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In faccia al destino

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… Fu dopo la partenza di Pieruccio che Eugenia, a vedermi la fronte sempre più schiarita, si compiacque del mio miglioramento.

– Merito vostro, di voi tutti – io le dissi. – Sento il bene che mi volete e non me ne sento più indegno. Come ricambiarvi?

– Restate qua con noi sino all'inverno.

– Impossibile!

Pur troppo il tempo volava e presto dovrei abbandonare Valdigorgo per cercar lavoro, sebbene non sapessi nè dove nè come. Io non ero tal possidente da vivere di sola rendita; nè speravo più rendite dagli studi, a cui avevo rinunciato per sempre.

Eugenia riprese:

– Non parliamo di partenza adesso; ve ne prego anche per Claudio. Per Claudio? – aggiunse sorridendo. – E Mino? E Ortensia?

Allora io le dissi: – Sapete che mi par d'avere una sorella in Ortensia?

– Fosse davvero! Anzi; trattatela proprio da sorella; correggetela de' suoi difetti.

– Sono così bei difetti!

– No, Sivori. Ortensia mi dà molto pensiero per il suo carattere. È eccessiva in tutto. A vederla, sembra sicura, sicurissima di esser felice per tutta la vita e si direbbe che non si preoccupi di nulla, ma poi, di tratto in tratto, senza che se ne sappia il perchè, ha certe malinconie…; i famosi capricci. Ve ne sarete accorto anche voi, benchè da poi che siete qui voi questo sia accaduto più di rado. Ma vi ricorderete delle bizze che faceva da bambina a contrariarla. Adesso per lei è una contrarietà intollerabile ogni volta che s'accorge che la vita non possiam farcela noi a nostro modo. E a questo mondo bisogna invece sopportare, soffrire. Ci son tanti doveri da compiere!; e la nostra volontà non val nulla in quello che non dipende da noi. Vorrei vederla persuasa di queste cose, per risparmiarle dolori più grandi in avvenire. Ho torto?

– No – risposi.

– Per darvi un'idea del suo carattere: quando ero malata diceva con ira al medico: «Voglio che la mamma guarisca». Voglio! Il medico e la malattia dovevano ubbidire a lei. Io peggiorai; e allora fu per parecchi giorni una disperazione muta, continua. Non mangiava, non dormiva più, sempre al mio letto, e guai se il medico o Claudio o Marcella tentavano di confortarla. Ma se io morivo?

Il discorso fu interrotto dal sopravvenire di Ortensia…

XII

Però quelle parole di Eugenia m'impensierirono. Per la prima volta, dopo, esaminai la mia condotta, meditai sugli obblighi che m'imponeva l'amicizia, dubitai che uno squallido e sordido egoismo mi trascinasse a colpa di cui un giorno la coscienza mi rimorderebbe. Egoista, io cercavo dall'affetto di Ortensia un benefizio assecondando in lei quelle tendenze che a giudicarle con senno e con lume d'esperienza erano dannose. Volendo dimenticar me stesso cercavo di veder lei spensierata, e volendo reprimere dentro di me un pessimismo mortale cercavo quella sua serenità a cui tutto appariva bello e buono. Infelice, io traevo rimedio da lei consentendo a una felicità fuori della vita reale. Ma se io volevo bene davvero a Ortensia dovevo esentarla dai pericoli di una infelicità futura; dovevo predisporla agli urti della realtà, armarla contro le violenze del destino.

Eugenia aveva ragione. Il compito che la madre mi affidava, di contenere nella figliola le facoltà e le illusioni pericolose, diveniva per me un imperioso dovere per lo stesso affetto che mi ricambiava Ortensia.

Come chi si rassegna a cosa inevitabile, deliberai dunque di ubbidire alla mia coscienza, che ora mi pareva del tutto ridesta… Oh la coscienza! Perchè non mi avvertì dell'errore in cui cadevo? Che precettore della vita potevo essere io che non avevo una fede? Senza il conforto di una fede, a qual concetto e a qual sentimento della vita potevo ammonire che non esprimesse il veleno di un pessimismo mortale?

A compier tale dovere temetti da prima di nuocere a me medesimo, ora che mi sentivo ravvivare; poi (lo confesso come si confessa un delitto), provai la soddisfazione appunto dell'adempiere un dovere grave, e avrei detto che anche in ciò si rinforzassero in me le energie dell'animo.

Se non che la fatica della mia volontà era poca.

È così facile intorbidare un'acqua limpida! M'era così facile, appena succedevano in me rivolgimenti di malumore, ripetere a voce alta note voci di pessimismo e di duolo, che ricorrevano per abitudine alla mia memoria!

 
Oh come orribil sei – mondo gentil!
 

Oppure:

 
Ascolta, Azzarellina:
La scïenza è dolore,
La speranza è ruina,
La gloria è roseo nugolo,
La bellezza è divina – ombra d'un fiore.
 

O peggio:

 
… Amaro e noia
La vita: altro mai nulla, e fango è il mondo!
 

Ortensia protestava:

– Vede se ho ragione io di non volerne sapere dei poeti? Noiosi! Han sempre da lamentarsi!

– Essi però han più ragione di te: essi han vissuto e guardato nella vita.

– No! no! han torto! Non posso credere! Noiosi!..

Protestava, batteva i piedi, ma come chi s'impazienta a udire ciò che potrebbe esser vero.

E le ripetevo:

– Tu vedi tutto bello e tutto buono. Presto imparerai che al mondo c'è più cattiveria che bontà e che il brutto supera il bello.

– Dio! Dio! che uomo! – esclamava; e rimaneva sopra pensiero un istante, guardandomi quasi mi ricercasse nel cuore quanto dolore e quanta sciagura m'avessero condotto a creder così. Le restava come un timor panico negli occhi.

Anche le dicevo:

– Tu sei facile alle impressioni, ma rifletti poco. Comincia dunque dal riflettere su le impressioni degli altri: leggi.

– Leggeremo! purchè non sgridi, non rimproveri…

Ma di leggere non avrebbe trovata opportunità se non si fosse mutato il tempo.

Al principio di settembre piovve alcuni giorni di seguito, con autunnale ostinazione; e poichè non bastava cucire o ricamare a sbalzi per passar la giornata, Ortensia dovè prendere un libro. Avevo vinto. E qual migliore consigliere di un buon libro? Io ne sceglievo di quelli che rappresentassero la vita qual è. Potevo così interrompere il triste ufficio di ammonitore e quietarmi nella consuetudine che il maltempo rendeva più raccolta e più cara, costringendoci a restar quasi sempre in casa.

Però anche lei, la sorellina, aveva vinto oramai. Era così ubbidiente, paziente, affettuosa! Io per lei sentivo rifluirmi nelle vene il sangue della salute, nè mi bisognava più uno sforzo di volontà a bandire dalla mente i pensieri maligni.

Mentre la pioggia or bruiva a pena a pena or squassava a dirotto, dalla poltrona ov'ero adagiato io sogguardavo, con le palpebre un po' chine, alla cupa linea boschiva, in fondo, tutta velata sotto il cielo piovoso, e dinanzi, giù nel giardino, agli abeti densi, dall'innumeri braccia ad arco e dalle esili vette immote a ricever l'acqua come Dio la mandava.

Ortensia leggeva. Non leggeva male; rilevava anzi agevolmente il senso e variava senza leziosaggine la bella voce, e di tratto in tratto s'arrestava, colpita.

– To'! Questo è vero! Questo è bello!

Ma talvolta non coglieva giusta la pronuncia di parole, o non poneva giusto l'accento tonico. Correggerla era tempo perduto.

– Si dice così – avvertiva io. – E lei:

– Si dice così, ma io dico a mio modo; mi piace di più!

E avanti impavida.

Sopravveniva Eugenia.

– Cerca Ortensia; cerca Ortensia… Dov'è? con Sivori! Sempre con Sivori! Ma non vi stanca?

– Voi vedete… Mi mette di buon umore.

– Non ditelo a lei, che è capace di vantarsene, la cervellina!

– Sì, mamma, che me ne vanto!

Quando non avevo voglia d'ascoltare, abbassavo del tutto le palpebre. Sognavo? No. Avevo in quest'affetto un legame alla vita; non era più un'illusione: per quest'affetto muterei in una operosità determinata e proficua l'attività del pensiero che male avevo usata in difficoltà insuperabili, rodenti ed estenuanti. La vita non sarebbe più per me una condanna; la morte non mi darebbe più un'apprensione continua; l'avvenire non m'era più pauroso, perchè non avevo più da sopportare danni e sventure senza che una voce mi dicesse: «sopporta se non per te, per me!» E mi sembrava che nel mio avvenire sorgesse, con novella aurora, il sole.

Intanto pioveva. Quando però la pioggia scemava, quasi snebbiasse, Ortensia correva a prendere l'immane preistorico ombrello di tela cerata verde, che sudavo a portare, e via, qua e là, quasi sempre non dove la strada era buona, ma per strade fangose.

Immaginarsi la fatica! Le scarpe caricandosi di fango, diventavano grandi e pesanti come case; nondimeno bisognava ubbidire alla signorina.

Al terzo o quarto giorno di quel bel tempo, l'acqua cessò quasi per uno stacco improvviso; cadde un fascio di raggi tra il nuvolo. Ortensia gridò felice:

– Non piove più! Andiamo al Ponte del Crocefisso, a vedere la piena?

Io astrologavo.

– Tra poco ricomincia.

– No. Lei non se ne intende! Non vede che Monfalco è scoperto? «Monfalco senza cappello, fa bello, fa bello»!

– Ma l'ombrello non farà male.

– Le dico che non piove più! Sono pratica io!

Via dunque senza ombrello, alla volta del Ponte.

Ella provava la stessa gioia che traeva i passeri di sotto il tetto a litigare, a garrire e a bagnarsi, o forse delle piante e delle erbe che si asciugavano ricreate. Cadeva una luce pallida, che si sarebbe detta umida anch'essa a vederla sull'erboso velluto del clivo; finchè a levante trasparve, si colorì, si delineò, s'avvivò a un tratto, andò attenuandosi e scomparve, l'arcobaleno.

– L'iride! – aveva esclamato Ortensia. – Glielo dicevo? Non pioverà più!

– È già sparito. Noi torneremo a casa molli fracidi.

Infatti da mezzodì avanzava una schiera d'altri nuvoloni, più neri, che avrebbero persuaso un eroe romano a tornare indietro e che invece attraevano alla meta la mia compagna. Ci arrivammo, come Dio volle, a osservar l'acqua torbida che passava gemebonda sotto il ponte, superava enormi massi alle rive, piegava i giunchi e le canne da cui l'oscura vôlta era invasa. Da lato, più gaia, chiara e spumeggiante, precipitava nel torrente l'acqua che un canaletto formato d'asse riceveva da un serbatoio in alto. La chiesuola a capo del ponte e a ridosso del monte, usciva candida dal verde folto e cupo, e dinanzi alla porta, più bassa, aveva un piccolo portico.

 

– È uno spettacolo stupendo! un paesaggio stupendo! – Ortensia ripeteva.

Io guardavo il cielo livido, plumbeo.

– Ortensia, ci siamo!

– Uhm! Comincio a crederlo anch'io! M'è caduto un gocciolone sul naso!

Ci rifugiammo, di corsa, là sotto il piccolo portico.

Ora quasi mani invisibili con infantile divino sollazzo rovesciavano dal cielo secchie a furia; fitta fitta, grossa grossa, scrosciava la pioggia: precipitava; piegava ramoscelli e rami; penetrava tutto, si raccoglieva in rigagnoli, correva, allagava; e sotto quel chiasso il rombo sinistro del fiume e il fragor della cascata.

La breve zona asciutta, ove eravamo, assumeva in tale diluvio, in tale violenza, un'apparenza di protezione miracolosa; e a guardar per la grata nell'oratorio, veniva da quel silenzio di là dentro, da quel senso di chiuso, da quella penombra in cui giaceva il Cristo di rozza pietà, una promessa di pace contro tanto fracasso.

Ortensia guardò là dentro anche lei; poi sorrise a riveder l'intemperie.

– Come si sta bene qui! – Ascoltava.

A me una voce diceva: «Per due anime concordi c'è sempre un asilo».

E il giorno dopo:

– Che piova un poco, pazienza! Ma così! – Ortensia batteva i piedi per l'ira. Soggiunse:

– È ora di finirla! Non ha desiderio d'un po' di sole anche lei?

Ebbene, sì, anch'io desideravo il sole! Con un piacere, con una letizia lo desideravo, quale non avevo provata forse mai in mia vita.

Oh il sole! il sole!

Comprendevo la gioia che del sole avrebbe Ortensia; e dal medesimo nostro desiderio apprendevo che la nostra consuetudine era divenuta l'affinità spirituale da me voluta; io sentivo che finalmente godrei del sole come Ortensia, con Ortensia.

XIII

Il sole! Il sole!

… Ortensia, là in mezzo al prato, con la gonna bleuastra e il corpetto chiaro, sorgeva evidente dal verde e contro il verde; e l'aria là in mezzo sembrava più luminosa, ed essa una forma di vita più viva d'ogni altra e più bella.

– Ortensia! – Io la chiamai a voce alta, compiacendomi del mio grido.

– Che cerchi, Ortensia?

Non rispondeva; faceva pochi passi, l'occhio intento a terra. Ma avvicinandomi, compresi.

– Cerchi la buona fortuna, per me?

Rispose sorridendo: – Sì.

– Non la troverai!

– Io? – esclamò col tono d'impazienza e d'ira che per giuoco assumeva spesso. – Io non la troverò?

– Nè tu, nè altri. Del resto, non so che farmene della fortuna!

Scherzavo; ero lieto. Ella ne fu certa e sorrise, esclamando:

– Dunque il trifoglietto per l'amore!

– Che sai tu dell'amore e de' miei amori?

– So che lei un dì o l'altro prenderà moglie e che…

– Oh se per questo – interruppi – , non lo troverai il trifoglietto dalle quattro foglie!

– Io lo troverò anche se lei non prenderà moglie! Lo voglio, e basta!

Ma là non ce n'era di pronto al suo sguardo; e sapeva dove la fortuna ne nascondeva.

– Venga con me!

Per un viale tortuoso, fra le macchie, si giungeva a un prato estraneo al giardino, in cui alcune donne risciacquavano il bucato in una cisterna. A questa recava l'acqua un piccolo fosso, queto queto, alle sponde del quale cresceva l'erba e abbondava il trifoglio.

Le donne ci osservarono tra le file dei lenzuoli stesi su corde da palo a palo; poscia ripresero il cicaleccio e lo squasso.

– Sarà meglio la cerchi io per te, la fortuna! – dissi io.

– Avanti! a chi la trova!

E andavamo adagio adagio, lungo il piccolo fosso.

– Una sposina per Sivori: bella… buona…

Quindi passando rapida, come soleva, dal pensiero presente a un pensiero o a un ricordo che apparentemente non aveva con quello uno stretto legame, Ortensia aggiunse:

– Anna… Oh! io la disprezzo, Anna!

– Adesso…

– No, sempre; anche prima che lei venisse quassù!

– E l'accompagnavi a trovar Roveni?

– Insisteva tanto! Poi, non facevo niente di male, io!

– Ne sono convinto, di te. Ma Anna che faceva?

Mi provai ad attenuare nel tono della domanda, non la curiosità, bensì il timore che m'induceva a interrogarla. Quasi non osavo guardarla in faccia.

– Non so… non posso dir nulla…

– Non vuoi dirlo!

– Non posso dire quello che non ho visto.

– E allora perchè accusi?

– Perchè… perchè quel giorno dei pizzicotti, io scappai a veder lavorare in fabbrica. Quando tornai e fui sotto la finestra dello studio, sentii che Roveni sgridava ad Anna…

– Cioè?

– Diceva piano: «C'è Ortensia…» Capisce? Era lui, Roveni, che doveva sgridare ad Anna! Dunque, mi pare…

Io, senza più titubanza avevo fissato lo sguardo negli occhi di lei per scoprirne tutto il pensiero; nè riuscendoci, perchè volevo più del suo pensiero, sentii il bisogno di rimproverarla ancora.

– Tu ascoltavi, sotto la finestra!

– No! glielo giuro!

In questo mentre una delle donne con la gerla piena di biancheria veniva verso di noi. Salutò, si fermò e chiese con faccia franca:

– Cosa cerca, signorina?

– Cerchiamo fortuna, Teresa!

– Eh non ne han bisogno loro! – disse la donna sorridendo un po' maliziosa. Ma Ortensia, ingenua:

– Non ci credi, tu, nel trifoglietto dalle quattro foglie?

E l'altra guardando a me;

– La povera gente non ci crede in queste cose!

– Male! Se tu ci avessi creduto quand'eri ragazza, adesso non faresti più la lavandaia; saresti contessa o duchessa.

– Oh ne trovavo tanto anch'io, quand'era giovane! – confessò la donna intanto che riprendeva il sentiero. – Ma sì! Ci vuol altro!

Per dire qualche cosa, io dissi:

– Hai sentito? Andiamo, che è tempo perduto.

– Nossignore! – esclamò Ortensia. – Io ci credo!

Così proseguimmo; lei dimentica del discorso di prima, e io tornandoci in segreto, quasi per forza, e con un sentimento di profanazione.

Aveva appena diciassette anni: che le avevano appreso i sogni? le letture? le compagne? l'esempio di Anna? Quanto sapeva, insomma… dei piaceri e delle brutture dei sensi?

Possibile che dell'amore non presentisse quei diletti che il mistero ingrandisce alla fantasia nelle prime commozioni del sangue? Possibile non avesse pensato che certe «brutte cose» diventano lecite e desiderabili solo per la benedizione del prete e per il vincolo della legge?

Che turbamento avevano lasciato nell'animo suo le audacie della Melvi con Roveni? Che cosa, a quelle parole, terribili per me e sollecitatrici per lei: «C'è Ortensia…», aveva immaginato? un bacio?.. soltanto? Ciò che poteva aver immaginato essa cercavo d'immaginar io; e ora mi pareva eccessivo il mio pensiero, e ora limitato troppo; e avrei voluto chiarirmi con inchieste che non sapevo nè dovevo fare: il senso di profanazione s'accresceva entro di me a un ribrezzo quale per una indagine vergognosa.

La guardavo. Sì, sì, era affatto dimentica del discorso di prima: il sole le splendeva nei capelli; cercava, bambina, il trifoglietto dalle quattro foglie.

Io, uomo e corrotto, non sapevo neppure perchè temevo tanto; edotto dalla scienza, non sapevo perchè ora vedessi un male in una necessità fisiologica, se qualche imperioso moto del sangue e dei sensi richiamasse in Ortensia immagini sensuali. Temevo; soffrivo; e mi consolavo a guardarla… Mi ripetevo che voci di colpa erano giunte al suo orecchio, ma non all'anima sua; e io avevo ben visto in lei il contrasto fra la voglia puerile di mostrarsi perspicace e il pudore istintivo che le faceva parere enorme quel che ricordava; il lume degli occhi, mentre parlava, e il lieve colore passato nelle sue guance, subito avrebbero dovuto accertarmi che a lei ripugnava rimeditare ogni impurità, proprio per un pudore d'istinto; per uno oscuro sgomento dello spirito; per una nativa repulsione da ciò che l'intelligenza le aveva appreso senza volere. E la stessa sua attività fisica…

– Ebbene? Non dice più nulla? – mi chiese tutta contenta di costringermi a pazientare con lei nella ricerca. – A che pensa? Ohe! signor dottore!..

Ma repentinamente io avevo osservato… Gridai: – Là! – Nè avevo compiuto il monosillabo che Ortensia, con più alto grido di gioia, raccoglieva il quadrifoglietto, al margine del fosso.

– L'ho visto prima io – feci rallegrato, più che dal caso, da quella allegrezza di lei, che bastava a dissipare dalla mia mente e dal mio animo l'ultima ombra.

– No, prima io! Mi chinavo a raccoglierlo proprio quando lei ha detto: – Là!

– Non è vero!

– È vero! – S'inquietava. Finchè, rabbonita, mi disse:

– A lei: glielo offro.

– Non lo voglio! Sono io che l'offro a voi, signorina, per ricordo, per augurio, per gratitudine, per omaggio.

– Auff! – Diventando minacciosa, gridò: – Lo butto nell'acqua!

– Guai! la fortuna si vendicherebbe di tutti e due: anche di me che non l'ho cercata per me.

– Dio! Dio! Che pazienza!

Ma infine ebbe una buona idea.

– Leveremo a sorte chi debba conservarlo; benchè sia di tutti e due.

La sorte favorì Ortensia; e io godetti anche di questo!

Ero dunque riuscito nell'intento di attenuare la mia esistenza, così e così ricuperavo la vita con piena letizia, e dissipavo ogni fosco pensiero e obliavo? O dovevo al sole la novella gioia? Che deliziose ore riebbi nel giardino di Moser! Rivedendomi nei giorni del mio rinnovamento, con che cuore rivedo il bel luogo!

Verso nord acacie e robinie e alberi in ischiera disegnavano l'erta, con la strada del vecchio convento; e più oltre, riprese di boschi.

Alla parte occidentale, era un confine di siepi, tigli e platani: a mezzodì la catena di monti in linea uguale, netta, tagliava il cielo; simile a un limite remoto ma preciso. E da questo limite, d'un cupo verde, alle ore meridiane sormontavano nel cielo cristallino nuvoli di bambagia lucente al sole, che cadevano all'ombra delle montagne occidue con pallore improvviso. Più spesso, sorgevano vapori bianchi, quasi segnali d'una terra ignota e invisibile. Sopra, nello spazio di cielo, passeri traversavano, pari a frecce, e le rondini esercitavano obliqui voli e volteggiamenti.

Là dentro, nel giardino, ricevevo adesso impressioni di cui non credevo più capace il mio spirito; mi beavo nell'amore della campagna. Vedevo che riflessi metallici il sole traeva dalle foglie lisce delle magnolie e dei lauri; come penetrava radioso tra il folto degli abeti; che toni gialli suscitava dalle acacie e dai tigli; che denso e lieto verde gli opponevano le tuje; di che sovrano fulgore investiva i fiori e allagava il prato. Poi, di quelle piante conoscevo tutte le attitudini e le movenze: dai molli abbandoni nell'aria mite, alle agitazioni penose nella furia del vento. Anche avvertivo effluvi di profumi semplici e commisti, alcuni dei quali da me non avvertiti mai. Certo, in quella famiglia di piante ed erbe conoscevo pur dei rami che intisichivano, e steli che pativano, e fiori che perdevano petali; ma tali indizi di infermità e di morte sparivano dal mio sguardo confusi in un vasto e complesso aspetto di giovinezza, di vita intensa, feconda, continua, gioiosa: fiori e verde, luce e calore, giovinezza e amore!

Il sole! il sole! Finalmente nell'eterno splendore che avvolgeva tutte le cose io rivedevo l'energia della vita universale e nella vita universa tornavo a sentire me vivo. Al cielo, che bianco intorno al divino lume diventava con insensibile gradazione del più puro cobalto e del più puro indaco, tendeva da tutta la terra un'anima sola, letificata: e in quella letizia comunicavano con voci udibili e con voci inaudite le anime di quanti corpi volavano per l'aria; le anime di quanti corpi correvano e indugiavano su la terra, o serpevano tra l'erba, o si ricercavano sotto terra; le anime di tutti i fiori e le anime d'ogni natura vegetativa; le anime delle acque fluenti, dei fuochi e dei vapori latenti; le anime in tutte le forme ancora ignote ad occhio umano, e l'anima mia. E per l'addietro io avevo infranto in me il vincolo di tale comunione! Per essere felice, m'ero staccato dalla universale vitalità; al lume del sole avevo creduto poter opporre il lume del mio pensiero, e vivere! Pazzo!

Ora io mi gettavo su l'erba col gaudio di un bambino che ritorni tra le braccia della madre. Navigavo con lo sguardo per il cielo fin dove lo sguardo poteva resistere, e ascoltavo ogni più debole suono, e addentrandomi con lo spirito nelle sensazioni molteplici, smarrivo felice la continuità del mio pensiero. Oh non pensare! non pensare mai più! e vivere!

 

Nè pensavo ai filosofi che predicarono il benefizio del tornare all'amore della terra e della campagna: sentivo in me una virtù superiore alle loro concezioni.

E non pensavo al piacere di chi va per i campi in traccia della sua scienza di cause e di effetti, nè alla consolazione del poeta solitario il quale chiama cielo e terra a testimone del suo amore.

Perchè io sapevo di una vita più viva, di una consolazione più pura, di una gioia più umana e naturale insieme: quella della fanciulla che viveva meco là fuori, nel giardino, con finezza sensitiva, con anima ignara, con intelligenza serena. Per Ortensia tutto viveva; a lei tutto parlava, senza sua riflessione, spontaneamente. Strapparla via di là, a un tratto e per sempre, sarebbe stato come recidere un fiore.

Ella ne recideva, dei fiori, per adornarsene; ma alcune volte l'udii dire: – peccato! – ; e altre volte notai che dalla pianta non staccava il fiore più bello.

XIV

Chi mi richiamava a cose più gravi?

Moser a vedermi «così chiaro», come egli diceva, diventava più chiaro anche lui.

La sera, di ritorno a casa, m'abbracciava, esclamando:

– Te lo dicevo io? L'aria di Valdigorgo fa miracoli! Non ti resta che abbandonare per sempre Spinoza e compagnia, e sarai l'uomo più felice del mondo!

Quanto a lui, Moser, continuava la sua vita di lavoratore indefesso e fiducioso. E gli argomenti che egli adduceva a sostegno della sua fiducia, mi persuasero a poco a poco che la disparità di criteri fra lui e Roveni indicasse in Roveni un po' di gelosia per la superiorità di Moser. Il direttore avrebbe voluto primeggiare in tutto e su tutto, nell'azienda; dominare anche il principale, perchè tal era la sua natura; di qui il suo malcontento.

Così mi tranquillai, e tranquillato non pensai più agli affari di Moser. Solo, ad accorgermi che negli occhi di Roveni persisteva un'ombra, ne riferii il motivo al dissidio, lieve del resto, che egli aveva con Claudio. Del resto, all'infuori di quell'ombra, la quale poteva essere anche indizio di stanchezza, nulla appariva di mutato nelle abitudini e nelle attitudini del giovane ingegnere. Mi par di vederlo allorchè veniva a noi, la sera, dallo studio di Moser, là dove l'aspettavamo. Si arrestava su la soglia della sala o della terrazza, quasi a prender possesso della situazione. La sua prima occhiata era diritta alla mia volta; ma non me ne meravigliavo, perchè di solito ero nel gruppo giovanile, e di là prorompevano le grida che sfogavan la lunga attesa; applausi di Anna e Ortensia; rimproveri a mezza voce di Marcella; comiche esclamazioni di Guido.

– Che si fa? – domandava, sembrava comandare Roveni.

Se gridavano polka o waltzer, egli afferrava, senza indugio nella scelta, o Anna o Marcella o Ortensia, e trasportava la ballerina seguendo la novella foga della signora Fulgosi, sotto le cui rapide mani il pianoforte scontava le colpe del cavaliere.

Veramente Roveni rideva poco o punto, e per me sarebbe stato non bell'indizio se non ci fossimo trovati in mezzo a compagni che ridevan tanto. Mi pareva ch'egli dovesse sentirsi di tempra diversa e più forte. Sorrideva a pena pur quando Ortensia voleva strisciar il waltzer con il cavalier Fulgosi e il povero gentleman era costretto a scomporsi e ricomporsi alle norme dello strascico musicale, che la moglie protraeva per dispetto.

Talvolta però scherzava anche lui, l'ingegnere. Non di rado si schermiva dai giuochi e attaccava discorso con le signore e con i soliti contendenti politici, il cavaliere e il vecchio Learchi. Mi chiamava allora senza badare ad Anna, che l'avrebbe sempre voluto al suo fianco.

– Qua, dottor Sivori! È vero o no che in paese è corsa la voce…

Serio, mi obbligava ad attestare una strampalata notizia di sua invenzione, la quale era un po' scandalosa e faceva sobbalzare per le risa l'adipe della Melvi madre. Oppure dal gruppo degli uomini diceva a voce alta verso di me: – Me n'appello al dottor Sivori! È vero o no che la guerra è nella natura delle cose? È vero o no che secondo Darwin, o Spencer che sia, la prevalenza della forza è la legge dell'esistenza universale? Dunque i fautori della pace universale sono i peggiori nemici della società. I socialisti poi… a domicilio coatto! in galera! mitraglia!

Io assentivo allo scherzo, pur osservando che anche in questo si rivelava l'energia dell'uomo.

Il vecchio Learchi grugniva: – bravo! – ; e il cavaliere spalancava le braccia.

– No, dottore, no!.. Non faccia bonne mine à mauvais jeu! Stasera il nostro bravo ingegnere è un po' farceur. Prima di tutto, confonde i socialisti con i più nobili, più puri pensatori della pace universale! Eppoi… eppoi condannare sans façon tutti i socialisti, condannarli in nome della scienza… ohibò… è un'eresia! La scienza è amore!

E giù uno sproloquio per finire con la libertà nell'ordine e viceversa. Ma parlava con arte il cavaliere, mentre ascoltava e osservava sè stesso. Il suo gestire era effetto di lungo studio, perchè gli altri ascoltatori ammirassero i polsini, i gemelli nei polsini, gli anelli delle dita, il candore e l'arco delle unghie. Ed ora tendeva il braccio agitando due o tre volte la mano aperta a dita aperte; ora col gomito nel braccio della poltrona abbandonava la mano fuor del polsino quasi fosse sostenuta da quello; or appuntava all'avversario l'indice teso fuor del pugno mollemente socchiuso col pollice a contatto del medio; or apriva ad arco ambedue le braccia e concedeva la vista d'ambedue le palme nell'atto del porgere…

Bisogna anche dire il perchè da quando era stato bandito Pieruccio l'eloquenza del cavaliere navigava per il mare magnum della pacificazione sociale. Da che moveva in lui, a che tendeva il desiderio di così vasta idealità?

Moveva dalla guerra domestica; intorno a cui informavano le Melvi. La lontananza di Pieruccio aveva sollevato l'impenitente Don Giovanni, il vieux marcheur, da un grave peso, dal timore di scandalizzare il figliolo; e un giorno la signora l'aveva sorpreso mentre egli affrettava gli approcci alla facile fortezza della cameriera. Questa, bandita a sua volta, era andata rivelando per il paese le velleità del padrone e la gelosia frenetica della padrona; onde chiacchiere e risa. Il ridicolo!

La famiglia Fulgosi nel ridicolo!

– Colpa vostra: vergognatevi! – diceva la signora.

– Colpa vostra! – ribatteva il marito. – Siete nervosa nervosa nervosa! E bisbetica! e accattabrighe! Gentildonna in apparenza; in realtà, povera donna! Sì: povera donna!; lo ripeto senza tema di essere smentito: povera donna!

Senza smentire, la gentildonna scagliò una spazzola a scomporre l'accurata pettinatura della barbetta maritale.

Onde l'idea di fondare in Valdigorgo il «Club della caccia» con inaugurazione al 20 settembre. Sissignori: dalla guerra famigliare nacque nel cavaliere il desiderio di portare la pacificazione sociale a Valdigorgo.

Dividevano il paese: socialismo germinante fra gli operai della fabbrica Moser; moderatume governante in municipio con irremovibile fede nel consiglio: «Adagio, Biagio!»; codineria collegante il grasso priore al non men grasso e più cocciuto Learchi, ai quali tenevan bordone clienti o satelliti in buon numero.

Anche lassù covava dunque l'odio di classe. Covava? Generava nelle osterie, nel caffè di mezzo e nel caffè grande, lunghe e feroci discussioni, che alla lor volta partorivano odii personali, indegni del vivere civile, dell'amor di patria e dell'alta politica quale insegnarono Cavour, Bismarck, Gladstone, e quale insegnava il cavalier Fulgosi.

La pace è il maggior bene dei popoli, dei paesi, di un paese! Il cavalier Fulgosi nel caffè grande esortava al bene di Valdigorgo: «Primo passo, unitevi, o cittadini, nel nome dello sport!» Solo sport a Valdigorgo era la caccia. Ebbene: in un club ove si raccogliessero per amor della caccia avversari d'ogni sorta, quanti dissidi potrebbero esser composti, quante questioni risolute, quante diatribe mitigate, quanti danni riparati, quanti vantaggi provveduti! Perciò l'idea del cavaliere comprendeva la sublime elevazione di un volo lirico: dall'amor della caccia all'amor della pace, all'amor del paese, all'amor della patria tutta! Il proposito poi d'inaugurare il nuovo club nel giorno anniversario della compiuta unificazione della patria con la capitale Roma, non aveva forse qualche cosa del moderno machiavellismo cavouriano, bismarchiano o gladstoniano? Come potrebbero esimersi dal partecipare alla festa nazionale cacciatori d'ogni sorta, fossero pure socialisti o clericali, se l'invito apparentemente non chiamava che a festeggiare l'amor della caccia e della cacciagione? Fin il sindaco, che cominciava a dubitare della sua resistenza nella onorifica carica da molti anni occupata, ascoltò il consiglio del segretario: