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In faccia al destino

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– Appoggi! appoggi! L'idea del cavaliere è buona.

Ma segretario e sindaco, poveri ingenui, ignoravano che cosa meditava il cavaliere! (Alle prossime elezioni…) Intanto essi favorivano. E il comitato presieduto dal cavaliere si mise a raccogliere soci; e un comitato di signore s'adoperava ad accumulare premi che rendessero più gloriosa una gara di tiro nel dì solenne.

Se non che non cessavano le battaglie nella famiglia Fulgosi e nelle vicinanze. La signora Fulgosi dubitava che la cameriera attirasse il marito in paese e faceva ancora volar le spazzole. Inoltre al signor Learchi padre bastava, per politica, bere, mangiare, pipare e predicar la castità ai rondoni…

Diceva: – Cacciatore è chi va a caccia; io a caccia non ci vado; quindi del suo club, stimatissimo signor cavaliere, non so cosa farmene. Religione ci vuole! Altro che caccia!

A parte la religione, l'ingegner Moser non andava più a caccia; l'ingegner Roveni non aveva tempo di andarci; Sivori – l'illustre pensatore – che cosa poteva cacciare? Eppure eran stati dei primi ad associarsi. Perchè? Per vantaggio del paese, per amor della patria tutta!..

… In uno di quei giorni in cui si faceva scarrozzare a spese del futuro club, il leggiadro cavaliere piombò alla villa mentre io ero con Ortensia ed essa stava leggendo.

– A quelque chose malheur est bon! – egli disse entrando nella sala. – Dolentissimo di non aver trovato l'ingegner Moser…

– Il babbo non torna che domattina – l'interruppe Ortensia.

– Me l'ha detto la signorina Marcella… Felicissimo però, se non disturbo, di mettermi al coperto e trattenermi in così amabile compagnia. Come vedono, torniamo da capo. – Poi in accento toscano: – Il tempo si rimette… a piovere, Dio bonino!

Sorgeva infatti un nuvolone nero.

– La signorina leggeva? Ah! Dickens! Lo conosco poco, a dire la verità. Non è uno de' miei autori. – E strizzandomi l'occhio: – Io preferisco De Koch.

Gli chiesi:

– Come va il club?

– All right! – Mi prese a braccio per susurrarmi in modo che Ortensia udisse: – Bisogna persuadere l'ingegner Moser ad accettare la presidenza effettiva.

– Saremo invitati anche noi alla festa? al banchetto? – domandò Ortensia.

– Invitate, sì: diavolo! Ma banchetto, no! Un lunch

– Con molte paste!

– … e farewell!

– Chi fa il discorso?

Sorrise.

– Forse io…; si capisce: per non urtar nessuno, al 20 settembre, ci vuol tatto, savoir-faire.

E poichè tuonava:

– Niente paura! Sempre non è seren, sempre non piove!

Ma Eugenia e Marcella chiamavano

– Ortensia! Ortensia!

Marcella correva al piano di sopra ove il vento sbatteva vetri e finestre.

– Una nuvola che passa! – garantì il cavaliere seguendo Ortensia, che usciva, con gli occhi mollemente pecorini. – Quindi scosse il capo per asseveranza a quanto diceva. – Sempre più bella, quella ragazza! Ce ne sono delle più belle?.. Grazie! Ma bellezze che non dicono niente; Ortensia invece… che simpatia! che charme! Eh eh! Il mio Pieruccio non aveva poi tutti i torti… Solo, alla sua età le ragazze sono pericolose; meglio le signore, per imparare ad amare. Laggiù a Varezze non gli mancherà occasione di far pratica, a quel ragazzo!

Una pausa. Eppoi:

– Tornando a Ortensia, beato lei, dottore!

Io, che guardavo fuori, al tempo, mi rivolsi con un'occhiata feroce. Ma egli continuò:

– Lei è un uomo superiore ad ogni sospetto, superiore in tutto. Su di lei non è possibile far malignità, è inutile fin ripetere: Honny soit qui mal y pense. Voglio dire che lei può gustare tutta l'amabilità della signorina senza dar la minima ombra; la loro è un'invidiabile amicizia, un'entente semplicemente cordiale. Però mi consenta dirle anche che se Ortensia avesse solo qualche anno di più…

– Lei scherza! – feci io, aspro.

– Non scherzo niente affatto! Che a lei questa mia idea non sia venuta, è naturale, perchè lei è un uomo superiore. Ma per me, non ci sarebbe niente di strano; anzi ci sarebbe da rallegrarsi d'un così bel matrimonio… fattibile, ora aggiungo, fattibilissimo pur con la differenza di età che ci corre fra la signorina e lei.

Non scherzava il cavaliere, e che piacere mi fece!; come di una gratissima improvvisata. La mia antipatia per lui finì d'un tratto. Non era un uomo sagace?

– Che acquazzone! – esclamai.

– Una nuvola che passa. Ma senta: un mio amico, il commendatore Fiscaglia, ha sposato, a cinquant'anni, una ragazza di ventidue; e sono felici, con un bel maschiotto… La questione sta nella scelta; nel volersi bene…; purchè, intendiamoci, si sia ben portanti e sani…

Trasse l'astuccio dello specchietto, e pareva dire: «Se io fossi vedovo!»

– Lei, dottore, non ne conta cinquanta delle primavere. Quante ne conta? Trentasei, trentotto? Ebbene, francamente, senza complimenti, per la pura verità, se io fossi nella signorina Ortensia io non esiterei un istante nella scelta, tra lei e…

A questa parola di «scelta» io mi era rivoltato d'improvviso, fissandolo non so come; come chi aspetta una cosa inaudita, come chi minaccia un guaio a un incauto.

Ma il cavaliere aveva già preso lo sdrucciolo, e sebbene avvertisse il passo falso dovè tirare innanzi.

– … non esiterei nella scelta tra lei e l'ingegnere Roveni.

Roveni?.. Ero pallido, immoto nella persona e nello sguardo. Il mio stupore, forse più che altro, esprimeva il dolore profondo d'un animo generoso colpito a tradimento. E al dolore sottentrava irrefrenabile lo sdegno.

Con il presentimento di una battaglia più dura di tutte le altre, il cavaliere aveva tolte dall'astuccio le sole armi che potessero levarlo d'imbarazzo: lo specchietto e il pettinino; e con tutta la disinvoltura che potè assumere, con la più tenera occhiata de' suoi occhi pecorini, con l'ingenuità di chi spera ancora di riparare dopo averla fatta grossa:

– Che sia poi vero quello che si dice? – domandò.

Io l'investii:

– Si dice?..

Più pallido di me, tenendo il pettinino nella destra e lo specchietto nella sinistra, a mezz'aria:

– Non assumo alcuna responsabilità – mormorò: – Nessuna responsabilità delle chiacchiere altrui… Si dice, dicono, lo dice anche la mia signora, che la signorina Ortensia sposerà… l'ingegner Roveni.

Stavo sempre immobile, quasi aspettando ancora. L'altro, al mio silenzio, si smarrì del tutto, precipitò sino in fondo.

– Sarebbe un matrimonio già combinato…

Allora io gli gettai in faccia una sola parola:

– Sciocco!

E tornai a guardare il cielo. Fremevo, cieco d'ira; tremavo; non vedevo più l'altro, che balbettava:

– Ma… ma… dottore… È un'offesa…

Ancora tacqui. Durante il nuovo silenzio freddo e pesante il poveromo si chiedeva che cosa gli restasse a fare. Intascare l'astuccio… E poi? Mandarmi i padrini. Se no, la dignità del futuro sindaco di Valdigorgo correva un rischio terribile. Un gentleman a rischio di parer vile! Ma, d'altra parte, urgeva non comprometter la pelle. Che fare, dunque? Ah l'ingegnoso diplomatico che trovata ebbe!

Arditamente e solennemente disse:

– Dottor Sivori: lei mi ha offeso; lei ha offeso… un vecchio!

Quasi disperato, per salvarsi, riconosceva ciò che altrimenti gli sarebbe stato più grave di ogni insulto: si confessava vecchio!

Ma non solo per questo io ruppi in una risata ironica, mentre Ortensia stava per rientrare…

E a veder Ortensia, il cavaliere, come ricuperasse l'anima che il mio riso respingeva su l'abisso, con uno sforzo sublime di spirito, mi lasciò, andò alla volta della ragazza, e varcando la porta salutò franco:

– Au revoir, signorina!

XV

– Il signor Oliviero mi piace! mi piace molto! – disse Ortensia riprendendo il romanzo e rimettendosi al solito posto, contro alla porta della terrazza.

Ancora su la soglia di quella io le voltavo le spalle, impietrato sotto il peso della cosa enorme: l'amavo!

– Dove siamo rimasti, Sivori?.. Prego! Stia attento qui, adesso. Il mondo non casca più e il cavaliere, grazie al Cielo, se ne è andato!.. Au revoir!.. Ah! ecco dove eravamo… Senta dunque.

Riprese a leggere. Io non osavo riguardarla. D'un tratto, la guardai… in piena luce; nella luce d'una beltà divina. E non era più come una sorella… Destinata in moglie a Roveni… L'amavo! io l'amavo!

Tumultuarono in me, sotto il peso della cosa enorme, in quella luce di rivelazione, sentimenti mal definiti e violenti: gelosia; rabbia quasi per una sanguinosa offesa; dolore quale di chi patisce il furto di ciò che ha più caro…; strazio: Ortensia mi aveva ingannato! Tutto quel tumulto, tutto quel peso enorme mi travolse come nella rovina estrema della mia esistenza; mi sconvolse e mi oscurò il pensiero intorno a un'idea sola, superstite, viva e fugace come un lampo: ucciderla! Con una mano afferrai la porta della terrazza, mi trattenni colla sensazione di chi si afferra a uno sterpo sul lembo di un precipizio, con la sensazione che avevo provata un'altra volta, al folgorare nella mia mente di quella stessa idea; ma il mio terrore fu vinto da quello sforzo, fu convertito quasi in una muta ilarità, che mi si agghiacciò in faccia.

Ortensia, al volger d'una pagina, disse:

– Basta, signor Oliviero!; sono stanca. – Poi: – Che è stato? – esclamò balzando in piedi. – Il sorriso brutto! Perchè?

Proruppi:

– A questo mondo tutto è possibile! Ogni errore, ogni colpa, ogni vigliaccheria, ogni infamia! È fin possibile che tu m'inganni; che tu sia falsa!..

Alle mie parole subito il volto di lei dimostrò uno stupore così doloroso, un'angoscia tale di ingiusta accusa, che fui costretto a contenermi, pentito, dall'eccesso della passione. Ella domandava:

– Perchè mi dice così?

 

Era atterrita

– Non spaventarti – risposi con viso diverso ma con sorriso sempre ironico. – Una nuvola che passa… Ho appreso una bella notizia… Solo, mi è spiaciuto apprenderla da altri, non da te.

– Quale notizia?

– Che l'ingegner Roveni… forse o senza forse…

– Anche lei! – m'interruppe riavendosi e tendendomi un dito agli occhi, al modo di Mino quando incolpava qualcuno. – Anche lei?! Da lei, questa, non me l'aspettavo! No, no! non me l'aspettavo! – essa ripeteva sdegnata.

Triste io, e incauto, procedetti al solo rimprovero che potevo muoverle:

– Però tu hai detto: «anche lei!» Dunque molti lo dicono, e io non lo sapevo! Io non sapevo quel che sa il cavalier Fulgosi!

– Non è vero! Non è vero! – esclamò battendo i piedi.

Ed io a insistere, immiserendomi nel mio stesso affanno.

– Vero o non vero, io non lo sapevo!

Stette zitta un po', e poi disse:

– Senta: lei mi rimprovera che non rifletto, che sono sventata… Ha ragione. Ma lei di me ha molta stima; ha molta fiducia in me; ne sono sicura! Non sono come Anna io, per lei!.. Bene! A venirle a dire: Sa? Dicono che Roveni vuol sposarmi…; non è vero ma lo dicono…; a venirle a dir questo, mi sembra anche adesso che sarei stata come Anna. Anna avrebbe potuto dirle così, e ridere. Io no; io non ho potuto! Mi crede? Non ho potuto! Non so spiegarmi, ma mi pareva una cosa sconveniente. Ah se fosse vero quel che dicono; se Roveni mi facesse la corte (nella frase di prammatica arrossì, rivelandomi in quel pudore gentile forse la miglior ragione del suo silenzio)… se fosse vero, gliel'avrei detto subito. Ma non è vero! – ripeteva alzando ogni volta più il tono della voce – ; non è vero! non è vero! E vuol sapere il perchè non è vero?

Io non avevo ancora assentito che già ella si correggeva:

– Non posso dirglielo, il perchè; è un segreto.

– Un altro segreto – mormorai.

– Non mio: della mamma. Ma via! a lei si può confidare. – Susurrava:

– Presto, quest'altr'anno forse, Roveni se ne andrà. Capisce? Il babbo non deve saperlo; almeno per ora…

C'era tanta sicurezza, franchezza e sincerità nelle sue parole! Tanta ingenuità! Ed io, che potevo far io se non sforzarmi a dissimulare, a mentire?

– E se tornasse? – domandai, comprimendomi dentro il peso dell'infingimento in cui mi avvilivo. – Potrei io desiderarti un giorno, se tornasse, sposo più degno?

Allora essa volse in burla la domanda patetica.

– Oh no! Un buon giovane! un bravo giovane! un bel giovane!.. Che partito invidiabile! Tornare, chi sa di dove, a Valdigorgo per sposar me! E quanti confetti! ma pare di vederli, di mangiarli!

– Io non scherzo!

– Io sì.

Ella aveva assunto qualche cosa della mia amara ironia. Ma diceva la verità… E che bene mi voleva!

Rasserenata, proseguiva:

– Lei, quando è di cattivo umore, va a cercare con la lanterna tutte le ragioni per far inquietare anche me. Basta! basta! non ne parliamo più! Le perdòno. E che ne dice di Roveni? Andarsene; lasciare il babbo… Me ne dispiace molto per il babbo. Per me, stia pur certo Roveni che non piangerò quando partirà. Avrò dispiacere, ma piangere!.. Anna piangerà; che ne è innamorata cotta!

Era sincera. Ella non amava Roveni e voleva un gran bene a me. Ma a me tanto bene non bastava più!

Che giorno fu quello! Appena fui solo, mi parve ancora di precipitare nel considerar di nuovo la cosa incredibile e vera, ridicola e tremenda. O meglio, mi vidi in un labirinto angoscioso e senza uscita; mi vidi goffa vittima d'un mio proprio inganno e miserevole vittima d'inganni altrui; vidi come io – che odiavo la menzogna – d'allora in poi avrei dovuto mentire e come a me, stanco d'ogni finzione, sarebbe stato necessario nascondere segretamente, per tutti e per sempre, il mio errore, la mia colpa, la mia vergogna; vidi che per guarire d'un male, per cui non avevo cercato e trovato a rimedio la morte, ero caduto in un maggior male, onde avrei dovuto essere più forte e sarei stato più vile! Io l'amavo!: questa la verità rivelata d'improvviso, a me stesso, quasi per uno strappo, dalla notizia che già Ortensia poteva essere amata da un altro; e non più da un ragazzo: da un uomo quale Roveni. Io avevo trentasette anni ormai; Ortensia diciassette; e l'amavo! Io avevo desiderato la morte, desideravo la morte; e amavo, io, Ortensia! L'amavo come non avevo mai amato. E la coscienza del mio amore, della mia colpa, della mia demenza, del mio tradimento, della mia vergogna m'era venuta dal più torbido fondo della passione: la gelosia. Poteva esser vero che Roveni non l'amasse; ma, ad ogni modo, ella non avrebbe dovuto essere amata da nessun altro che da me! Io già ingelosivo del suo avvenire!

E che sarebbe di me se io non sapessi mentire e fingere? In che condizione mi mettevo con Claudio? con Eugenia? con la mia coscienza? Avvertendo la mia follia, avvertivo l'oscuro presentimento d'un delitto o di una tragica catastrofe, inevitabile. Comprendevo fin d'allora che sarei dovuto fuggire subito, anche per pietà di me. Fuggire? Ma io non scorgevo più che due termini a un imminente, lungo, incommensurabile, sconosciuto soffrire: o la felicità o la morte! E la felicità non era assurdo pensarla? Il cavalier Fulgosi non sapeva che non solo la differenza di età mi divideva da Ortensia. Non avevo una fede, io! Non avevo fede in me; e l'amore non basta alla felicità; e renderei infelice Ortensia perchè sarei sempre un uomo infelice! Dunque: fuggire! Non udir più la sua bella voce; non rivederla mai più! Andrebbe sposa… E perchè non a Roveni?

Possibile che in quel che si diceva non ci fosse nulla affatto di vero? Ma Eugenia non me ne avrebbe detto nulla? Mi sembrava che io e Ortensia fossimo avvolti in un mistero; e poichè nei frangenti della passione anche ciò che accrescerà il male assume spesso l'illusione di un bene, mi parve che chiarir il mistero potesse alleviarmi il nuovo tormento. Ma perciò dovevo dissimulare, fare il disinvolto, osservare freddamente… Non ci riuscii.

La sera Roveni, entrando, guardò al solito modo; ma Ortensia non era vicina a me. Tentava di persuader Mino a ubbidire. Oh come ho viva nella memoria questa scena!

Quando aveva più sonno Mino si ostinava a star alzato, e la vecchia cameriera lo chiamava invano. Quella sera egli pretendeva che l'accompagnasse Ortensia. Nascondeva il viso nella poltrona piagnucolando e sgambettando contro tutte le sollecitazioni del pubblico; anche contro di me.

– Voglio Ortensia!

Finalmente Eugenia, stanca, minacciò di chiamare il padre.

Presto!..; il babbo arrivava; su, Mino: eccolo!

Tacque un po' e quindi, forse più per il rimorso che per il timore d'un castigo, si gettò al collo della sorella rompendo in un pianto ch'era invocazione di pietà. E Ortensia impietosita se lo caricò in braccio.

Ah io vidi lo sguardo che Roveni posò su di lei, mentre ella usciva col fratellino in braccio! Era vero! Ah come dileguò allora l'ombra che già avevo notata nel suo sguardo! Come l'amava! Cieco io ero stato, cieco a non accorgermene prima! Io vidi e invidiai come l'amava: d'un amore sano, perfettamente umano, anticipandone a sè stesso le migliori gioie. Aveva guardata in lei la sua donna; la moglie che portava in braccio così un loro figliolo. Quanto affrettava nella sua speranza quel giorno! Quanto gli rincresceva che per la sua stessa felicità avvenire, per prudenza e sagacia, non potesse comunicare quel suo gioioso pensiero a Ortensia! Con che cuore accresceva di due anni, di un anno la giovinezza di Ortensia! Non farneticavo; comprendevo tutto, ora… Certo a Roveni doleva di abbandonar Moser per cercare la sua fortuna, che poteva mancargli. Che azione avrebbe dunque commessa innamorando di sè e abbandonando la figlia del suo benefattore? Ah, costui che dominava in sè, così, le due più forti passioni umane: l'ambizione e l'amore, costui era un uomo! Io non ero stato cieco ma egli, egli usava di una meravigliosa forza a dissimulare; e chi dissimulava così doveva esser capace di una passione grande! L'ammiravo e l'odiavo. Era il nemico che mi feriva a morte, e l'ammiravo e sentivo, più virile, la bramosia di misurare la mia forza con la sua in un contrasto violento. Ma non dovevo; egli doveva restare il più forte! Pure, potevo dirgli: «Voi credete che io non abbia gli occhi? Gli altri per pettegolezzo, sapendovi nelle grazie di Moser, han conchiuso nella loro fantasia il vostro matrimonio, senza saper nulla in realtà. Io so, io ho visto quanto l'amate! Non dissimulate almeno con me: voi!»

E mi accostai sorridendo, coll'intenzione di domandargli:

– Dunque, è vero?

Ma subito, presso a lui, mi sentii a disagio.

Con tanta tranquillità mi guardava; era così fermo il suo volto, così saldo l'animo in quel volto, che la simulazione mi sembrò onesta in lui e disonesta, vergognosa, in me. Inoltre, di subito, giudicai inopportuna la dimanda che stavo per fare. Venendogli da me, la richiesta acquisterebbe troppa gravità e precipiterebbe l'evento temuto; la risoluzione che egli, per sue buone ragioni, ritardava.

Mi aspettò tranquillo dicendomi, quasi per risalutarmi:

– Dottore…

E dietro di me una voce, in tono di canzonatura, imitò quel saluto: – Dottore…; ingegnere…

Uno sdegno più forte di quello suscitato in me dal cavalier Fulgosi provai allora contro la Melvi; una smania di vendetta quasi fosse lei e lei sola colpevole del mio soffrire. Le chiesi, tra ironico e minaccioso:

– Ha bisogno della mia compagnia o di quella dell'ingegnere?

Anna si era appoggiata a un tavolino, su cui ardeva una lampada, e dava la caccia a una farfalletta che svolazzava intorno al lume.

Rispose arditamente: – La sua compagnia è troppo seria, per me!

Roveni fece: – Oh oh!

Io mi accostai alla Melvi; e mentre ella bruciava la farfalla alla lampada, dissi per provocarla:

– Essere troppo serio per lei non significa che io sia molto serio!

– E questo vuol dire che io sono così allegra… che non dovrei prendere sul serio nemmeno lei? nemmeno un poco?

– Un poco, via! Se non per altro, per la mia abitudine di indagare nell'animo della gente, di scrutare i cuori umani.

– Indaghi, dottore; ma badi che i medici van soggetti a sbagliare. Fan certi spropositi!.. Per esempio, lei, che legge nei cuori, non si è ancora convinto che dovremmo essere amici noi due e non nemici! Gliel'ho detto un'altra volta.

Già: me l'aveva detto di ritorno dalle Grotte; e allora aveva data spiegazione diversa da quella che era stata per dire.

– Si spieghi meglio! Perchè dovremmo essere amici?

– Indovinala grillo!

E fuggì dalla porta della terrazza, da cui si scendeva nel giardino, evidentemente per attirarmi là a discorrere. Non la seguii; vidi Ortensia rientrare dalla porta opposta: Roveni, che stava ciarlando con la Fulgosi e la vecchia Melvi, si voltò di scatto. Un altro non si sarebbe voltato. Ma ecco Anna rientrare anch'essa, di corsa, trafelata e ridente perchè inseguita da Guido. Entrò nel salotto attiguo; ove si abbandonò su di una seggiola.

– Lasciala stare! – dissi a Guido. – Ho da parlarle.

Andai risoluto, chiudendo l'uscio dietro di me.

– Voglio sapere chiaramente perchè io e lei dovremmo essere amici!

Ella attese un poco, eppoi agitò incontro a me le mani strette a palma a palma, come per preghiera ed esclamò:

– Ma insomma! sono io che non capisco niente, o è lei? Ha piacere lei che Roveni sia innamorato di Ortensia? No, a quel che pare! Ebbene (e allargava le braccia alla spiegazione che mi concedeva): lei dovrebbe essermi grato se io cerco distrarre Roveni e di liberargliela, la sua Ortensia!

Insolenza, disprezzo, livore, erano in essa.

Il cavaliere mi aveva adirato soltanto; costei sommoveva in me l'astio profondo dell'uomo svergognato, dell'uomo messo alla gogna; addensavo la mia rabbia, la mia bile per una pronta vendetta che, fosse pure indegna, mi riscuotesse subito da una umiliazione intollerabile.

Tesi il braccio e la mano verso la ragazza, quasi ad arrestarla perchè il colpo non fallisse.

– Chi non capisce niente è proprio lei, signorina Melvi! Lei, che non capisce di poter dire a me «la sua Ortensia» senza ferirmi. Sì: Ortensia è mia; ma in un senso che sfugge alla intelligenza della malignità!

– Malignità? Poverino! Dal modo con cui lei or ora guardava a Roveni…

– E chi invece capisce qualche cosa sono io, proprio io! – proseguii interrompendola: – Io, che ho capito il suo gioco!

– Ah sì? Quale?

– Questo: Roveni è un uomo leale, ma confinato a Valdigorgo, lontano dagli svaghi che calmano il sangue. Che importa se è innamorato di un'altra? Per lei basta che egli abbia uno smarrimento istantaneo… quando va a trovarlo alla fabbrica! Roveni è onesto: dopo, sarà costretto a riparare! Ecco perchè io e lei siamo nemici!

 

Anna si era alzata in piedi con la veemenza di una fiera frustata. Dubitai m'affrontasse rabbiosa. Ma la fiamma delle guance e degli occhi si spense d'un tratto; e rimase bianca, con le labbra tremule. Indi sorrise, scosse le spalle dicendo:

– Me ne infischio!.. – Ma aggiunse con un'occhiata di ricuperata energia e di minaccia: – Per ora!..

XVI

Risi della minaccia di Anna perchè dalla scienza non avevo imparato a temere la vendetta delle donnicciole, nè mi dolsi d'aver inveito in tal modo contro di lei perchè l'odiavo: l'odiavo per la sua condotta equivoca, per essere stato accertato da lei dell'amore di Roveni, per essere stato ferito da lei, nonostante il mio diniego, nel mio amore. Ma se mentre vegliavo, nella notte, non mi agitava più il pensare ad Anna, mi travagliava il pensiero che altri sguardi d'amore si fossero posati su di Ortensia prima de' miei: questo il mio dolore, il mio sdegno, la mia rabbia, come per una violazione patita, per un furto crudele! – L'anima d'Ortensia – mi dicevo durante l'ambascia – deve essere mia, divenire interamente mia: a ogni costo!

Non era giusto che fossi io la vittima; che per tutto trovassi dolore, io; che dal destino fossero contaminate le mie intenzioni più pure, i miei affetti più semplici, innocui, generosi!

Ah io avevo errato a credere in un affetto di misura e di natura fraterno? In me, in un uomo della mia età quel concetto e quella fede di un affetto fuori dell'ordine umano meritavano rimprovero o scherno? Io meritavo compianto! E se Ortensia, non esperta del cuore umano, aveva consentito ingenuamente a quell'affetto semplice e naturale, ebbene io sapendo che il suo affetto era già teso all'estremo grado, non esiterei…: ancora un passo, una parola sola, e io farei vibrare d'amore quell'anima! Perchè ristare? Non era una colpa che io avessi vent'anni più di lei, e a nessuno, non al Fulgosi e nemmeno ad Anna, pareva inverosimile che io l'amassi e ne fossi amato. Io potevo contare ancora quattordici o quindici anni di forte virilità. Sano, ero. Quante infermità psichiche sono generate da cause che non toccano gli organi essenziali? In una appunto, per cause estranee alla fisiologia, era pur io caduto; ma già me ne sentivo risollevato.

Non mi temevo più in preda d'un misterioso male, io, che altro malanno non avevo avuto se non il mio pensiero; io che un semplice affetto era bastato a guarire! Del resto, mi sarebbe facile accertarmi della mia valida costituzione recandomi da qualche insigne collega, di cui indovinavo il responso, dopo l'ascoltazione e la percussione: «Cuore sano; polmoni sani; cervello sano…; nessuna lesione nel cerebro»: di questo potevo star certo! Nessun ostacolo nell'età o nella salute fisica. Non ero ricco; nè uomo da affidare la mia famiglia e la felicità famigliare alla dote di mia moglie. Ma troverei senza dubbio un buon impiego; tranquillo; di lavoro materiale e agevole…

Esagerando, per la rivelazione improvvisa del mio amore, avevo accusato in me quale fonte d'infelicità la mancanza di una fede. Ma alla fede perduta sostituirei la fede in Ortensia e l'amore della famiglia. Dalla fredda ragione il mio amore non ripugnava dunque più come un'enormità; io potevo dunque conchiudere che per nessuno al mondo sarebbe inverosimile, anormale, enorme, un mio colloquio con Moser press'a poco in questi termini:

– Moser, sono innamorato.

– Bene!

– … d'una ragazza di diciassette anni!

– Di una ragazza di diciassette anni? tu?

– Sì!

– Annegati, caro amico!

– Ma bada…: la ragazza è Ortensia.

Un istante di stupore; di silenzio; uno scoppio d'ira.

– Ortensia è una bambina!

– Ha diciassette anni.

E la risoluzione:

– Ortensia è tua moglie!

Sarei felice!

Già m'immaginavo il delizioso turbamento di Ortensia, quando chiederei la sua mano… E mi smarrivo così nell'ebbrezza della felicità, nel sogno. Per quanto?.. Viva, imperiosa, sicura, mi si affacciava d'un tratto la persona di Roveni. E balzavo, d'un tratto, nel confronto di me con Roveni; poichè dovevo anteporre, alla mia, la felicità d'Ortensia; considerare, come un fratello, s'essa sarebbe più felice o meno infelice sposando me o lui… Che differenza! Egli era un forte, un conquistatore della vita, un uomo a cui la fede di sè e l'equilibrio di tutte le facoltà, davano in pugno l'avvenire. Io invece…: un caduto a stento risorto; un debole imbaldanzito dalla speranza e nel sogno; un infermo che a mala pena aveva ricuperato la salute.

Sì? Ero guarito? io? un uomo di trentasette anni che amava perdutamente una giovinetta minore di vent'anni?

Del tutto dissennato, piuttosto! Ridicola vittima di un amore quasi senile in confronto all'amore di Roveni; ridicolo più di un ragazzo…

Eccomi, dinanzi agli occhi, anche Pieruccio Fulgosi: magro e pallido, soffocato dal colletto e dall'amore e impalato a contemplar Ortensia; con quegli occhi imbambolati e il sorriso ebete allorchè io lo deridevo, o quando egli s'accostava timidamente a me per ingraziarsi: «Permette»; «scusi»… Egli soffriva, chè aveva tutti ostili, e l'incuranza di Ortensia gli acuiva lo spasimo di un amore senza speranza; dell'amore sublime che accende l'animo quando, nell'adolescenza, la vita conserva tuttavia il velo di un divino mistero e la lusinga di una felicità fatale; dell'amore che io avevo schernito vilmente. Ma io soffrivo più di lui perchè ero più ridicolo di lui; pativo in me, più dura, dell'irrisione altrui, la mia propria irrisione; avevo più angosciosa che l'indifferenza d'Ortensia, la necessità di nascondere a Ortensia il mio amore quasi una colpa. Questo dunque era il benefizio atteso dal proposito di impicciolirmi e di ricuperare in me, da tenui fonti, la vita? Ma non stavo meglio quando dall'apprensione dell'immensità ero precipitato in un morboso annientamento, a non sentir più nulla? Qual destino, qual maledizione m'aveva risospinto a giocare e raccontar favole con Mino, a riconoscere la gioia dell'esistenza nell'anima fervida di Ortensia, a ricercare il sole?

Il sole! Oh il sublime ristoro del dì che avevo sentito il sole innondare tutto il mio essere, penetrarmi in ogni vena, riscaldarmi le vene e rischiararmi la mente perchè nella sua luce io vedessi la luce di Dio, che la scienza mi aveva contesa, negata! Dio! Era Dio forse a volere che io amassi così? Amassi Ortensia perchè amassi la vita? Dio forse mi chiamava alla felicità, o mi puniva al punto che non mi comprendessi in balia di una frenesia morbosa?

Fra questi estremi mi dibattevo: o credermi pazzo, o credermi risollevato pienamente, con l'amore e per l'amore, alla norma più umana della vita, e alla più alta intenzione dello spirito!

Amavo e non avevo amato mai in tal modo. Così si ama una volta sola; e quanti erano al mondo che potessero dire d'aver amato in tal modo? Poteva dirlo Roveni? Impossibile!

Ma egli era un forte! Dunque la mia passione era debolezza!.. Tra questi estremi mi dibattevo! E Anna Melvi ghignava alla mia fantasia, nelle tenebre… Poi: Eugenia; il resto del mistero. Dubitavo che Eugenia m'avesse taciuto per secondo fine quel che si diceva di Roveni e d'Ortensia; pensavo anche che per pietà di me mi avesse nascosto il proposito dell'ingegnere, a lei già noto! E la rimproveravo per la libertà che lasciava alle figliole, sicchè Learchi e Roveni avevan potuto innamorarsene a sua insaputa…

Rimproveravo fin Claudio perchè riteneva ancora bambine le sue figliole!

Insomma, ero proprio come Pieruccio nell'ora, del parossismo e della maledizione!

E la voce di scherno m'arrovellava dentro: dissennato!

… Mi tranquillai verso l'alba, convincendomi, al cessar delle tenebre, che Eugenia interrogata non potrebbe nascondermi la verità. E se mi rispondesse: – Per la felicità di Ortensia si farà questo matrimonio; – e se veramente ella desiderasse d'avere in Roveni il marito della sua figliola, ebbene… io, a qualunque costo, io rispetterei il suo desiderio; vorrei io pure, come un fratello, la felicità di Ortensia. Non debole; non un ragazzo! Ero un uomo capace di una folle passione; ma sarei un amico leale.

XVII

A rivedere Ortensia così serena io, con bramosia angosciosa, l'immaginai trasformata dal desiderio vago e profondo, dalla malinconia soave e dalla gioia appassionante, dal sentimento impetuoso e ineffabile con cui l'amore invade, la prima volta, l'anima di una giovinetta. Innamorata di me! Quale delizia, quale voluttà più grande che rivelare a sè stessa, innamorata, un'anima? Con una sola parola, che sorriso non avrei io raccolto da quelle labbra? che bacio? – Non dovevo! E forse… Illusione! illusione! Convinta e ferma in un bene fraterno, ella forse apprendendo il mutamento avvenuto in me, non potrebbe amarmi: a una mia parola d'amore si ritrarrebbe, forse, con un freddo senso di ripugnanza, di profanazione, triste e delusa; nemica per sempre. Tradire il nostro affetto! Sì, ella mi voleva bene come a un fratello, con tutta l'anima! Sì, questo doveva bastarmi! O tanto, o niente! Ad altri l'amore: a Roveni, presto, i primi palpiti; le prime commozioni… – impossibile che io sopportassi!