnani giurava di perdere a tarocchi perché lo costringevate a guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d'avervi ravvisata a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi proclamò che niuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il paspié. E ristando, per prudenza: – No – disse – non avete febbre – . Pure, come piú d'una volta aveva profittato dell'emicrania per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, trascorsa con lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi, con abile arte poté nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il polso palpitava sempre uguale e placido.

«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La Fratta a sé stesso. «Quello non può essere; proviamo quest'altro.»

E proseguí nell'esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto sinché ebbe camminata invano la via che si era proposta. Oramai retrocedeva; s'ingarbugliava in nuove ipotesi; s'imbrogliava in nuovi dubbi; infine s'appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:

– Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l'Arboldi: sdilinquiscono tutt'e due, il duchino e vostro marito.

Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse: gli era parso; ma non era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente. Per altro la marchesa era sí strana…

– Io credo – riprese egli – che l'Arboldi non preferirà quel bamboccio a un cavaliere qual è vostro marito. – Non c'era piú dubbio! La marchesa amava il duca, amava – strana donna! – il frutto acerbo; e il polso che aveva confessato era lí pronto a ripetere la confessione. Per prima vendetta il conte voleva discorrere e burlarsi del duchino affinché, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o, magari, piangesse, svenisse. Ma il sangue nell'arteria rifluí placido ed uguale, e solo allora trasecolando La Fratta ebbe un'idea, un lampo, quasi un fulmine: – il marito?!..

Già: a parlare del marito e dell'Arboldi il polso precipitava, martellava, scottava. Come scottato, il conte abbandonò il braccio della dama e balzò in piedi: stupito, stordito non sapeva piú che si dicesse. Diceva:

– Ma dunque, se l'abate Fantelli… No: non è possibile! – E quando si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserí:

– Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, è vero?

– Sí – rispose la dama; ma poteva essere il sí di prammatica.

– Siete innamorata di vostro marito: è vero?

La Fratta s'aspettava una risata dinegatrice, ma la dama, la quale, meravigliata anch'essa, era per gridare – Chi ve l'ha detto? – , ebbe tant'ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e sentí tant'odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.